Che cosa resta quando la vita appare nella sua
essenza di nudo inganno? L’esercizio libero e spietato dell’intelligenza che
non risparmia nulla, men che meno se stessa. Attraverso un’attenzione
filologica che non è cieco ossequio al testo, ma tentativo riuscito di
evidenziarne l’attitudine alla rappresentazione, Mario Martone raccoglie gli
applausi del Teatro Verdi di Salerno con il suo allestimento delle Operette
Morali di Giacomo Leopardi, che ha vinto il Premio Ubu per il teatro e il
Premio La Ginestra
2011 per la migliore regia, nonchè il Premio dello Spettatore 2012 Teatri di
Vita di Bologna.
Passione e
rigore trovano pieno equilibrio in un cast (Renato Carpentieri, Roberto De
Francesco, Iaia Forte, Paolo Graziosi, Giovanni Ludeno, Paolo Musio, Totò Onnis,
Barbara Valmorin, Victor Capello) che schiva le rappole della declamazione,
facendo emergere in ogni battuta quella forza evocativa che l’autore considerava
cruciale nel discorso artistico. In una cornice che si affida a pochi oggetti
(due sedie, uno scrittorio, una panca), riflettendo così una scrittura che non
ha mai amato i fronzoli, le invenzioni sceniche di Mimmo Paladino seducono
nella loro aristocratica immediatezza. La terra e la luna che si stagliano nel
buio, la gigantesca maschera del gallo silvestre di cui si sottolinea a buon
diritto l’aspetto antropomorfo nel suo monito alla paziente attesa del nulla,
l’ovale luminoso in cui la Moda
e la Morte si
specchiano l’una nell’altra, accomunate dal potere della distruzione, la statua
dal cui interno la Natura
ricorda all’Islandese la sua vacuità inducono il pubblico a percepire le
dinamiche dell’opera come qualcosa di straordinariamente vicino alla
sensibilità moderna. La disincantata solennità di Paolo Graziosi fa da filo
conduttore ai dialoghi, presentati come tasselli di un mosaico in cui ogni
parte è in sé necessaria e intimamente legata alle altre, mentre la scelta di
affidare a Barbara Valmorin il ruolo di Porfirio nel dialogo con Plotino
sottolinea come la riflessione sul dolore, sulla morte, sul significato
dell’esistenza appartenga a chiunque al di là di ogni categoria. La conclusione
è a sua volta dolorosamente affascinante. Nel Dialogo di Cristoforo Colombo e
di Pietro Gutierrez (sullo sfondo una vela disseminata di simboli che si
rifanno a una geografia dell’immaginario) si avverte la nostalgia dell’altrove,
il bisogno di spingere lo sguardo verso ciò che non è stato ancora colto.
Quando gli attori escono e la vela piomba al suolo, resta Leopardi stesso, che
abbassa il capo. È svanita l’ultima illusione e nel suo atteggiamento si
mescola la stanchezza di credere e il desiderio (il nulla non ci ha ancora
inghiottito) di credere ancora.
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