L’indicibile accade fuori scena (fuori delle
proprie difese e certezze). A sipario chiuso riecheggia uno sparo, mentre
imperversa il suono di una pioggia violenta. E quando il palco diventa
visibile, una guardia cerca di decifrare alla luce incerta di una torcia i nomi
che costellano le pareti di quello che sembra un ampio cunicolo sotterraneo. È
un viaggio tutt’altro che agevole dal buio alla luce (quella del nulla o della
rinascita) “Una pura formalità”, lo spettacolo diretto e interpretato da Glauco Mauri, in programma
fino al 9 novembre alle 18.30 al Teatro Verdi di Salerno. Ispirata all’omonimo
film di Giuseppe Tornatore, la messinscena è un lungo duello verbale tra il
commissario di una stazione di polizia che genera inquietudine per il senso di
abbandono in cui versa (lo stesso Mauri) e Onoff, uno scrittore a cui Roberto
Sturno dona tutta la disperata energia di chi si sente messo all’angolo ed è
costretto a rimestare nel proprio passato alla ricerca delle risposte che non
vorrebbe trovare. La vicenda si snoda con l’inesorabilità di un redde rationem
in cui ricordi, false piste, allusioni, sorprese si susseguono in una ricerca
della verità che culmina nel ritorno al punto di partenza: Onoff è carnefice e
vittima, dato che si è ucciso con lo sparo udito all’inizio. Non è un caso che
sia uno scrittore, ovvero una figura che dovrebbe osservare con un’acutezza al
di sopra della norma l’assurdità del vivere: lo scacco diviene allora ancora
più bruciante, perché le parole non sono riuscite a contrapporsi al peso
dell’esistenza, per quanto l’opera sia comunque destinata a sopravvivere al suo
autore (l’ultimo romanzo che diverrà un successo). In questo oscillare tra la
coscienza e il rimosso, gli interpreti compiono su se stessi un paziente lavoro
di scarnificazione, mettendo progressivamente a nudo le proprie pulsioni fino a
riconoscere la propria essenza di viaggiatori privi di meta. La sofferenza che
divora l’anima è una sorta di rituale che si perpetua oltre il tempo: i nomi
sulle pareti della stazione appartengono a chi ha condiviso la sorte del
protagonista, dinanzi alla quale il commissario diviene nume tutelare, confidente, accusatore, dolente
complice di un uomo inchiodato all’impossibilità di strappare se stesso ai
propri limiti. Non resta che cercare ancora, malgrado sconfitte e solitudini,
un significato che possa illuminare, anche solo per un istante, il vicolo buio
che la vita può essere. E quando, prima di perdersi in un altrove troppo
lontano da ogni raziocinio, Onoff si chiede “E adesso?”, i protagonisti si
voltano in silenzio verso la platea, nella vana attesa che una risposta si
manifesti.
domenica 9 novembre 2014
mercoledì 5 novembre 2014
“Una pura formalità”, Glauco Mauri e Roberto Sturno al Verdi di Salerno
Comprendere e comprendersi può essere il
momento più crudele e straniante della propria vita. Eppure non esistono
alternative: bisogna spingersi oltre la cosiddetta realtà, aprire le porte che
sembrano ostinatamente chiuse. “Una pura formalità”, la versione teatrale del
film di Giuseppe Tornatore curata e diretta da Glauco Mauri, aprirà il 6 novembre
alle 21 la stagione del Teatro Verdi di Salerno. Lo spettacolo resterà in
cartellone fino al 9 novembre, quando la replica si terrà alle 18.30. Oltre a
Roberto Sturno, che interpreta lo scrittore Onoff, il cast comprende Giuseppe
Nitti, Amedeo D'Amico, Paolo Benvenuto Vezzoso, Marco Fiore. Giuliano Spinelli
e Irene Monti firmano scene e costumi, mentre le musiche sono di Germano
Mazzocchetti. In un commissariato dall’aria fatiscente, in cui sembra smarrito
ogni concetto di tempo, al cospetto di un commissario (lo stesso Mauri) che
sembra conoscere più di quanto ammetta, Onoff è accusato di un delitto su cui
sembra davvero un’impresa riuscire a fare luce. La tensione cresce sino al
culmine per poi giungere a una conclusione sconvolgente. “Ho cercato di far rivivere tutta la
forza drammatica della sceneggiatura, modificandone quelle parti che si
presentavano con dei connotati troppo cinematografici- ha scritto il regista-
preservandone al tempo stesso quell’intensità che dall’inizio ci avvolge nel
suo misterioso intreccio.
lunedì 3 novembre 2014
“Cante e schiante”, il cuore dei Campi Flegrei
“Quello a cui
assisterete non è uno spettacolo, ma una lettura animata con personaggi e
oggetti in cui sarete anche voi artigiani della visione”. Entrare nel mondo di
Mimmo Borrelli è sorprendentemente facile. Qualsiasi diaframma tra lui e lo
spettatore si dissolve in “Cante e schiante”, l’atto d’amore verso il
“popolaccio ostile” dei Campi Flegrei che ha concluso “Per voce sola. Parole
della nostra scena”, la rassegna ideata e diretta da Vincenzo Albano sostenuta
dalla rivista Puracultura. Al Piccolo Teatro del Giullare di Salerno
letteralmente invaso dal pubblico, Borrelli, in cui condivisione e concretezza
marciano di pari passo, ha spiegato le dinamiche della performance ispirata a
“A sciaveca”, frutto di una lunga gestazione nel passaggio dai versi al palco,
così che l’irruenza del dialetto potesse fluire senza ostacoli, ironizzando
sulle suggestioni con cui si è misurato (le stimmate di Tonino o Barbone che
ricordano Cristo, ad esempio, perché “O cattolicesimo m’ha accis pur’a me!”).
Tra pochi oggetti in scena sufficienti a creare un contesto (un bastone, uno
sgabello, dell’acqua), in un testo che sembra scritto nella carne e che fa
emergere bellezza e orrore come la sciabica, la rete da traino che cattura
alghe e pesci, la forza evocativa della parola materializza un immaginario
nutrito da passioni, rancori, visioni, brutalità, tenerezze, bestemmie
apotropaiche, ansia insopprimibile di vivere. Mutamento e immutabilità si mescolano
nella storia dell’amore calpestato tra Angela e Tonino, ucciso con l’inganno.
