Il corpo può
essere la peggiore delle prigioni. E come uscirne se non attraverso il dolore
fino all’ultimo spasimo? Basato sull’omonimo monologo di Emanuele Tirelli,
maturato nell’ambito di un progetto contro i disturbi alimentari, “Ofelia in
the dog days” è lo spettacolo diretto da Alessandro Gallo e applaudito
nell’ambito di Out of Bound, la manifestazione promossa dalla Laav di Licia
Amarante e Antonella Valitutti presso la Chiesa di Sant’Apollonia di Salerno.
L’abbacinante concretezza dell’opera di Tirelli, che unisce con profondo
trasporto crudeltà e struggimento, trova l’interprete ideale in Giulia
Pizzimenti per l’intensità e il coraggio con cui si prodiga in un personaggio
disturbante. L’anoressia e la bulimia che stritolano Ofelia, tra ambizioni
lavorative, estranei solo all’apparenza equilibrati e un Amleto che antepone le
intenzioni alle iniziative, nascono da un insolente e sacrosanto disgusto per
tutto ciò che non sia comprensione e amore. Testimone e simbolo di questo
deserto emotivo è l’uomo silenzioso con la maschera di Bush, perfetto emblema
di ottusità (il generoso Marco Ziello) che è psicologo, amante e alfiere di una
borghesia che ha a cuore i propri riti. È lui a lanciare piatti, prova di una
natura “sbagliata”, contro il frigo a cui è addossata e oppressa dalla propria
fragilità la protagonista alla ricerca del consenso dei cosiddetti normali. Il
frigo diventa postazione da cui ostentare il comportamento di donna in carriera
o ciò che contiene solo polistirolo: il cibo diventa così strumento di nevrosi,
ingombrante o pronto a vanificarsi a seconda di come si è scelto di riversare
odio sulla propria pelle. La giovane
attraversa tutte le fasi della rovina: la menzogna (seduta sul frigo come se
tutto fosse sotto controllo), la reclusione nel proprio io (la danza in cerchio
e la corsa sul posto), l’autodistruzione (il lancio di piatti e le urla
alternati a frasi di circostanza), la consapevolezza di come sia impossibile
sottrarsi alla sofferenza. Ecco perché, quando finalmente i due si guardano in
viso, la migliore conclusione è affidata alle parole di “Hamletmachine” di
Muller: quelle di un’Ofelia che ha smesso di uccidersi per scendere in strada,
vestita del suo sangue. Solo allora si è se stessi. Vomitare la vita a volte è
l’unico modo per ritrovarla.
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