martedì 31 maggio 2016

“Desidera”, amore e libertà sulle ali di un aeroplano




Tornare indietro e riscrivere la propria storia? Chi non lo ha mai desiderato almeno una volta? Ma la vita si fa beffe di calcoli e previsioni. Affidato quasi esclusivamente al movimento corporeo, specchio e linguaggio di un immaginario che muta e insegue il suo centro, “Desidera. Una storia d’amore e di stelle” ha raccolto calorosi applausi presso il Centro Sociale di Salerno nell’ambito di Mutaverso, la stagione teatrale che ha in Vincenzo Albano il suo direttore artistico. La drammaturgia e la regia sono firnmate da Simona di Maio e Sebastiano Coticelli, che dividono il palcoscenico con Giuseppe Brancaccio, Amalia Ruocco e Dimitri Tetta. Razionalità e sogno si intrecciano continuamente. L’anziano che si aggira per il palco tutto immerso nelle sue riflessioni tra fogli ingombranti si trova puntualmente tra le mani (nella giacca o inviato misteriosamente) un aeroplanino di carta e vale davvero poco farlo sistematicamente a pezzi. Ritorna con la puntualità di un orologio non solo perché è il suo passato di aviatore, ma anche l’aspirazione a vivere assecondando il proprio istinto. Le due coppie di amanti che creano una sorta di danza struggente e ironica sono le due possibilità a cui un rapporto d’amore può andare incontro: la complicità o il contrasto, la vicinanza più intima o la distanza più cupa. Il cuore della messinscena è probabilmente il momento in cui i quattro personaggi muovono ognuno verso la stessa direzione, e subito dopo verso una meta opposta, i propri aeroplani. L’identità non è certo qualcosa di immobile che si possa ingabbiare; l’amore lo è ancora di meno. Gli approdi sono il senso di ogni viaggio e al tempo stesso l’occasione per cominciarne un altro. La dialettica tra il bisogno di ancorarsi al corpo di una donna e l’urgenza di spingersi verso un altrove, forze entrambe vitali e necessarie, conduce inevitabilmente a smarrire molto di sé. Non sarà possibile evitare la morte della donna amata (la visita da parte dei tre medici è un efficace esempio di come la scienza celebri se stessa, dimenticando che ha un essere vivente dinanzi agli occhi), ma le figure che circondano l’anziano creeranno per lui un aeroplano con i mobili della stanza. Non importa quanto un viaggio sia reale; ciò che conta è non guarire, fino all’ultimo respiro, dalla volontà di varcare limiti e prigioni.

mercoledì 25 maggio 2016

“Esse o non Esse”, il fascino di un dissipatore



Strategia, razionalità, attento studio dell’avversario: è questo che si attribuisce al gioco degli scacchi. Ma quale raziocinio può soccorrere quando il baratro è nella mente e nel mondo? Potente sintesi de “I demoni” di Fedor Dostoevskij diretta da Adriana Follieri –che ha curato la drammaturgia col protagonista-, “Esse o non Esse” è lo spettacolo applaudito al Teatro Pasolini in cui Fiorenzo Madonna ha dato al pubblico tutto ciò che è lecito attendersi da un interprete e anche di più: carisma, capacità di infondere vita sempre nuova negli infiniti volti della simulazione, consacrazione totale a un personaggio che oscilla tra il bisogno di dominare tutto e il lento annegare in se stesso. Stavrogin è il beffardo demiurgo nella deriva di corpi e anime, da cui il titolo che rimanda alla sua iniziale: sposare il suo cinismo o aggrapparsi a un ideale, anche se su tutti, allo stesso modo, calerà il buio. Gli altri personaggi sono pezzi della scacchiera che lui manipola. Il pedone impiccato a una sottoveste è la bambina che ha stuprato (che infatti si suiciderà), la madre è torre e regina, perché non c’è madre che non abbia peso in un’esistenza, gli amici (il buon Satov, Kirillov che vuole essere dio di se stesso) sono alfieri incollati alla scacchiera mentre lui si accascia (perché oppongono le proprie scelte al naufragio) o sono cavalli su cui puntare le scommesse del pubblico. La scommessa è però persa in partenza: dove correre al di fuori del ruolo che ci cuciamo addosso? Lo stesso re in cui Stavrogin si identifica è un carillon: dunque un giocattolo, un’illusione. Sull’onda di una contaminazione musicale che spazia dal canto in vernacolo al francese –per accrescere un effetto straniante-il gioco perde così con feroce sarcasmo la sua connotazione di arma della ragione per testimoniare un’aporia in cui Dio è necessario al senso della vita, ma non esiste. Dissipatore delle proprie energie e di quelle altrui, ama l’ostentazione per esorcizzare inutilmente il senso di colpa che lo perseguita. Ringrazia al microfono le sue vittime, Borges, Dostoevskij stesso, si trucca di bianco dopo aver derubato un impiegato, sputa sul palco lo champagne acquistato col furto, tenta di confessarsi per poi tingersi di rosso e nero (si è scoperto definitivamente demone: la confessione non purifica, è una presa d’atto della propria natura), declama il monologo di Amleto circondato dai pezzi della scacchiera per poi scalciarli via, getta con lo stesso slancio l’abito della donna a cui sarebbe conveniente unirsi e i fogli che lo inchiodano. Uno di essi ha l’impronta del suo viso. È quello che ha tentato di fare da sempre: lasciare una traccia che lo distingua, che lo renda riconoscibile. Non è un caso che i soli momenti di quiete (“attimi di infinita armonia”) avvengano su un lembo di prato dove sono sepolti gli amici: dinanzi alla nudità della morte la gioia sognata sembra balenare, in un istante, con più forza. E quando imprigiona il suo corpo nel filo del microfono declamando “Penziere mieje”, canto di morte e di libertà, è inchiodato alla vertigine del nulla. Meglio troncare il respiro che assistere ancora al ridicolo tentativo degli uomini di trovare qualcosa che sopravviva al male e alla follia.