Cinquesecce, il fratellastro di quest’ultimo che la stupra insieme a due
balordi, è a sua volta nato da uno stupro. La stessa sorte subisce da parte del
padre Pacchione, un monco che l’artista crea curvo e con due scodelle che gli
nascondono le mani (un’inazione schiacciata dal peso della consapevolezza e che
non può sanare le sue ferite aggrappandosi a una croce di legno, immagine di un
sacrificio senza redenzione) e la stessa brutalità torna nel terzo fratello,
Peppe Schiumetta, un prete preoccupato solo di se stesso. La trasformazione di
Tonino redivivo in pesce e di Angela in delfino, l’animale che fa da tramite
tra immanenza e trascendenza, esprime in una dimensione fiabesca la rivalsa
della vita sulla morte (il colera che è anche malattia dell’anima). E solo il
mare, che annulla ogni concetto di spazio e tempo, avrebbe potuto raccontare
una vicenda in cui tutto può morire e tutto può rinascere.
venerdì 31 ottobre 2014
NottePasolini, i mille volti di un uomo scomodo
Non un semplice intento
celebrativo, ma la necessità di confrontarsi con una scandalosa fertilità di
pensiero. NottePasolini (atto I) è la manifestazione a cura di Alfonso Amendola
(cattedra di Sociologia degli audiovisivi sperimentali presso l’Università degli
Studi di Salerno) che, a partire dalle 18.30 del 31 ottobre esplorerà, presso
il Teatro Ghirelli di Salerno, gli aspetti di un itinerario creativo che non
cessa di affascinare e con cui il pensiero moderno ha contratto un debito
profondo. Dopo l’introduzione a cura di Antonio Bottiglieri (Presidente
Fondazione “Salerno Contemporanea”), Francesco Colucci (Capo dell’Ufficio
Rapporti con la Stampa
e Promozione d’Ateneo) e dello stesso Amendola, Vincenzo Del Gaudio (dottorando di ricerca all’Università Vita-salute San
Raffaele di Milano, critico teatrale e collaboratore presso la cattedra di
Sociologia degli audiovisivi sperimentali dell'Università di Salerno)
esaminerà la specificità del teatro di parola, Costantino
Vassallo (critico d’arte indipendente, legato
alle dinamiche dell’arte contemporanea e alle sue implicazioni con la filosofia
del Novecento) punterà l’attenzione sulla
capacità dell’immagine di farsi momento di transizione della percezione, Davide
Speranza (giornalista, addetto stampa di
enti culturali e organizzatore di eventi letterari), che propoporrà anche un breve contributo audiovisivo sulla relazione tra il “video-giornalismo”
d’inchiesta dell’intellettuale e il lavoro portato avanti dai due giovani
videoreporter Vincenzo Luca Forte e Giovanna Testa, indagherà i meccanismi di
omologazione del potere che da Pasolini a Socrate a David Foster Wallace si
perpetuano subdoli. Le scelte pasoliniane nel campo del documentario saranno
oggetto dell’intervento di Salvatore
Marfella, (critico cinematografico, cronista
culturale e collaboratore di “Canale Napoli”, “Rivista Milena”, “Città
future”), mentre spetterà a Elio Goka (scrittore, attivista, Direttore
Rivista “Milena”) raccontare del bisogno di libertà che l’autore di “Ragazzi di
vita” portava da sempre dentro di sé. Francesco Savastano presenterà in seguito
la mostra “Atto 1: Periferie” con opere di Maria Teresa Cavaliere, Vincenzo
Iodice e Nicholas Tolosa, uno sguardo attento alle atmosfere suburbane care
all’autore. “Salò o le 120 giornate di Sodoma” e “Teorema” ispireranno alle 21.30. “VietatoPornoAmen”, l’atto unco della Compagnia Teatro Grimaldello diretta da
Antonio Grimaldi.
martedì 21 ottobre 2014
“La merda”, viaggio attraverso il disgusto
Non è poi così orrendo fare
ciò che non piace (la fellatio a qualcuno che conta, per esempio). Si resiste.
Ci si abitua. Non è forse la resistenza che ha fatto grande questo Paese? Non
si dimentica il caustico e feroce percorso di degradazione di “La merda”, lo
spettacolo di Cristian Ceresoli con Silvia Gallerano, accolto con entusiasmo al
Centro Sociale di Salerno. L’evento ha fatto parte del cartellone “Per voce
sola – Parole della nostra scena” ideata e diretta da Vincenzo Albano e
sostenuta dalla rivista Puracultura. In un climax disturbante scandito dai
segmenti narrativi Le Cosce, IL Cazzo, La Fama, nuda su un alto sgabello, la protagonista
racconta la sua scalata al successo, ovvero la partecipazione a uno spot in cui
il canto dell’inno nazionale deve essere eseguito da una donna sovrappeso. La
nudità è un aspetto coerente della pièce. L’etica è etimologicamente legata al
concetto di ethos, abito, il sistema di valori di cui rivestirsi per
distinguersi e trovare un senso, ma non c’è traccia di questo nella vogare
Italia che fa dell’apparenza il suo culto. Il corpo va mostrato, esibito,
offerto come merce. Ad essere nudo, cioè pronto a esplodere senza filtri, è
l’istinto di sopravvivenza che coincide col bisogno assoluto di essere
riconosciuta e ammirata dal pubblico. Sono gli occhi degli altri a sancire
un’esistenza, a rivestirla di un valore. E poiché nulla viene regalato, chi
vuol vivere sotto i riflettori deve essere una predatrice, anche se ripugnanza
e ambizione si mescolano. Di qui l’insistenza sulla dimensione orale,che
approda al cannibalismo e alla coprofagia: mangiare le proprie cosce perché non
consone al comune canone di bellezza, i “cazzi” di chi possa assicurare la
notorietà, i propri escrementi per non perdere i chili accumulati in vista
della partecipazione televisiva. La posizione dell’attrice in scena rimanda a una
frustrazione che la consuma. L’urgenza di elevarsi rispetto al contesto rivela
una mostruosità speculare, dato che chi la circonda oscilla tra vacuità e
opportunismo, a eccezione del padre, devoto all’ideologia dei Mille e non a
caso suicida: il passato, specialmente quello circondato dalla gloria, risulta
stantio in un’epoca senza memoria e remore. Nel deformare la bocca, la voce e i
gesti con una mobilità espressiva che ha dello stupefacente, la Gallerano incarna un
tempo sigillato nel proprio nulla. E quando intona dolcemente l’inno prima che
il buio l’avvolga, è ormai certo che su questa Italia (ma il discorso diviene
universale) è ormai calata definitivamente la notte.
lunedì 6 ottobre 2014
Umano e virtuale in Luca Trezza
“Santo Mouse, Santo Klaus,
Santo Cell, Santo Nick, Santo Auditel…”. Davvero singolare, la preghiera che percorre
la vicenda sulla scena. Ancora più singolare, però, è assistere a un’umanità
che ha deciso di dissolversi in uno scenario virtuale. Applaudito al Piccolo
Teatro del Giullare di Salerno, dove è stato presentato in anteprima nazionale,
“Trittico del mio byte” di e con Luca Trezza ha costituito la seconda tappa di
“Per voce sola”, la rassegna diretta da Vincenzo Albano che si avvale del
sostegno della rivista Puracultura. Il mondo che l’artista salernitano porta in
scena è un deserto popolato da fantasmi e da comportamenti stereotipati in cui
le pulsioni entrano in rotta di collisione con una solitudine impossibile da
scalfire se non nel sogno, nell’allucinazione, nel chiamarsi fuori da uno
spazio tanto più claustrofobico quanto più appaia privo di confini. Nel primo
monologo, “Abbokkapertaà”, la
descrizione della madre cercata con disperata ostinazione è rivelatrice: “Era
alta pressappoco così, un cellulare non ce l’aveva, non aveva nemmeno una
bacheca”. La donna non ha diritto di cittadinanza in un contesto di riti e
gesti all’insegna dell’omologazione; non c’è spazio per chi non sia
assimilabile alla rete e ai suoi dettami. La perdita della madre è perdita
anche della propria ragione di esistere: quando il protagonista immagina di
essere divorato da lei, la carne sta rivendicando la sua supremazia su tutto
quello che le è estraneo. E solo un cantico –che con intento metateatrale è
l’opera in sé- può annullare distanze, mantenere vive le memorie, recuperare un
senso. La necessità di raccontare- attraverso un linguaggio che mescola e
stravolge i registri più disparati- tenta sempre di arginare la frammentazione
dell’io che si riflette nei gesti inconsulti e violenti di Trezza, un corpo che
ha bisogno dell’eccesso, del violento protendersi per ricordare a se stesso di
non essere solo qualcosa di catalogabile. In “Neo’.melo’.Diko” le figure
proposte sono estremamente tipizzate (la ragazza “facile”, l’impresario senza
scrupoli, la nonna affettuosa, il cantante sognatore) perché in una società
affascinata dalla sopraffazione non c’è posto per chi ha un sogno da difendere.
