L’allegria di un matrimonio
è bruscamente interrotta da una donna vestita di nero. Gli invitati si
spogliano dei loro abiti e si stendono in terra tra cuscini, orinali e
sgabelli. Non è solo il dormitorio di un manicomio, è una condizione della
mente in cui i fantasmi prendono di continuo vita. In “Medea-il sogno”, la
riscrittura del capolavoro euripideo da parte del regista Antonello De Rosa
proposta a Salerno al Complesso di Santa Sofia, è l’anima buia della
principessa della Colchide il vero palcoscenico. Donna, maga, straniera: la
protagonista è la diversità per antonomasia, una diversità che si sconta con
l’emarginazione di cui l’ospedale psichiatrico è la massima espressione. Quando
però la mente si spinge oltre tutti i limiti, diventa ostaggio di se stessa. I
compagni di reclusione (Marianna Boffardi, Martina Bruno, Mirella Costabile,
Lucia D’Aiutolo, Cesare D’Arco, Gerardo De Luca, Rossella De Martino, Claudia
Di Cresce, Lucia Falciano, Gina Ferri, Bruna Fontana, Simona Fredella, Daniela
Guercio, Enrica Lipilini, Camilla La
Corte, Carla Lordi, Mary Mazziotti, Sonia Mingo, Giusy
Mitrano, Umberto Notini, Caterina Salerno, Valeria Santoro, Pietro Sellitto,
Vittorio Stasi, Alessandro Tedesco, Gerardo Trezza, Silvana Vitale, Veronica e
Francesco Vallone) diventano di volta in volta carnefici e immagini di Giasone,
Creonte, Creusa, della stessa Medea (un’appassionata Patrizia Capacchione). La
donna ripudiata è al tempo stesso oggetto di persecuzione e di identificazione,
perché tutti i personaggi riflettono lo stesso tormento e desiderio. Sono se
stessi e altro in un continuo gioco di specchi. L’unica figura che non a caso
rimane uguale a se stessa, oltre alla sua protetta, è la nutrice (una
Margherita Rago pienamente consapevole del proprio ruolo), una sorta di
super-io che cerca di tenere a freno le tensioni incarnate da chi l’attornia. È
lei a interrompere con violenza le nozze di Medea all’inizio della
rappresentazione, perché da esse non verrà che male. Ma esiste una fatalità
delle emozioni. In un accorto gioco di simmetrie e contrasti (i letti di Creusa
e Medea uno di fronte all’altro, perché entrambe prede di Giasone; la lampadina
sfiorata a ricordo di una gloria ormai persa; gli uomini che si avventano
sull’assassina al pari delle donne che attaccano l’”eroe” greco, il telo nero
che inghiotte in una luce sanguigna il delitto dei figli per esorcizzare invano
ciò che non si cancella), Medea si risveglia e si appresta a celebrare le sue
nozze. Eros e Thanatos continuano a inseguirsi, per sempre, nello stesso
rituale malato.
Il continuo scambio di identità e la moltiplicazione dei personaggi dicono che quella storia potrebbe essere la storia di chiunque, che quei personaggi potremmo essere noi, che la "Medea", proprio per questo, è e sarà sempre un classico del teatro occidentale. L'ambientazione campana e contemporanea apporta nuova linfa alla trama, sottolineando che si tratta di un'opera senza tempo. Davvero un'ottima prova di De Rosa e degli allievi del suo laboratorio teatrale.
RispondiEliminaL'attenzione all'urgenza di attualizzare il testo è sicuramente un punto di forza della messinscena, anche se continuo a nutrire alcune remore sulla specificità del linguaggio campano. In ogni caso, un'opera che merita di essere vista.
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