venerdì 20 maggio 2016

“Nella gioia e nel dolore”, il comico inferno del matrimonio


Decisamente amabili, quegli sposini pronti a giurarsi eterno amore. Ma non provate a chiedergli dei loro sentimenti: il silenzio potrebbe stordirvi. Comico inferno in cui c’è posto per lo status, ma non per l’anima, il matrimonio è implacabilmente scarnificato nello spettacolo “Nella gioia e nel dolore” di e con Elio Colasanto e Alessia Garofalo, applaudito calorosamente al Piccolo Teatro del Giullare nell’ambito di “Mutaverso”, la stagione teatrale diretta da Vincenzo Albano. Versatili e coinvolgenti nel dramma come nella commedia, i due interpreti dimostrano un’energia che non si dimentica. Ogni dettaglio della messinscena esprime l’alienazione di quello che è retoricamente definito il momento più importante dell’esistenza. All’inizio della vicenda, i due si vengono incontro dicendosi frasi di canzoni famose: si avvicinano per convenzione, dunque si esprimono in modo convenzionale. Lei è senza pretese, lui ha una bell’auto e un’azienda avviata. Dovrebbe bastare a creare un romantico nido insieme, no? Quando però non c’è una scelta, ma un rito in cui tutto deve essere perfetto dal punto di vista sociale, basta poco perchè il veleno dilaghi. La gigantesca torta nuziale che diventa palcoscenico allude chiaramente a come il felice evento sia ingombrante nella sua ostentazione e, nell’associare immediatamente gli attori ai pupazzetti che sormontano il dessert, si comprende subito come si assista alla controfigura della vita vera. La donna seduta in cima alla torta mentre il fidanzato si è allontanato per correre appresso a una gonnella evidenzia come non si sia protagonisti, ma vittime di questo ingresso tra quelli che contano (“Amore, il giorno del tuo matrimonio tu non conti un cazzo” le dice lui). In un ricevimento talmente sopra le righe da far sembrare equilibrata un’orgia, i protagonisti consumano fino in fondo la follia che li unisce. Lui fa da barbiere a lei, elenca portate inimmaginabili, lancia palline sul pubblico mentre lei ricorda le qualità della bomboniera perfetta per dimostrare che hanno fatto centro, fingono euforia tra orribili balli di gruppi e champagne tracannato a fiumi. E il momento più intimo è il conteggio dei soldi nelle buste dei parenti. In questo carnevale troppo chiassoso perché la passione possa anche solo respirare, traspare però una storia intensa malgrado tutto: quella di Tonio e Lina, genitori degli sposi, che non ha avuto seguito perché lei era sorella di un contrabbandiere. La società tollera tutto, tranne la libertà. Non è certo ammesso non essere “rispettabili” .  E quando Tonio si chiede “L’amore si sceglie o ci sceglie?”, la risposta è nell’ultimo bacio a Lina: l’amore non sceglie di essere crocifisso a una categoria

