È la morte stessa ad aprire il
sipario. Osserva i due amanti distesi l’uno accanto all’altra come una costode
devota. Non potrebbe essere altrimenti: nessuno resiste a una passione chiusa a chiave in se stessa e la vicenda –narrata attraverso i momenti più intensi
dal punto di vista emotivo- non può che partire dalla fine, perché amare è
dissolversi nell’altro per poirinascere. Dopo “Esercito d’amore” Antonio Grimaldi si conferma
raffinato regista della coralità in “Romeo and Juliet”, appludito dal pubblico
del Piccolo Teatro del Giullare di Salerno. Paolo Aguzzi, Pia Ansalone, Gianni
D'Amato, Gemma De Cesare, Gianluca De Stefano, Luciano Dell'Aglio, Cristina
Milito Pagliara, Gabriella Orilia, Massimiliano Palumbo, Matteo Rinaldi, Maria
Scognamiglio, Emanuela Tondini, Michela Ventre, altrettanti Romei e Giuliette
sospesi tra attrazione e distanza, recitano in inglese e Grimaldi traduce le
battute fuori scena: l’amore conosce solo il proprio linguaggio e poiché ricorre
sempre diverso e sempre uguale gli interpreti, disposti ai bordi della scena,
sono sacerdoti che officiano con struggente ostinazione lo stesso rito. Le
convenzioni sociali sono, quelle si, un rito insensato (gli attori osservati
con divertita curiosità dalla prima coppia di innamorati mentre restano seduti
battendo i denti come marionette difettose). Quando la balia, interpretata da
un uomo, cerca di ricondurre la sua pupilla alla ragione, i due si piegano fino
a porre il capo tra le gambe mentre altre coppie replicano, ognuna a suo modo,
l’atto di consacrarsi reciprocamente: all’assurda pretesa di reprimere gli
istinti si contrappone una visione capovolta delle cose, perche è folle chi
pretende di fare a meno dell’amore. Il regista indaga i volti dell’ossessione.
Sono due atttrici simili come gocce d’acqua a incarnare l’odio tra Montecchi e
Capuleti (anche l’odio non vede che se stesso), il segno della croce che
diviene movimento convulso negli interpreti davanti alla morte di Giulietta è
incapacità di accettare la fine di ciò che è smisurato, cioè il desiderio e gli
specchi puntati sui corpi ormai privi di vita e sugli spettatori invitano a
immedesimarsi nel dramma che non è lontano dalle nostre vite: la sacralità
laica della carne è ribadita a ogni passo. Il resto, per dirla col Bardo, è
silenzio.
“Vittima: sotantivo di
genere femminile…ma guarda un po’”. È difficile che le parole diano corpo a
tensioni inconfessabili, eppure definire l’orrore può essere ancora il primo
passo per esorcizzarlo. Vincitore della prima edizione del Premio
Cecilia Salvia nella sezione del “Festival femminile” della Basilicata, lo
spettacolo “Sempre con me” di e con Carlotta Vitale per la regia di Mimmo
Conte, presso il Teatro Genovesi di Salerno,ha rappresentato la terza tappa della manifestazione Out of Bounds a
cura dell’Officina Teatrale Laav di Licia Amarante e Antonella Valitutti. La
dolce voce di Viola intona nel buio “Tu me fais tourner la tete”: la rimozione
per sfuggire a ciò che le accade è un aspetto con cui deve misurarsi. Ha un
marito violento che la rende prigioniera della sua stessa vita e ogni elemento
della scenografia evidenzia questa condizione. Il pavimento è bianco e nero,
come bianco e nero è l’abito appeso a una gruccia, spesso malmenato, con cui il
personaggio, che indossa le stesse tinte, si identifica, e nere sono le sedie
che circoscrivono lo spazio come punti cardinali mentre campeggia sullo sfondo
un grande specchio. Questo cromatismo cocciutamente monotematico rimanda a un’assenza
di reali aperture dialogiche: un carnefice non accetta nessuna alternativa al
suo modo di sentire e lo specchio è a sua volta un muro che impedisce alla
carne di spingere lo sguardo oltre le proprie ferite. In quello stesso riflesso
però comincerà a nascere una nuova consapevolezza. La Vitale orchestra alla
perfezione una gamma di registri espressivi che spazia dalla tenerezza alla
recriminazione, dall’ironia al dolore e nell’interpretare le altre figure del
copione (un macellaio che, al suo svenimento per lo stress, la crede
narcolettica, una vicina, il coniuge) la scelta del monologo si rivela
necessaria: nessuno è più solo di chi subisce un abuso e tutto non può che
essere filtrato attraverso i suoi sensi. Il vocabolario consumato che agguanta
alla ricerca di definizioni, spiegazioni, categorie racchiude in sé salvezza e
limite, riscatto e incapacità della lingua di addomesticare quella forza oscura
che fa coincidere piacere e sopraffazione e sembra attraversare intatta il
tempo (la madre di Viola potrebbe essere stata uccisa dal padre e il testo
avvolge tutto in un’affascinante ambiguità). Il coraggio della denuncia apre
nuove vie (le sedie crollano al suolo), ma è arduo spezzare un vincolo malato,
ammettere finalmente che chi ha inflitto cicatrici non sarà “sempre con me”.