La guerra è mossa contro le
anime, non solo contro i corpi, ed è una strada accidentata ricostruire il
proprio immaginario. In “Attesa”, lo spettacolo da lui diretto con successo
presso il Teatro del Giullare di Salerno, Antonio Grimaldi ha chiesto e ottenuto
molto dal suo cast (Annarita Vitolo, Gabriella Orilia, Cristina Milito
Pagliaro, Massimo Villani, Luciano Dell’Aglio), affidando quasi esclusivamente
al gesto e al movimento di danza la narrazione, per recuperare alla dimensione
corporea la sua centralità assoluta. Una donna è costretta ad accettare la
partenza per il fronte del suo uomo e a misurarsi con un dolore straniante
(l’oltraggio dell’invasore, i nuovi gelidi e beffardi proprietari della sua
casa) fino alla faticosa riconciliazione. I testi e la voce fuori campo, che
tratteggia atmosfere e desideri, sono di Alfonso
Tramontano Guerritore, mentre la drammaturgia di Grimaldi sceglie una linea
fortemente evocativa. L’aggressione subita dalla sposa (il bianco del suo
vestito è davvero il colore dell’attesa, lo spazio da riempire di
pensieri e sensazioni) è simboleggiata da una figura che avanza lentamente in
scena con le movenze di un ragno, rovesciata all’indietro, l’unica luce puntata
sul suo volto demoniaco (la brutalità abdica a tutto ciò che è umano), che,
quasi al rallentatore, getta in terra oggetti e mobili, mentre la donna
strofina forsennatamente il suo corpo come se qualcosa di malsano le aggredisse
la pelle. La violenza ha molti aspetti: l’aridità dell’infermiera che dovrebbe
soccorrerla, la pochezza dei colti borghesi che scacciano una figura angelica,
proiezione di un’ansia di pace, la rimozione delle ferite del conflitto
attraverso l’apparizione in scena di un cantante. Tutti gli attori indossano le maschere di Angelo Russo e Bonaventura Girodano, non
solo per rendere universale la rappresentazione, ma perché la maschera
identifica, isola, inchioda, concretizza la tirannia del ruolo che tutti
assumono fino a divenire la propria essenza, come mostra il fedele
servitore del protagonista che non possiede solo l’immagine, ma anche gli
atteggiamenti del cane. Nel congedarsi da ciò che è loro familiare perché nulla
può più essere come prima, i protagonisti lasciano il campo a una donna e a un
uomo mascherati da suini, pronti forse a essere carne da macello per il
prossimo conflitto o semplicemente schiavi delle loro urgenze più immediate.
Lui abbandona il capo sulla tavola, come a sognare altri desideri, altre vite,
altre attese.
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