venerdì 25 aprile 2014

"Foto di bordello con Nanà", il buio fascino di Enzo Moscato



La scrittura di Enzo Moscato non fa prigionieri: o la si lascia entrare sotto pelle fino a contaminare nel profondo il lettore, o la si ripudia. "Foto di bordello con Nanà", interpretato da Rosalia Terrana e Margherita Rago per la regia di Giancarlo Guercio, in scena presso il Teatro Nuovo di Salerno il 27 aprile alle ore 20.00, è una coraggiosa prova di interpretazione che guida il pubblico alla scoperta di un mondo buio e affascinante, in cui non c’è posto per moralismi o per approcci razionali. Il copione fonde tre opere di Moscato ("Luparella", " 'O casino d'a signora Zina" e "Ragazze sole con qualche esperienza"), facendo di Nanà, personaggio particolarmente caro all’autore, una sorta di filo conduttore tra diversi percorsi. In bilico tra disperazione e ironia, ansia di riscatto e voluttà della degradazione, la Napoli che emerge in questo spettacolo mescola la vita e la morte in un abbraccio che non si può sciogliere, mentre i travestiti che vivono le loro contraddizioni diventano gli unici in grado di vivere fino in fondo un legame con le persone e le cose che attinge alla parte più autentica dell’essere.

mercoledì 23 aprile 2014

A Napoli Anna Rita Vitolo e Vincenzo Albano in “Il baciamano”



Una pietanza che pretenda di dettare legge su come debba essere cucinata non si era mai vista: un giacobino imprigionato impone di essere preparato in salsa francese. Accade anche questo, quando il mondo ha deciso di precipitare nel buio. “Il baciamano”, il testo carnale e iconoclasta di Manlio Santanelli, diventa uno spettacolo, a cura dell’Associazione Culturale Erre Teatro e diretto da Antonio Grimaldi, che toglie il respiro per l’intensità dell’interpretazione. In scena il 24 apile alle ore 20.30, nella Chiesa di Santa Croce e Purgatorio al Mercato in Piazza Mercato a Napoli (l’ingresso è gratuito fino ad esaurimento posti) Anna Rita Vitolo e Vincenzo Albano gareggiano nella capacità di coinvolgere il pubblico senza mai cadere nelle trappole di una recitazione artificiosa. I protagonisti donano fascino al legame tra vittima e carnefice: un legame in cui non si può dare nulla per scontato. Se Janara è spinta dal degrado al cannibalismo, è a sua volta schiacciata da un contesto che la relega nella sua animalità; il giacobino, che tenta di vincere l’istinto con la razionalità, non sarà immune da quella violenza a cui ha riservato il suo aristocratico orrore. L’essenzialità della scenografia riflette il deserto che il fallimento della rivoluzione del 1799 lascia a Napoli: una cornice impressa su di un tendaggio (la donna non ha sbocchi o prospettive) un tavolo, un baule dove riporre quasi con amore i resti di altre vittime (un crudo realismo assolutamente necessario dato il carattere del testo, che rende di fatto la morte una pratica usuale), una bacinella e un coltello. La maschera di maiale che la donna indossa a un certo punto della messinscena, così come la cupa fiaba di Ficuciell, sono chiari riferimenti a quel bisogno di sopraffazione che diventa naturale come respirare. La messinscena del baciamano, un momento in cui scoprirsi persone e non pedine, tenta di esorcizzare l’incubo della violenza (è questo che fa il teatro: allontana il male di vivere), ma i due potranno solo comprendere l’uno nell’altra il proprio bisogno di felicità fatto a pezzi. Quando i sogni muoiono, è l’anima, non solo il corpo, a essere divorata.

