Il lavoro di Marina
Abramovic si può definire come una spiazzante drammatizzazione del corpo.
Attraverso la sua persona, l’artista montenegrina rivela le dinamiche
sotterranee di un contesto, costringe chi l’osserva a far parte di un processo
iniziatico in cui il rimosso, le pulsioni scomode, le esigenze taciute
ritrovano vita. Nel film di Matthew Akers “Marina Abramovic. The artist is present”,
proiettato alla Galleria Verrengia di Salerno al 54° appuntamento con il
progetto di Stefania Zuliani “Arte di sera”, nell’ambito dell’iniziativa della
Fondazione Menna Extra Moenia, dove si narra il il backstage della retrospettiva
dedicatale nel 2010 presso il Moma, la protagonista rimane su una sedia
osservando silenziosamente i visitatori seduti uno alla volta dinanzi a lei per
ben 716 ore. Al grado zero dell’azione, il corpo diventa palcoscenico del suo
spettatore, lo accoglie in una dimensione fuori dal tempo, inducendolo a
riconoscersi nella donna che pazientemente lo pone al centro di tutto, percependo
senza filtri il potenziale espressivo di un dialogo muto. I confini tra dentro
e fuori, tra oggetto e soggetto tendono lentamente ad assottigliarsi. E in quel
silenzio la soggettività non è forse mai stata così libera.
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