L’egoismo di chi vuole imporsi non è meno alienante della dipendenza da
Internet, che porta a deificare i mezzi tecnologici. La reazione a una tale
complessità è leggibile nella scenografia, basata su pochi elementi: il busto
di un manichino femminile che compensa invano la mancanza e a cui scattare foto
col cellulare che non assicura mai una comunicazione reale, senza filtri, una
piccola padella che funge da sterzo o da difesa, pasta da calpestare per mimare
il rumore di una finestra che si apre. In “Racconto di fine mese verso le 3e
1\2 della notte” i rumori di un attacco sono presto soppiantati da quelli, non
meno disturbanti, della connessione. Il reduce in scena è cieco (ma cieco è
quel che lo circonda, perché prigioniero di una coazione a ripetere i propri
meccanismi) ed escluso dalla scelta di tutti di essere “sulla schermità”. E il
senso di vuoto è così profondo da togliere il respiro.
venerdì 3 ottobre 2014
Luca Trezza in “Trittico del mio byte”
Luca Trezza conosce molto
bene i meccanismi dell’alienazione e della perdita. Sa descrivere come nessuno
quel silenzio ostinato dell’anima che si impossessa di chi si muove nel delirio
della sovraesposizione mediatica senza soddisfare realmente i propri desideri.
Già in "wwww.testamento.eacapo" (I posto nella sezione Teatro del
Festival della creatività di Roma Capitale 2013 ed attualmente finalista al
Festival “Le voci dell’anima” 2014 di Gioia del Colle/Milano/Rimini) esaminava
l’instabilità di un internauta. Stasera alle 21, presso il Piccolo Teatro del
Giullare, l’artista salernitano tornerà nella sua città natale con “Trittico
del mio byte”, lo spettacolo che segna il secondo appuntamento con la rassegna
teatrale “Per voce sola” - parole della nostra scena”, ideata e diretta
da Vincenzo Albano. “Abbokkapertaa
+ Neo’.melo’.Diko. + Racconto di fine mese verso le 3e 1\2 della
notte” costituiscono le tre tappe di un viaggio in una mente inquieta,
che insegue senza sosta e senza successo un punto di riferimento che possa
orientare nel caos di pensieri e urgenze emotive. Nella prima parte dello
spettacolo la perdita di una madre è anche perdita
del proprio mondo interiore: la desolazione di scoprirsi soli si carica di
fortissima tensione, mentre il contesto in cui il protagonista si muove non
sembra essere più rassicurante. I sogni di gloria di un cantante neomelodico in
America, che si intrattiene con un impresario, una nonna, una ragazzina, diventano bilancio destabilizzante in “Neo’.melo’.Diko”, mentre la conclusione
della messinscena vede protagonista un
anziano, affetto da “arteriosclerosi digitale” alle prese con il racconto delle
proprie vicende. La narrazione non ha tuttavia la funzione di un
esorcismo, di una liberazione: inchioda chi racconta alle proprie nevrosi, a
ciò che di irrisolto torna di continuo ad assediarlo. Una pièce simile non può
non avere la struttura di un monologo, in cui il personaggio resta solo a
considerare ciò che è stato e ciò che avrebbe potuto cambiare le carte in
tavola. Lo stesso Trezza illustra il movente di un’operazione così complessa:
“Un modo per dire di sé attraverso il battere di un
cuore fatto come un byte, per far rivivere in questo altrove chi non c’è più,
per stare noi stretti stretti, vicini, mentre questa guerra moderna di
chiamate, sms, trilli e post di bacheche virtuali ci invade. A noi non resta
che pregare, invocare, delirando una preghiera per questi aggeggi moderni come
madonne contemporanee, pieni di arcani e di suggestioni”
Orazio Cerino in “Condannato a morte. The punk version”
Morire prima della morte è una crudele prerogativa di chi è destinato alla pena capitale. Lo si osserva come se fosse già nella bara, come se la meta fosse stata raggiunta nonostante il viaggio sia ancora in atto. E allora esplode la rabbia di chi non si rassegna a un copione scritto da altri. Orazio Cerino è l’appassionato protagonista di “Condannato a morte. The punk version”, audace ripensamento de “L’ultimo giorno di un condannato a morte”, pubblicato da Victor Hugo nel 1829, in scena il 3 ottobre alle 21 presso l’antica Ramiera di Giffoni Valle Piana e in replica dal 10 al 12 ottobre presso il Teatro Il Primo di Napoli. Davide Sacco cura la regia, Luigi Sacco la scenografia, Clelia Bove i costumi, mentre le musiche sono eseguite dal vivo da Martina Angelucci e le luci portano la firma di Francesco Barbera. Patrocinata da Amnesty International e dal Giffoni Film Festival, la messinscena è volutamente scarna (uno spazio spoglio che riecheggia la solitudine del protagonista), perché dinanzi alla fine gesti, pensieri, memorie non possono che mostrarsi in tutta la loro straniante nudità. Cerino chiama in causa gli spettatori, seduti ai bordi del luogo in cui si muove, rendendoli di volta in volta carcerieri, confidenti, testimoni dello scontro più cupo che si possa combattere: quello contro una repressione ammantata di rettitudine. Il condannato formula a sua volta una condanna: il sistema che annienta all’ombra di una morale cieca uccide se stesso. Il corpo riscopre una sua sacralità, a dispetto di tutti i codici a guardia di istinti e pulsioni.
