La parola vuole rigenerarsi
lontano da ogni costrizione scenica. Ma “Il potere vuole che i corpi scompaiano
e che le parole ci vengano imposte”. Come ricomporre il dissidio tra
palcoscenico e linguaggio in un mondo a cui non restano che le macerie? Sulla meta
della scena s’interroga “Ring”, lo spettacolo tratto dall’opera di Andrea Manzi
e diretto da Pasquale De Cristofaro presso il Complesso di Santa Sofia a
Salerno nell’ambito della rassegna di Antonello De Rosa “Il gioco serio del
teatro”. L’allestimento è sospeso tra la struttura dell’exemplum medievale (di
qui il sistematico ricorso alla declamazione) e lo psicodramma: le figure
abdicano alla condizione di personaggi e rappresentano la Poesia, il Teatro, l’Anima,
l’Attesa, il precario equilibrio tra i livelli di lettura del reale (trampolieri
e danzatrici). Assediati dal vuoto di senso, il Poeta e l’Attore sono rinchiusi
in un ospedale psichiatrico mentre alle loro spalle compaiono stralci
dell’Amleto di Leo de Berardinis e del Pinocchio di Carmelo Bene e di Totò (la
menzogna che sul palco ha il crisma della verità), i padri che non si vuole
uccidere come in ogni rito di passaggio, ma che sono desiderati e rimpianti. Da
emarginati sperduti e avversari, i protagonisti uniscono le forze nel dar voce
al dolore degli extracomunitari in cui rivivono gli ultimi di tutte le epoche
precedenti. Emergendo da quello che è il buio dell’oblio e dell’oppressione, il
simbolo dei diseredati, cicondato da un’aura cristologica, passa sulle sue
membra della terra, ribadendo il legame ancestrale tra il dramma di ogni uomo e
i suoi simili. “Ring” è il racconto di un’ostinazione che combatte contro ogni
fallimento: il bisogno assoluto del corpo e della parola di fondersi,
restituendo alla sofferenza la sua dignità conoscitiva.
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