domenica 16 ottobre 2016

Alfonso Gatto, quando un autore non è “minimalis”



Gianni Rodari? “Uno squallido e fesso che scriveva in rima baciata”. Pasolini? “Un vanitoso a cui andava bene la povertà altrui”. Zucconi? “Anni in America e non capirne un cazzo”. La scuola italiana? “Serve a seppellire, non a entusiasmare”. Sfugge forse qualcosa all’impeto demolitore di Amleto De Silva? Alfonso Gatto, a cui ha dedicato una Lectio Minimalis presso la Chiesa di Sant’Apollonia a Salerno in occasione del quarantennale della morte del noto artista. Pur conoscendo benissimo gli infiniti modi con cui la parola può raggirare e deformare, Gatto “cercava attraverso essa i modi per capire l’uomo, cioè per amarlo”, scrivendo di tutto (architettura, calcio, resistenza), intuendo la fragilità del sogno americano, assaporando la vita più intensamente proprio misurandosi sempre con il pensiero della morte, anche nei versi più ariosi. “Io non credo di aver mai commesso viltà” disse in una lontana intervista. Non avrebbe potuto descriversi meglio: il suo linguaggio suadente, mai aggressivo, capace di spaziare tra i registri più diversi, complesso e limpido, diventava occasione per narrare l’esistenza da prospettive sempre nuove e sempre obbedendo a un’onestà intellettuale. E quando si legge che “Morire è una stagione, un’aria, un cielo”, si comprende che i poeti sono necessari quanto la luce, forti della propria anima contro chiunque pretenda di “aver capito il gioco”.