lunedì 29 settembre 2014
“Dissonorata”, la fatica di essere donna
Esistono molti modi di
costruire una prigione: inchiodare alla propria (imperdonabile) diversità
biologica, per esempio. Non si sconta mai abbastanza la colpa di essere donna
in “Dissonorata”, lo spettacolo scritto, diretto e interpretato da Saverio La Ruina, che ha aperto con
successo presso il Teatro del Giullare di Salerno “Per voce sola”, la rassegna
a cura dell’associazione Erre Teatro di Vincenzo Albano. La messinscena, che
trova un’eco raffinata e dolente nelle musiche originali eseguite dal vivo da
Gianfranco De Franco, trae forza da una nudità che è crudeltà e urgenza di
raccontare per dare voce a chi non può esprimersi. La scelta di porre al centro
della scena solo una sedia dove il regista è Pasqualina, vittima della cecità
altrui prima ancora che della propria, esprime la claustrofobia di un
personaggio condannato al disprezzo e alla solitudine e al tempo stesso, in
quell’isolamento che toglie il fiato, conduce memorie, sensazioni, desideri ad
avere finalmente il diritto di esistere. Non è casuale che la vicenda venga
narrata a ritroso: a chi ha la sventura di nascere femmina è negata una
prospettiva nella Calabria a dir poco primitiva che scandisce il tempo tra i
campi, il bestiame e la volontà degli uomini. Che sia poi un uomo a impersonare
la protagonista diviene naturale: in questo mondo geloso dei propri riti, la
dimensione femminile non può che essere filtrata attraverso l’ottica maschile,
la sola che conti, e La Ruina
non potrebbe essere più autentico nel creare una ragazza che sogna le nozze,
l’unico passaporto per una vita vera. Quando le luci si accendono, il corpo
oscilla come sotto il peso di un’amarezza che si può solo respirare e che si fa
fatica a comunicare: si avverte tutto il peso di un condizionamento
inaggirabile, tanto da avere la sensazione che mille occhi osservino alle sue
spalle per schiacciare sotto il proprio giudizio. La corposità del dialetto
calabrese permette di restituire ogni cosa alla sua essenza con una limpidezza
che stordisce. La voce dell’artista è straordinariamente duttile nell’oscillare
tra angoscia, trepidazione, ironica concretezza. La più antica delle storie
(una ragazza incinta abbandonata dal suo amante) si carica di una tensione
altissima: il fratello le dà fuoco, ma lei riesce a partorire Saverio in una
stalla, proprio nel giorno di Natale, al cospetto di un cane e di un maiale. Questa
nascita, che si carica di sospensione magica, allude alla sacralità laica
dell’esistenza, al suo valore che pulsa e si fa strada in quella cappa di
piombo che è l’odio per ciò che osa essere diverso. Lo sguardo di Pasqualina
resterà fisso al suolo, come si chiede a una donna dabbene, sulle note beffarde
di “Gracias a la vida”. Eppure il miracolo si è compiuto: ha lasciato, malgrado
tutto, una traccia di sé.
mercoledì 24 settembre 2014
"Close Up Medea", il dissidio tra corpo e anima
“Me ne intendo di si”, dice
il dottore che crede di avere nelle proprie mani la donna che gli sta di
fronte. Ma non si può chiedere alla principessa della Colchide di rinnegare se
stessa e ciò che è scritto nella carne torna a sconvolgere ogni punto di
riferimento. “Close Up Medea” è lo spettacolo che Teatrazione Teatro ha
proposto con successo all’Arco Catalano Fest di Salerno. Ispirata liberamente
al “Purgatorio” di Ariel Dorfman, la messinscena è costruita su di una
corporeità che si fa eco di quel che si vorrebbe cancellare: l’impossibilità di
concepirsi separati da ciò che ha mutato per sempre un percorso, il desiderio
di protendersi in un altrove da riscrivere, un amore malato per quel che è
stato distrutto ma sopravvive nel ricordo. Molto più di una follia a due. Giasone
e Medea sono di volta in volta se stessi e i propri medici, rivolti a una
redenzione che non si concretizzerà mai (un Igor Canto che oscilla sagacemente
tra flemma e fragilità e una Cristina Recupito cosi intensa da lasciare
interdetti) non perché l’identità sia quanto mai labile, ma perché passato e
presente, azione e resa dei conti sono solo i nomi da dare al rapporto
irrisolvibile con ciò che si è stati e si potrebbe essere. Quando all’inizio
della pièce i due emergono da un drappo rosso come da una crisalide e si
allontanano solo all’apparenza, uniti da esso, che ha il colore della vita e
del sangue, esprimono quella prigione inviolabile che è l’io, costretto a
contemplarsi e rivivere nell’altro. È in quel drappo che viene avvolta colei
che ha osato divenire tomba dei suoi figli e a lei viene consegnato il pugnale
dell’uccisione: il ricatto che inchioda il colpevole alla colpa per manipolarlo
meglio. La piccola telecamera che filma gli incontri allude a una logica
superiore in cui inquadrare la vicenda, ma è solo l’ennesimo inganno di chi si
creda superiore alle pulsioni e all’irrazionale. “Non saprei dove andare”,
dicono i personaggi vestiti da medici, come a dire che non si può guardare
dall’alto la forza oscura del desiderio e della distruzione, ma solo lasciarsi
attraversare da essa. E quando Medea contempla con una tenerezza dolente la
stoffa rossa (la vita persa eppure presente) e i due tornano a distendersi al
suolo sulle note di “Cu te li dissi” d Rosa Balistrieri, leit-motiv di quel che non è possibile
dimenticare, il bisogno ancestrale di perdersi in chi è di fronte inghiotte
tutto e il corpo dell’uno si fa confine e orizzonte del corpo dell’altro.
martedì 16 settembre 2014
Per voce sola, la nuova rassegna di Erre Teatro
È ancora il banco di prova
più insidioso per un interprete. Il monologo è il momento in cui chi si
consacra al palcoscenico non deve temere di dare tutto di sé e proprio su esso
è costruita “Per voce sola-Parole della nostra scena”, la rassegna attuata
dalla Erre Teatro di Vincenzo Albano che guarda ai fermenti della moderna
dimensione teatrale e al coinvolgimento delle energie del territorio
salernitano. Gli spettacoli si terranno presso il Piccolo Teatro del Giullare di Salerno e
a fare da apripista sarà, il 26 settembre, “Dissonorata- Un delitto d’onore in Calabria”,
scritto, diretto e interpretato da Saverio La Ruina con musiche originali eseguite dal vivo da
Gianfranco De Franco. Reduce da numerosi riconoscimenti, tra cui il Premio UBU
2007 per il Migliore Attore e Migliore Testo Italiano, l’artista descrive un
contesto solo all’apparenza lontano, in cui la donna non ha diritto di essere e
di ascoltare se stessa, mescolando amarezza e ironia. Il 3 ottobre sarà la
volta di “Trittico del mio byte” di Luca Trezza, articolato in “Abbakkoapertaà”, in cui la perdita di una madre è anche
perdita del proprio mondo interiore, “Neo’ melo’ Diko”, dove i sogni di gloria
di un cantante neomelodico in America diventano bilancio destabilizzante,
“Racconto di fine mese verso le 3 e1\2della notte”, che vede protagonista un anziano,
affetto da “arteriosclerosi digitale” alle prese con il racconto delle proprie
vicende. Le tre stagioni della vita sono altrettanti tentativi di riconoscersi
in un mondo che antepone la conoscenza virtuale a quella dell’anima. Mimmo
Borrelli, tra i più importanti drammaturghi contemporanei, terrà inoltre un
laboratorio intensivo sul monologo,“La grammatica messa in corpo dell’attore”
dal 20 al 22 ottobre, dalle 14 alle 20, al costo di 120 euro, per un numero
massimo di 15 allievi, che potranno inviare i loro dati a erreteatro.info@gmail.com.
