Talmente
contorta da riuscire inespugnabile o così banale da non avere più alcun senso.
La parola oggi non è più porta sul conoscibile ma raggiro del potere e rifugio
della superficialità. Non resta che ricorrere alla manomissione nella duplice
accezione di danneggiamento e di liberazione. Si intitola appunto “La
manomissione delle parole” la performance di Gianrico Carofiglio, diretta da
Teresa Ludovico e accompagnata dal fagotto di Michele di Lallo, che è stata
accolta con successo dal Teatro Verdi di Salerno. Il musicista suona al di là
di una sorta di velo brani notissimi come “Michelle” e “Una furtiva lacrima”.
La riconoscibilità dei pezzi crea un grande contrasto con le assurdità
linguistiche contestate da Carofiglio con pacata ironia e restituisce al suono
la sua peculiarità spesso sconfessata: giungere alla parte più profonda di chi
ascolta. Dall’opprimente lessico della Cassazione al complicato verbale su un
furto di fiaschi di vino ricordato da Calvino fino al latino maccheronico e
alle castronerie dei tribunali, i vocaboli si tramutano in oggetti antiumani.
Se infatti, come ricorda Aristotele, nella parola risiede l’essenza dell’uomo,
proprio quest’ultima è tradita dallo sradicamento dal significato. Su tutto
incombe il terrore semantico, cioè il rigetto della precisione, dell’aderenza
alle cose. Quando le parole smarriscono il senso, si apre il baratro. La
povertà espressiva dei violenti e l’ipocognizione degli abitanti di Tahiti
negli anni Sessanta, che impediva di dare un nome alla depressione, rivelano
l’impossibilità di guidare la propria vita, perché non ci si riconosce nel
proprio linguaggio. La neolingua di “1984” e gli stereotipi nazisti sono accomunati dal bisogno di costringere in
un angolo il pensiero, togliendo respiro alla lingua. Ecco dunque l’urgenza di
riscoprire il logos nella sua creazione di prospettive e di attingere a quelle
“sacche di senso” che sono i contrari. La parola chiave, che non prevede il
contrario e che diviene capacità progettuale è scelta, il solo antidoto
all’indifferenza, che Gramsci definì “peso morto della storia”. Solo
restituendo le parole a se stesse, potremo affermare con Henley, l’autore di
“Invictus: “Io sono il padrone della mia sorte. Io sono il capitano della mia
anima”.
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