martedì 22 aprile 2014

“Caro Dio”, la sana forza del dubbio



Quanta sicurezza in una fede incrollabile. Che gioia vivere lontani dal veleno del dubbio. Eppure è quel veleno a generare una vita che valga la pena di vivere. Basato sul brillante testo di Giovanna Castellano,“Caro Dio”, per la regia di Angelo Ruocco, ha raccolto molti applausi al Piccolo Teatro del Giullare di Salerno. Se Matteo Amaturo, un sacerdote che risponde alle inquietudini con frasi convenzionali, interpreta perfettamente l’ottusità del pensiero a senso unico, Cinzia Ugatti è un’ energica donna alla ricerca della verità, un personaggio che l’attira perche fonde passione e razionalità e le permette dunque di porre in campo il meglio della sua energia interpretativa. Sulle note di Fabrizio De Andrè, cantore del senso del mistero che circonda la fede oltre che degli ultimi, l’ecoscenografia di Olga Marciano e Geppino Gorga, interamente realizzata con i rifiuti, si caratterizza per pochi elementi che alludono a una visione estremamente chiara dei fatti, troppo chiara per non attirare su di sé delle ombre: un serpente, il gigantesco libro della Bibbia, il seggio dorato del sacerdote a rappresentarne l’autorità, una mappa del mondo che sembra ritratto da una mano giovane (perché è sempre giovane la mente che si interroga). Rivolgendosi direttamente all’Ente supremo, la donna esamina tutto con una lucidità che non scende mai a compromessi. Dio ci ha creato per amore? Guai però a manifestare liberamente gli istinti di cui ci ha dotato. Ha voluto il libero arbitrio? E questo basta a giustificare il male che stritola il mondo? Il suo è un disegno a favore della vita? E allora perché troppo spesso percorre la via della morte? Le acrobazie verbali dei “portavoce” (il clero e tutti i sedicenti cristiani) non bastano a far tacere le inquietudini. Mescolando ironia e amarezza, dolcezza e audacia, la protagonista smaschera tutto quel che di inverosimile e assurdo si cela nei testi sacri, mettendo a nudo la grossolana caparbietà di chi non si spinge oltre il proprio naso. L’intento della messinscena non è però quello di fare a meno del divino, ma di recuperarne l’autenticità. Ecco allora che, superando d’un balzo norme, dogmi e divieti, la narratrice andrà in cerca di Dio nel cuore e negli occhi di chi ama e di chi soffre. Quando la mente si sbarazza di vincoli e nevrosi, ciò che appare lontano diviene insospettabilmente vicino. E se anche la ricerca si rivelasse vana, meglio inseguire un miraggio che nasce da un’esigenza interiore che farsi schiavi di una volontà basata sulle nevrosi, ma incapace di parlare all’anima.  

mercoledì 2 aprile 2014

Applausi a Salerno per “N’hanno fatto crerere paravisi”



Termini dialettali che hanno il fascino di formule magiche. Nessun diaframma tra essere umano e paesaggio. Una salda fiducia nella capacità di costruire propria delle mani e del linguaggio in quel continuo oscillare tra disperazione e speranza che è la vita, anche se non c’è posto per le illusioni. Ha convinto del tutto la platea del Piccolo Teatro del Giullare “N’hanno fatto crerere paravisi”, lo spettacolo diretto e interpretato da Andrea Paolotti, che ha recitato insieme a Michele Di Stio e Maria Scorza, autrice della drammaturgia. La messinscena è avvenuta nell’ambito dell’iniziativa “Tra scrittura e performance” ideata da Vincenzo Albano, direttore artistico di Erre Teatro e già ideatore del progetto Teatrografie 2013. In quella che si presenta a tutti gli effetti come una fiaba, il titolo allude ai miraggi di un egoismo senz’altra prospettiva che se stesso che ha progressivamente distrutto il mondo, ripiombando tutto e tutti in un contesto primitivo, si potrebbe dire pre-logico. Nei momenti cruciali i personaggi emergono come fotogrammi nel buio attraverso una parete divisoria trasparente, come se la loro individualità dovesse lottare per imporsi sull’oblio che rischia a ogni passo di inghiottirli. Asteria (un Michele Di Stio che affascina perché costruisce nei minimi dettagli la credibilità del personaggio) è una donna che strappa alla terra i suoi frutti grazie alla nipote Demetra (la stessa Scorza, che interpreta anche la scaltra Leto) e Glauco (Paolotti, che esprime tutta la fresca esuberanza della gioventù e la sfrontatezza del Soldato che tenta continuamente di depredarli). La pagnotta venerata da Asteria rimanda a un’era pagana, lontana dalle trappole della modernità. Poiché però il bisogno di sopraffare riemerge ciclicamente, la vecchia si scopre nemica della più naturale delle forze, l’amore, perché tutta protesa verso l’esigenza di accumulare. Si assottiglia dunque la differenza rispetto a Leto, che pretende di leggere il futuro nelle carte ma è efficacemente mostrata come una figura dalla vista incerta, perché concentrata solo su di sé. E quando i perosnaggi in lotta saranno travolti dal fiume, simbolo della forza cieca e irresistibile della natura, rimarrà Demetra a fare del racconto la base per costruire il futuro. In questo elogio dell’oralità e della concretezza, non c’è posto per la retorica o il buonismo. La parola, madre e figlia del pensiero e delle arti, genererà di nuovo la luce dove rabbia e rapacità hanno portato le tenebre.