Il 24 ottobre è prevista la messinscena di “Cante e schiante”, dove lo stesso
Borrelli, accompagnato dalle musiche di Antonio Della Ragione, porterà alla
luce tutta la turbolenta intensità di Torregaveta e dei Campi Flegrei,
un luogo riconoscibile e al tempo stesso defornato dall’urgenza di mescolare il
buio e la luce. Il solo spettacolo che si terrà al Centro Sociale di Via
Cantarella il 17 ottobre sarà “La merda” di Cristian Ceresoli, con Silvia
Gallerano, dove tre tempi, Le Cosce, Il Cazzo, La Fama e un controtempo,
L’Italia, sono vissuti da una donna che racconta nel modo più impudico
l’oscenità di un tempo che ha deciso di essere sepolto dalla propria
incongruenza.
giovedì 14 agosto 2014
Tra classico e contemporaneo, la nuova stagione del Ghirelli
Attenzione ai classici e
alla drammaturgia contemporanea. Su queste due direttive si muove la nuova
stagione del Teatro Antonio Ghirelli di Salerno. Si inizia il 23 ottobre con l’eduardiano
“Dolore sotto chiave”, per la regia di Francesco Saponaro con Tony Laudadio, in
cui le voci dell’omonimo radiodramma Rai del 1958 amplieranno il fascino di una
storia nera, dove il lutto nasconde verità scomode. Iaia Forte sarà regista e
interprete di “Hanno tutti ragione” (13-16 novembre), tratto dall’omonimo libro
di Paolo Sorrentino, esplorando contraddizioni e urgenze di un personaggio
fuori dagli schemi come il cantante cocainomane Tony Pagoda, mentre i Virtuosi
di San Martino proporranno “La repubblica di salotto” (27-30 novembre),
affresco crudelmente sarcastico (e dunque più che mai veritiero) dell’Italia di
oggi. Nei giorni 2, 3, 4, 7, 9, 10, 16, e 17 dicembre andrà in scena “Wrong
play, my Lord o The Mousetrap”, spettacolo in lingua inglese tratto dall’”Amleto”
di Shakespeare con Arturo Muselli e Alessio Sica diretti da Ludovica Rambelli, rivisitazione
accattivante di un classico a cui è conferito il ritmo instancabile
dell’inventiva. “Un anno dopo”, scritto e diretto da Tony Laudadio, vicenda di
due colleghi di lavoro che non possono non riconoscersi l’uno nell’altro
nonostante i contrasti, sarà in programma dal 27 al 30 dicembre, mentre dal 15
al 18 gennaio 2015 sarà la volta di “Due passi sono” della Compagnia
Carullo-Minasi, che racconta, secondo un’ottica grottesca, l’oscillare tra
costrizione e libertà e ha vinto, tra l’altro, il Premio Scenario per Ustica
2011. L’operetta dark “L’anima buona di Lucignolo” (19-22 febbraio), dove il
circo riflette falsità e ambizioni di ogni cuore, si avvarrà della regia di
Luca Saccoia; Licia Maglietta dirigerà se stessa in “Manca solo la domenica” (5-8 marzo) da “Pazza è la
luna” di Silvana Grasso. Qui la finta vedova di sei sconosciuti ricostruisce a
proprio piacere quella vita di affetti che le è di fatto preclusa. Cesar Brie
dirigerà Gianfranco Berardi e Gabriella Casolari nello spettacolo “In fondo
agli occhi” (26-29 marzo), che fa della cecità la metafora di una società senza
prospettive. Sonia Bergamasco, che ha ricevuto nel 2012 il Premio della Critica
come migliore attrice, sarà diretta da Giuseppe Bertolucci in “Karenina, prove
aperte d’infelicità”, dal 9 al 12 aprile: la genesi del capolavoro di Tolstoj
diviene teatro dell’anima. Sarà possibile usufruire della tipologia di
abbonamento 10+1, in
cui l’undicesima rappresentazione è a scelta dell’abbonato tra gli eventi fuori
abbonamento. Avrà luogo inoltre la rassegna Exp(l)o, che punterà l’attenzione
sulle realtà artistiche campane, con “Antigone-una guerra civile” diretta da
Mirko de Martino (23-25 gennaio), dove la celebre eroina si trasforma in una
fascista, “Matrimoro” per la regia di Adriana Follieri (6-8 febbraio), che fa
di Caino e Abele il mezzo per osservare la natura umana, “Apnea” di Maria Teresa
Ingino in data da stabilirsi sulla liberazione dal dolore del corpo, “I
posteggiatori tristi” che pongono il repertorio musicale napoletano al centro
di un gioco brioso (12-15 febbraio), “Scapezzo” di e con Nicola Vicidomini
(13-15 marzo) dove il fallimento coincide col divertimento, “La femme acephale”
da Jacques Prevert nella drammaturgia e regia di Libero de Martino con Cinzia
Annunziata, grande prova interpretativa per un racconto tutto giocato sulla
follia. Le iniziative collaterali alla manifestazione saranno inoltre “Cinema
tra reale e teatrale”, in cui Antonella Nocera con Parallelo 41 indagheranno
assonanze e divergenze tra forme espressive diverse, “Erasmusica” a cura di
Ambra Sorrentino, volta a una rivisitazione in chiave moderna dell’opera lirica
e del teatro musicale, “Un fiume in jazz”, che sotto l’egida di Stefano
Giuliani porterà alla ribalta i professionisti campani del jazz e “Femminile
palestinese”, che, a cura di Maria Rosaria Greco, avrà per oggetto le
suggestioni e le immagine di una realtà estremamente complessa.
