Si dice che chi subisce un danno è pericoloso, perché sa di poter
sopravvivere. E quando è superato ogni limite, ai carnefici non basta guardarsi
di continuo le spalle: la tenacia delle vittime li raggiungerà proprio dove si
sentono al sicuro. Basato sul testo di Carmen Piermatteo Gatto, “SS45326-La
gabbia di vetro” è lo spettacolo proposto dalla compagnia amatoriale “Arena
historica” per la regia di Andrea Carraro presso il Teatro delle arti di
Salerno. L’allestimento, fortemente voluto dalla Fondazione Filiberto e Bianca
Menna presieduta da Claudio Tringali e dall’Associazione Amici della Fondazione
che ha in Rosanna Belladonna la sua presidentessa, ricostruisce con cura e
passione la storia del processo al nazista Adolf Eichmann, interpretato da
Riccardo Notari, che contribuì fattivamente al piano di sterminio ebraico, pur
presentandosi come un semplice strumento nelle mani del potere. Lo scenario del
1961 è tratteggiato con onestà intellettuale. L’imputato presenta una sua cupa
coerenza nella fedeltà ossessiva al Reich come nell’ipocrita richiesta di
perdono, poiché un sentimento di superiorità morale lo rende comunque autorevole
ai propri stessi occhi. Il contesto israeliano è recuperato nelle sue scomode
lacerazioni: i sopravvissuti alla Shoah considerati scarti da parte
dell’orgoglio sionista, l’ostilità verso Hannah Arendt, che seppe cogliere
l’aspetto burocratico, e dunque pervasivo,
della malvagità, le ombre del collaborazionismo. Mentre Tringali dà
corpo e anima all’intransigenza di Moshe Landau, presidente della corte di
Gerusalemme che vuole difendere la giustizia senza remore né trionfalismi,
sostenuto dalla moglie (Rosanna Belladonna), la difesa, che ha il volto di
Marcello Giani, tenta di delegittimare l’azione contro il suo assistito,
prendendo le mosse proprio dal modo in cui quest’ultimo fu catturato dal Mossad,
che lo scovò in Argentina e lo drogò per condurlo in Israele. Trova tuttavia un
degno avversario nell’appassionato pubblico ministero Gideon Hausner (Arnaldo
Franco), mentre strazianti testimonianze si susseguono. La messinscena si
affida alla nuda essenzialità delle parole, perché la forza delle
argomentazioni possa risaltare in tutta la sua limpidezza. Si assiste a una
sorta di castità estetica: la scenografia è semplicissima, basata su tavoli e
pochi giochi di luce, mentre gli interpreti, lontano da qualsiasi velleità,
vogliono proporsi come specchio di un evento che non cessa di inquietare. Come
impedire al nazismo di avvelenare per sempre l’anima? Recuperando ciò che di
umano può esistere, come mostra la decisione di Moshe Bejski (Carraro) e di
Landau di creare un Giardino dei Giusti. L’applauso beffardo di Eichmann dopo la
condanna non fa che confermare come sia morto ancora prima che la corda della
sentenza gli spezzi il collo. Ciò che impone la sua forza è
spesso più buio di
un sepolcro e ciò che è morto ritorna a donare un motivo per vivere.
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