Quello di Luca Trezza è uno
spettacolo disturbante. Si respira disagio come fosse ossigeno. Eppure è
estremamente necessario. Non tanto perché vale più di mille dissertazioni sulla
schiavitù psicologica del web –dissertazioni che sono oggetto di feroce
parodia- e non solo perché l’interprete, drammaturgo e regista salernitano
consuma ogni fibra del suo essere nella performance. Classificatosi al primo posto nella sezione Teatro al Festival della
Creatività di Roma Capitale 2013 e prodotto da Formiche di vetro Teatro in
collaborazione con Erre Teatro di Vincenzo Albano (che promuove il progetto “Tra scrittura e performance. Voci della scena autoctona”),
Www.testamento.eacapo,
di scena al Teatro del Giullare, è uno specchio generazionale tendente di
continuo al parossismo e al tempo stesso il ritratto convulso di un’anima
serrata nelle proprie nevrosi. I pochi oggetti in scena (un bicchiere di latte,
una web-cam, una rosa, un leggio dove campeggiano emoticon) descrivono le
fragili coordinate di quello che potrebbe essere liquidato come un sociopatico.
Agita il braccio come se respingesse qualcosa di maligno, mescola il dialetto
napoletano, quello romano, un italiano pseudo-aulico e concreto, danza in
circolo reggendo il filo della minuscola telacamera come se fosse un
prolungamento di sé. Il corpo di Trezza è esagitato perchè riflette
l’incapacità di divincolarsi da se stesso. Le catene che lo stringono mentre
attende invano su di un ponte la ragazza X conosciuta in chat (lo stesso ponte
da cui un uomo fa precipitare la moglie per aver scritto su Facebook di essere
single: le parole sono pietre) sono il legame ossessivo con il passato, la
difficoltà di appropriarsi del tempo, l’insofferenza di non riconoscere più il
proprio volto nello scorrere insensato delle ore. La rosa posta nel bicchiere
di latte allude alla passione che trae linfa dalle pulsioni dell’infanzia,
quasi fosse un’occasione per ritrovare la propria identità: opportunità
frustrata dall’impossibilità di manifesatre una sessualità adulta. La mela divorata
simboleggia il tempo consumato senza costrutto, il vecchio osservato da un
androne prefigura l’aridità che lo attende. Nell’eterno presente della chat,
dove tutto può ripartire da capo, il passato è un fantasma molesto e il futuro
un nome da dare al proprio nulla. Quello contro cui il giovane si accanisce è
la frustrazione di chi è ormai ridotto a un nickname, senza sperimentare i
rischi e i piaceri della carne. Ecco allora che il suo percorso è un falso
movimento: gli orizzonti si restringono fino a scomparire e poco vale guardare
dentro di sé fino alle ossa. È la vita stessa a non apparire su quel ponte
solitario.
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