lunedì 11 agosto 2014
“Vite in pericolo”, l’omaggio al gioco e al teatro di Pippo Montedoro
Che uno scrittore dia prova
di uno stile piacevole non è cosa poi così rara. È invece un’eccezione che
quella piacevolezza nasca da sensazioni che mostrano l’aspetto sorprendente
dell’assodato e da un’ironia a suo modo aristocratica, ma ben distante dalla saccenza
e dall’autocompiacimento. È quello che sperimenta il lettore di “Vite in
pericolo” di Pippo Montedoro edito da Qanat. I racconti sospesi tra memorie e
fantasie s’insinuano con leggerezza (una leggerezza gravida di colori e sapori
che si ritrova nella prefazione di Salvo Piparo) e di colpo il mondo di
Montedoro diventa il nostro, che sia la cella dell’Ucciardone, la Vucciria o un bosco in
cui non ha più senso distinguere l’animale dall’umano. L’autore ama definirsi
goloso ed estende questa caratteristica al suo lessico colto e carnale. Le parole
sono in effetti scelte con autentica golosità, desiderate per la loro
concretezza e spesso per la loro dolcezza, si offrono agli occhi e al palato
con una fisicità spudorata. C’è il rischio di non guardare mai più con gli
stessi occhi la flanella dopo la descrizione erotica che il libro ci regala in
uno dei molti pezzi di bravura. Ciò che unisce le parti dell’opera è la passione
per il gioco, concepito come sovvertimento, urgenza di riscrivere ciò che si
vorrebbe fissato definitivamente. I protagonisti di “A.D. duemilaventisette – sorrisi” giocano con l’immagine stereotipata che gli
altri hanno (quando ce l’hanno) di loro; in “Sentimenti senza quartiere”
si gioca con l’avidità di pusher stranieri; in “buon Vino a cattivo Gioco” il
viviri (vivere) dipende dal giusto rapporto col viviri (bere); in “1973,
Ucciardone - lectio elegantiae”
i legami inattesi della reclusione mandano a gambe all’aria il modo perbenista
di creare relazioni. In “non ci pensare, Lazzaro” la posta è il
desiderio irrealizzato. “Ready Made” deride nella sua lapidarietà la vita
equilibrata, “Fiato” spiazza di continuo la percezione di chi legge, “E il
ritorno lo faceva a piedi” prende di mira il genere fantasy e la pretesa di
riscattarsi dai propri limiti. Il gioco
pervade anche l’appendice, “Il pallore d’Achille”. In “Quistiuni” le domande al
Piè Veloce rivelano, tra assonanze e paranomasie, l’ostilità verso la superbia
del potere. La “pulita” coscienza borghese è sarcasticamente punita in “Fine (sceneggiatura
per video fasullo)”, mentre
l’esaudirsi di una volontà porta a uno pseudo-trionfo beffardo in “Le
richieste di Felice”. “Di Eos molto presto” illustra l’alto prezzo da pagare
per l’estinzione del genere femminile sul piano mitologico, mitopoietico,
sociologico. Si ha poi la sintesi in dieci parole di principio e fine in “Serata
(romanzo completo)” e i problemi striscianti, ma non irrilevanti di una lumaca in “Chi va piano… No, Ah?!”. E se la convenzione
in tutti i suoi volti è il bersaglio dello scrittore, ben si comprende l’uso
ossessivo della virgola interrogativa, che imprime all’andatura della frase un
ritmo del tutto autonomo. “Vite in pericolo” è però anche un atto d’amore
indiscusso per il teatro, come mostra “Colonia penale e altre fragranze”, che rievoca i fasti della compagnia Curò,
tra i cui fondatori c’è il Nostro, attiva a Palermo e non solo nella felice e
contestatissima stagione degli anni Settanta, vivi nel bianco e nero ammaliante
delle foto di Letizia Battaglia. Allora era vitale che il palcoscenico si
spingesse oltre se stesso, che l’azione scenica divenisse un campo di forze
pronte a fare a pezzi qualunque gerarchia mentale e fisica, che il nonsenso si
tramutasse in possibilità di senso da condividere e magari calpestare con gli
spettatori. Quella di Curò era una lotta senza respiro contro l’acquiescenza al
sistema, un inno all’inventiva, un oltraggio a quelle prigioni che sono le
categorie, una riflessione a briglia sciolta sull’ambiguità volutamente
irrisolta di ruolo, luogo, parola. Montedoro resta uomo di teatro anche
nella scrittura. Lo evidenzia la costruzione della tensione, la cura riservata
alla mimica dei personaggi, il rapporto quanto mai duttile col tempo della
narrazione. E se, come recita la frase di Piero Ciampi citata nel testo, “Il
corpo è un sublime/atroce porco”, la materialità imperfetta, evocativa e
seducente di questo volume è la migliore risposta a ogni forma di ottusità.
domenica 27 luglio 2014
“Simile a Cristo”, un’intensa rilettura di Viviani
La miseria, la
sfrontatezza, l’amore. Ma anche la forza di battersi per i propri sogni,
soprattutto quando sognare è l’unica via d’uscita. Con lo spettacolo “Simile a
Cristo”, il regista Antonio Grimaldi ha proposto al Teatro Nuovo di Salerno una
rilettura del capolavoro di Raffaele Viviani, “Zingari”, secondo l’approccio
che gli è più congeniale: condurre al parossismo le possibilità espressive del
corpo e giocare la messinscena sul filo del simbolismo e di un’allegoria che
colpiscano immediatamente lo spettatore. Pia Ansalone, Emiliano Avallone, Leopoldo Brindisi Malanga, Gemma de Cesare, Gianluca De Stefano, Rossella Forziati, Gabriella Landi, Chiara Manzo, Alessandra Menchini,Gabriella Orilia Anna Piccolo, Mat Thew, Alfonso Tramontano Guerritore costruiscono una
vicenda in cui il testo diviene lo spunto per aprire un conflitto irrisolvibile
tra l’anarchia del desiderio e la legge del branco, che riconosce solo se
stessa. Gennarino, il protagonista, vuole imporsi al di sopra di essa.
All’inizio della messinscena, non a caso, è posto su di un piedistallo che
sovrasta gli interpreti striscianti in un mare di fiori che gli spettatori sono
stati invitati a gettare sul palco: quello che si vede è più vicino di quel che
sembri- chi non ha sognato e cercato di difendere quel sogno?- e il
“contributo” alla scenografia crea un’empatia con la platea. Il Diavolone, il
padrone di questo mondo geloso dei propri riti tribali, siede al lato di quel
mare umano con la sicurezza di chi è chiamato a guidarlo. Palomma, oggetto del
desiderio di entrambi, è vittima della sua fragilità che appassisce in questo
gioco di sopraffazioni ed egoismi. Gli attori creano movimenti scenici che
ondeggiano di continuo tra la crudeltà e l’attonito assistere alla capacità di
rigenerarsi che solo la passione può avere. E proprio come Cristo, Gennarino
muore e risorge inseguendo una felicità destinata a fossilizzarsi in un unico
eterno istante(si pensi al beffardo fermo-immagine in cui l’aguzzino di Palomma
si muove ironico tra i partecipanti al suo sposalizio, immobili come statue).
Eppure un’anima non può tradire se stessa: sarebbe quella la vera morte.
martedì 8 luglio 2014
Gli Atterraggi poetici pericolosi di Tomaso Binga
Sa divertire come pochi, ma
il disimpegno non è nelle sue corde. Sguinzaglia la forza anarchica del
linguaggio, ma il gioco è sempre proteso oltre se stesso, verso il
coinvolgimento senza filtri dello spettatore. Esponente di spicco della poesia
visiva e aperta da sempre a ogni sorta di sperimentazione artistica, Tomaso
Binga, al secolo Bianca Pucciarelli Menna, è stata applaudita presso la Galleria Tiziana
Di Caro di Salerno nella sua performance Atterraggi poetici pericolosi
nell’ambito di Salerno Letteratura. Accompagnata dal sassofono di Michele
Vassallo, ha recitato composizioni frutto di una poetica dai cardini ben
precisi: la vocazione dell’artista ad aprire gli occhi, la denuncia
dell’ottusità del potere, la necessità di un mutamento nella prospettiva. “Con
quaranta gradi all’ombra e novantotto di umidità” è una sineddoche al vetriolo,
in cui a ogni parte del corpo corrisponde un atteggiamento ostile: l’occhio che
guarda la “roba espropriata per carità”, ovvero le ricchezze della Chiesa; il
braccio che colpisce “angeli e galeotti/assetati di sole”, il “culo” che “non
ha storia”, è “un infortunio sul lavoro”, appannaggio dei poveri “in cerca
d’identità”. Si prosegue con “La storia”, in cui l’interrogativo esistenziale
sul rapportarsi agli avvenimenti diventa sarcastica escursione nel vocabolario
(come porci con la storia? Come porci, orci, sorci, occhi?) per invitare a un
approccio tutt’altro che passivo, senza dimenticare che “tutti i capi sono rei”
e dunque solo chi ha un atteggiamento critico verso il potere non ne è
schiavo.“Azzerare i lazzaroni” è uno degli scopi di “Mutazioni”, in cui il
ritmo martellante che culmina nel titolo rovesciato è uno sprone a cambiare se
stessi e il proprio contesto e con la stessa energia sono ribaltate le
categorie di genere in “Io sono una carta”. Un dolente senso di riscatto
civile è alla base di “La bella addormentata”, ovvero la pace, vegliata, non a
caso, da donne che nel sepolcro attendono pazienti il suo risveglio (Binga non
perde mai d’occhio i molti ostacoli che impediscono tuttora alle donne di
realizzarsi e realizzare qualcosa che duri). Oggetto di lucida derisione è
infine la retorica fuorviante e deformante del politichese in “Porcondiciò”,
opera tutta basata sulla questione delle “ruote rosa”, “le ultime ruote del
carro”, con la speranza che il “Porcondiciò” diventi par condicio. Il messaggio
è più che chiaro: attraverso un uso funambolico della lingua, l’autrice vuole
una piena affermazione della dimensione femminile del vivere, in poche parole
della libertà, della creatività, dell’impegno a non tradire la propria natura.