venerdì 13 maggio 2016

"Il cortile", l'amara bellezza della scena



Li si direbbe miserabili senza speranza, ma è il tempo in cui vivono (viviamo) a essere senza via d’uscita. In scena alla Sala Pasolini di Salerno il 13 maggio alle 21 e il giorno seguente alla Sala Assoli di Napoli,  “Il cortile” di Spiro Scimone è uno dei copioni più sorprendenti degli ultimi anni. In una periferia degradata tra vecchie motociclette e spazzatura, l’autore, Francesco Sframeli e Gianluca Cesale agiscono sotto traccia, si nutrono di storie minime dimenticate ai margini di ogni consesso sociale, inanellano frasi disconnesse dalla realtà a cui basta un approccio basico alle cose, si perdono in un sogno o in una curiosità che sembra azzerare tutto, si muovono senza sbagliare un colpo sul sottile confine tra ironia e disperazione. Distanti dal ricatto psicologico  come dal virtuosismo sterile di tanta drammaturgia contemporanea, gli artsti siciliani pongono al centro del proprio percorso un’umanità colta nella sua essenza più profonda che, inquanto tale, riduce in briciole sovrastrutture e deformazioni. Nel fermo-immagine del cortile, Peppe, Tano e Uno, che  non hanno che se stessi e sono presi dai propri giochi (il gioco è il linguaggio della scoperta e della fantasia, presenti  proprio dove non le si concepirebbe mai) si pongono al di sopra di logiche stantie in una condizione anomala agli occhi degli allineati. Non ci sono appartenenze da rivendicare o geografie dell’immaginario che permettano  di orientarsi nel labirinto della normalità. E se la comicità e lo spaesamento diventano inseparabili, i personaggi non conoscono consolazioni, ma neppure catene. La felicità è in un passato forse solo sognato. Eppure c’è più vita in quell’angolo ingombro di rottami di quanto la si cerchi altrove.

mercoledì 11 maggio 2016

“Grand’estate”, i sogni di Moscato tra bordelli e ironia



Cosa c’è di più onesto di due puttane che si consacrano all’italica progenie non solo sul suolo patrio, ma anche viaggiando alla volta di un bordello africano nella gloriosa era fascista? Il vero viaggio tuttavia non è la strada verso una meta, ma ciò che accade nella mente dei viaggiatori. Raffinato nella sua sconcezza (ma è il potere a essere sconcio a ogni latitudine) e sorprendentemente versatile nel rendere la musica un racconto e il racconto una sinfonia, “Grand’estate. Un delirio fantastorico, 1937/1960… ed oltre” è lo spettacolo scritto diretto e interpretato da Enzo Moscato (nel ruolo di Poppina) che ha riscosso grande successo alla Sala Pasolini di Salerno. Affiancato da Massimo Andrei, che domina la scena nel giocare con un’ironia malinconica e ha la paziente saggeza di chi sa tutto della follia umana, Moscato sceglie una narrazione dal basso che, nel beffarsi di ogni linearità, procede attraverso squarci, memorie, informazioni puntualmente disattese e libere associazioni mentali. Non si tratta naturalmente di puro gusto del divertissement. Alla logica monolitica propria del fascismo e di chiunque riduca il mondo a oppressi e oppressori, si contrappone una visione più che mai antiretorica e comicamente spietata degli eventi e delle relazioni. La devozione al mestiere di Lattarella, per cui la sifilide diventa una sorta di energia magica, la falsa sapienza di Asor Viola, gli incidenti di percorso quanto mai improbabili, l’amore anarchico, ma mai illogico per il canto che è desiderio, sogno, miseria,  indicano come al regista interessi fare a pezzi il senso comune, leggendo l’assurdo attraverso la prostituzione. I corpi non si fanno solo attraversare dalla carne, ma anche da manie, egoismi, cecità. Tutto avviene all’insegna della leggerezza e della nostalgia, ma il disimpegno possiede una sua forza non addomesticabile. E quando la vicenda approda agli anni Sessanta, in fondo è cambiato ben poco. La finta rispettabilità da una parte e le prostitute dall’altra, che sognano un domani diverso e magari, senza saperlo, tra piume e ombretti, lo incarnano già.