All’alzarsi del sipario lo
si vede affranto sul seggio del suo padrone nella solitudine più completa, per
poi lasciare subito il campo alla festa lasciva che gli chiederà la sua
maschera più grottesca e feroce. Le qualità interpretative di Leo Nucci, che rende
scomodamente credibile in ogni gesto il suo Rigoletto, sono la punta di
diamante della messinscena del capolavoro verdiano diretta da Lorenzo Amato
applaudito al Massimo di Salerno. Il regista si affida a un cromatismo
aggressivo per narrare una vicenda di violenze, inganni e aspirazioni
calpestate: il nero dell’abuso, della mancanza di coscienza, il rosso,
declinato in tutte le sfumature possibili, della carnalità e della passione, su
cui spicca il bianco innocente della figlia di Monterone, che si aggira tra gli
invitati del Duca di Mantova smarrita e sola non meno del buffone né meno
vittima di lui -che pure, da servo coscienzioso, la insulta- di un contesto
preoccupato solo di soddisfare ciò che vuole. La scena iniziale in cui i
convitati si abbandonano in una sorta di orgia ai propri istinti non è infatti
gratuita, ma oggettiva in tutto ciò che lo circonda l’animo del Duca, che
concepisce l’esistenza come appagamento, senza tenere conto del prezzo che la
conquista comporti. L’ampia scalinata della dimora ducale allude a una visione
implacabile delle cose, per cui chi si trova (o si illude di essere) in alto è
quasi naturalmente portato a schiacciare chi è in basso. La dimora a due piani
di Rigoletto è leggibile a sua volta in senso simbolico: la donna che veglia
dall’alto la figlia del protagonista è anche quella che aprirà la strada alla
rovina, a dimostrazione di come i personaggi principali subiscano un destino
che li sovrasta. L’opera fa emergere una concezione distorta dell’atto del
desiderare. Senza poter manifestare liberamente la propria essenza, Rigoletto
asseconda e subisce il volere del nobile, quest’ultimo sacrifica al suo egoismo
le brame altrui, Gilda sceglie la morte in nome di quell’amore che avrebbe
dovuto darle nuova vita. Desiderio e crudeltà sono i due poli tra cui oscilla
la vita del buffone, lacerato dallo struggimento di non poter difendere
quell’umanità che lo ingentilisce e che si concretizza nell’affetto esclusivo
per la figlia. Alla dialettica alto/basso fa da contraltare quella giocata
sull’interno e l’esterno. I sentimenti più elevati sono confinati in spazi
chiusi, la sopraffazione si attua all’aperto o in luoghi che abbiano una
“consacrazione ufficiale” (il salone del Duca). Con Gilda muore la possibilità
di uscire da quell’incubo buio che è il mondo dei potenti.
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