mercoledì 18 giugno 2014
“Scoppiato amore”, l’allegra anarchia del palcoscenico
Una Colombina che offre al suo Arlechino un fiore in
un “pappagallo” d’ospedale non si era mai vista. E probabilmente nessun
Arlecchino ha mai indossato con tanta disinvoltura una giarrettiera verde. “Scoppiato
amore”, lo spettacolo diretto e interpretato da Antonio Grimaldi al Piccolo
Teatro del Giullare di Salerno, è un omaggio brioso alla Commedia dell’Arte, un’esaltazione
del virtuosismo, un catalogo felicemente irrazionale delle possibilità
espressive dell’attore. Il coinvolgimento amoroso, comicamente enfatizzato da
una recitazione surreale e dall’inserto di musiche moderne, è oggetto di una
sistematica decostruzione. Se è vero che nulla è irrazionale quanto il legame
tra due amanti, Cristina Milito Pagliara (una Colombina tenera e abilissima nel
creare con il pubblico l’empatia) e lo stesso Grimaldi (un Arlecchino e in
seguito un Pulcinella che traboccano energia) lo dimostrano senza ombra di
dubbio, celebrando, per esempio, il loro matrimonio in ginocchio tra due ali di pupazzetti: l’amour fou ha in
fondo la spensieratezza dell’infanzia. I
pupazzetti spinti gli uni verso gli altri come in una curiosa partita a scacchi
dagli sposi che declamano in modo buffo ”La costruzione di un amore” esprimono
la difficoltà di comunicare quando il rapporto mostra la corda. Il desiderio
può cambiare pelle, ma la sua forza resta intatta, come mostra l’inconsolabile
(solo all’apparenza) vedova interpretata con felice ironia da Gemma De Cesare,
che si arrampica sulle poltrone della platea per mostrare il suo dolore, ovvero
le sue pregevoli gambe. Gli spettatori sono a più riprese coinvolti nelle
schermaglie dei tre, perché ogni gioco teatrale trae forza da chi lo fruisce.
Se fate a meno di desiderare, sembrano dire gli attori, allora potete anche
fare a meno di respirare. Il grigiore di un corpo senza stimoli è davvero tempo
perso.
mercoledì 7 maggio 2014
Il salernitano Luca Trezza a Bologna e Torino con “Wwww.testamento.eacapo”
Dissertare sulla schiavitù
psicologica creata dal web è argomento alla portata di molti, ma pochi ne sanno
cogliere la natura disturbante come l’attore, drammaturgo e regista salernitano
Luca Trezza in “Wwww.testamento.eacapo”. Classificatosi al primo posto nella sezione
Teatro al Festival della Creatività di Roma Capitale 2013 e prodotto da Formiche
di vetro Teatro in collaborazione con Erre Teatro di Vincenzo Albano, lo
spettacolo sarà in programma dal 7 all’11 maggio presso l'Ambhara Bar in
via Borgo Dora 10, alle ore 19.30, nell’ambito del Torino Fringe Festival,
mentre il 16 giugno sarà a Bologna presso la Villa Aldrovandi
Mazzacorati (Teatro 1763) in occasione del Per(A)spera Festival. In “Wwww.testamento.eacapo” Trezza consuma
ogni fibra del suo essere. Offre senza mezzi termini
uno specchio generazionale tendente di continuo al parossismo e al tempo stesso
il ritratto convulso di un’anima serrata nelle proprie nevrosi. I pochi oggetti
in scena (un bicchiere di latte, una web-cam, una rosa, un leggio dove
campeggiano emoticon) descrivono le fragili coordinate di quello che potrebbe
essere liquidato come un sociopatico. Agita il braccio come se respingesse
qualcosa di maligno, mescola il dialetto napoletano, quello romano, un italiano
pseudo-aulico e concreto, (la grottesca koinè della rete, ricca di echi e
incongrue suggestioni), danza in circolo reggendo il filo della minuscola
telecamera come se fosse un prolungamento di sé. Il corpo di Trezza è esagitato
perchè riflette l’incapacità di divincolarsi da se stesso. Le catene che lo
stringono mentre attende invano su di un ponte la ragazza X conosciuta in chat
(lo stesso ponte da cui un uomo fa precipitare la moglie per aver scritto su
Facebook di essere single: le parole sono pietre) sono il legame ossessivo con
il passato, la difficoltà di appropriarsi del tempo, l’insofferenza di non
riconoscere più il proprio volto nello scorrere insensato delle ore. La rosa
posta nel bicchiere di latte allude alla passione che trae linfa dalle pulsioni
dell’infanzia, quasi fosse un’occasione per ritrovare la propria identità:
opportunità frustrata dall’impossibilità di manifesatre una sessualità adulta.
La mela divorata simboleggia il tempo consumato senza costrutto, il vecchio
osservato da un androne prefigura l’aridità che lo attende. Nell’eterno
presente della chat, dove tutto può ripartire da capo, il passato è un fantasma
molesto e il futuro un nome da dare al proprio nulla. Quello contro cui il
giovane si accanisce è la frustrazione di chi è ormai ridotto a un nickname,
senza sperimentare i rischi e i piaceri della carne. Ecco allora che il suo
percorso è un falso movimento: gli orizzonti si restringono fino a scomparire e
poco vale guardare dentro di sé fino alle ossa. È la vita stessa a non apparire
su quel ponte solitario.
Il mostro troppo umano di Antonio Grimaldi
Il bianco è il colore dell’attesa, del silenzio, della solitudine. È naturale che il regista e attore Antonio Grimaldi (nella foto di Enrico Coppola) l’abbia scelto in “Studio di un mostro”, la sua personalissima rivisitazione del “Frankenstein” di Mary Shelley, probabilmente il personaggio più solo dell’intera letteratura. Applaudito presso il Complesso di Santa Sofia di Salerno nell’ambito della manifestazione R-Esistenze e forte del contributo di Cristina Milito Pagliara come assistente alla regia, lo spettacolo attua un lavoro di sottrazione che rende totalizzante il mondo interiore del mostro tradito nella sua essenza. Avrebbe dovuto essere la vetta dell’evoluzione umana, ma si ritrova ad avere il cervello e il cuore di un uomo morto senza che gli sia perdonata la sua diversità. La morte non può celebrare la vita, ma può inseguirne l’essenza, che è il desiderio. La performance di Grimaldi è un conflitto tra una condizione immutabile (a cui il bianco allude) e la febbre di sapersi corpo dotato di anima, tanto umano da non trovare spazio tra gli uomini. La creatura avanza a fatica trascinando una veste anch’essa bianca (si muove su supporti che elevano la statura e conferiscono l’andatura meccanica dell’organismo artificiale) e solo in un secondo momento l’abito rivela una grande macchia d sangue. Appartiene alla vittima, ma è anche il sogno dell’assassino: vuole che il sangue pulsi nelle sue vene, vuole conoscere fino in fondo, a qualunque costo, il sapore della passione. Pur sapendo di non essere compreso, si rivolge al suo creatore con un microfono: le sue parole devono riecheggiare con più forza nel nulla dove gli altri lo hanno relegato. Il protagonista sperimenta la dolente ebbrezza di Prometeo nel far emergere da mucchi di terra gli arti di un manichino femminile faticosamente assemblato. In fondo l’amore è questo: costruire ciò che crediamo ci appaghi e nello sguardo della creatura diventa indistinguibile la trepidazione del padre e la sensualità dell’amante. Urlare alla propria creazione “Vivi!!!” non basta: il mostro avverte che è l’inganno la condizione umana. I sogni naufragano con la stessa rapidità con cui fanno innamorare. Trova un flauto, prova a suonarlo e capisce che non potrà mai essere come quell’oggetto: strumento di chi pretenda di controllare le sue emozioni. E mentre il buio si richiude su di lui, nel suo sguardo teso e intenso la felicità resta un ostinato miraggio.
giovedì 1 maggio 2014
“Storiacce” in scena a Modica
Il mondo di “Storiacce” ferisce e disorienta. La tentazione di voltare le spalle all’inquietudine è forte, ma viene vinta dalla capacità di sorprendere e sedurre che la scrittura di Francesco Silvestri possiede. L’artista interpreterà uno dei suoi testi più complessi con Valentina Bighetti e Marco Iapichino il 2 e il 3 maggio alle 21 e il 4 maggio alle 19 presso l’Ex Chiesa di San Nicolò ed Erasmo a Modica, sede dell’Accademia Clarence. In quelle che Vincenzo Albano, autore della prima monografia dedicata a Silvestri, “…E poi sono morto”, ha definito storie strappate a una sorta di doppio fondo dell’anima, il surreale si colora di angoscia e tenerezza e la fragile umanità che si presenta agli occhi dello spettatore lo coinvolge fino a creare una misteriosa empatia con situazioni che generano straniamento, che si tratti di una donna che non ha la forza di sopportare la sua maternità o di una dolce nenia in cui i colori delle lacrime siano quelli dell’anima. A Silvestri interessa indagare le radici dell’ossessione, il peso degli affetti che risucchiano energie vitali, il tentativo frustrato di conoscere la felicità. Il corpo è il punto fermo nell’ondeggiare di sentimenti tanto più disturbanti quanto più si voglia fingere che non ci appartengano. Questi frammenti di vita raccontano le passioni con un coraggio così raro che non si può che accoglierle dentro di sé, scoprendo quello che un’esistenza ordinata non potrebbe mai farci comprendere.
"Confinati a Ponza" il lato umano della storia
La prigionia è il più
doloroso dei redde rationem. Se il corpo si vede privato dell’autonomia,
l’anima è inchiodata ai propri limiti, ai timori, a ciò che avrebbe preferito
lasciare sepolto e che torna prepotentemente alla luce. È il lato umano della
storia nel momento cruciale in cui tutto è messo in gioco a essere al centro di
“Confinati a Ponza”, lo spettacolo che ha concluso con successo la seconda edizione di Out of Bounds, la
manifestazione promossa dall’Officina Teatrale Laav di Licia Amarante e Antonella
Valitutti. Il testo di Alberto Gentili, diretto e interpretato nei panni del
Duce da Francesco Maria Cordella, racconta la reclusione di Mussolini
all’indomani del crollo del fascismo: condizione condivisa da Pietro Nenni per
la sua opposizione al regime. “Confinato nell’isola dei miei confinati!”
esclama con amaro sarcasmo il dittatore, che Cordella mette sapientemente a
nudo nelle sue inquietudini, sospeso nella cupa incertezza con cui guarda alla
sua sorte e riluttante nel prendere atto di una fragilità che fa
inesorabilmente a pezzi i suoi sogni. La messinscena si basa su pochi elementi:
il tavolo, le sedie, il modesto cucinino della stanza in cui i fasci di luce
ritagliano le figure sullo sfondo di un buio claustrofobico (la sensazione
della gabbia in cui ogni coordinata temporale si annulla è avvertita dal
pubblico con estrema precisione). La recitazione nervosa e trepidante di
Stefano Onofri restituisce un Nenni profondamente credibile nell’oscillare tra
l’emozione di sapersi a breve libero e l’immenso dolore con cui ha pagato il
suo tributo alla lotta, tra l’odio per l’operato di Mussolini e il ricordo di
un’amicizia che era stata per entrambi preziosa. Carmen Di Marzo è la cuoca
attenta e amorevole che si occupa di entrambi e che nella sua disarmante
semplicità diviene una sorta di angelo custode, che supera con ostinazione le
difese che i due prigionieri costruiscono per non dovere ammettere quanto
sarebbe importante guardarsi negli occhi ora che nulla potrà più essere come
prima. L’apparizione di Antonella Valitutti che ricorda il coro delle tragedie
greche è l’unica trasgressione a una messinscena che si preoccupa costantemente
della verosimiglianza ed è motivata dal bisogno di interrogare le segrete
ragioni della giustizia e della vita. Il grido con cui Nenni reagisce alla
partenza di Mussolini non cancella ciò che è accaduto. Esistono distanze che
non si potranno mai colmare, ma questo non annulla il bisogno di percepirsi
uomini al di là di tutte le ferite ricevute e inferte.
venerdì 25 aprile 2014
"Foto di bordello con Nanà", il buio fascino di Enzo Moscato
La
scrittura di Enzo Moscato non fa prigionieri: o la si lascia entrare sotto
pelle fino a contaminare nel profondo il lettore, o la si ripudia. "Foto
di bordello con Nanà", interpretato da Rosalia Terrana e Margherita Rago
per la regia di Giancarlo Guercio, in scena presso il Teatro Nuovo di Salerno
il 27 aprile alle ore 20.00, è una coraggiosa prova di interpretazione che
guida il pubblico alla scoperta di un mondo buio e affascinante, in cui non c’è
posto per moralismi o per approcci razionali. Il copione fonde tre opere di
Moscato ("Luparella", "
'O casino d'a signora Zina" e "Ragazze sole con qualche
esperienza"), facendo di Nanà, personaggio particolarmente caro
all’autore, una sorta di filo conduttore tra diversi percorsi. In bilico tra
disperazione e ironia, ansia di riscatto e voluttà della degradazione, la Napoli che emerge in questo
spettacolo mescola la vita e la morte in un abbraccio che non si può
sciogliere, mentre i travestiti che vivono le loro contraddizioni diventano gli
unici in grado di vivere fino in fondo un legame con le persone e le cose che
attinge alla parte più autentica dell’essere.
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