lunedì 27 gennaio 2014

"Questione di un attimo", il percorso di un uomo solo



Inseguire la verità, restituire il volto alle cose, fare del linguaggio un grimaldello per aprire tutte le porte ostinatamente chiuse. E poi ritrovarsi solo con le proprie parole. Ne vale davvero la pena? Non è mille volte meglio fare gli idraulici invece che i giornalisti? “Questione di un attimo”, lo spettacolo di Roberto Solofria tratto dal testo di Emanuele Tirelli e interpretato da Antimo Navarra, ha aperto con successo al Teatro Genovesi la seconda edizione di Out of Bounds, la manifestazione promossa dall’Officina Teatrale LAAV di Licia Amarante e Antonella Valitutti. Francesco Miniato è un giornalista costretto dalla sua misera paga a lavorare in un ristorante nel centro commerciale Il gorilla (nome emblematico che rimanda alla sopraffazione e a qualcosa di grottesco e ingombrante), all’interno del quale scopre e denuncia una gigantesca operazione di riciclaggio; scelta che gli costa minacce e isolamento. La scrittura di Tirelli, giornalista e autore, possiede una concretezza abbagliante che si carica di tensione; si percepisce il bisogno di superare la soglia del dato, di ridefinire le coordinate del fatto. La regia di Solofria sceglie un simbolismo che non sacrifica la complessità all’immediatezza grazie al dolente e ironico lavoro sul corpo condotto da Navarra. Il protagonista appare in un angolo del palco, comunicando subito il disagio di chi è posto ai margini dalla propria esigenza di conoscere. Parla a un piccolo registratore portatile anche quando lo si vede accovacciato sulla scena, sotto il peso di forze che vogliono spegnere la sua ansia di comunicare e non è un caso che dia sempre la sensazione di parlare a se stesso anche quando il copione sembra presupporre un pubblico: è faticoso ascoltare chi vuole capire. La tribuna da cui comunica i suoi progressi e a cui giunge muovendosi tra gli spettatori (un giornalista si espone, sempre) è affiancata da due cubi: all’interno di uno c’è la piccola riproduzione della sala del ristorante e nell’altro un registratore da cui giunge la voce di una fidanzata esasperata da una vita tutt’atro che convenzionale. I due cubi rimandano alla tendenza a “inscatolare” il tempo, a rinchiuderlo in categorie che sono solo trappole. I fantocci che appaiono ai piedi di Navarra come in un teatrino alludono alla volontà di manipolazione propria della criminalità e i fili bianchi che collegano il proscenio alla tribuna esprimono la ramificazione del disegno malavitoso ma anche il suo intento di prendere di mira chi non è allineato. L’alternarsi febbrile di buio e luce indica il difficile percorso dell’inchiesta; quando Francesco si riferisce alla dichiarazione di un pentito che può “illuminare” la faccenda, il buio dell’omertà inizia a dilagare sul palco, spezzando in bocca il discorso. Le pistole che sparano bolle di sapone quando il giornalista cerca disperatamente di mettere i genitori al riparo da ritorsioni rivelano l’incapacità di fronteggiare un pericolo forte di troppe connivenze. La decisione di lasciare tutto è comunicata fuori campo (esporsi ancora? Per cosa, ormai?) mentre l’interno della tribuna mostra un acquario che riproduce la scenografia con tanto di pesciolino meccanico che si muove invano da una parete all’altra. Al fluire delle frasi si preferisce un’immobilità straniante. Eppure la sconfitta non si rassegna a se stessa, perché se la fine è il momento più difficile, dice il giovane, è il mentre a contare, a dare un senso. Giocarsi l’anima fino in fondo è veramente questione di un attimo.

Al Giullare di Salerno il giallo si ascolta



Si concedono allegre coreografie, scherzano con il cellulare o con il fumo della sigaretta, s’improvvisano fantasmi con lenzuoli, fanno il verso ai propri personaggi. Mai vista una compagnia cosi indisciplinata, ma si sa, il radiodramma è un genere troppo sottile per essere preso sul serio. Nell’unire leggerezza e amore incondizionato per il giallo, Brunella Caputo crea con “Il mistero della donna in nero”, applaudito al Piccolo Teatro del Giullare di Salerno, il piacere di un ascolto dinamico adattando liberamente un testo di Ellery Queen. Se le voci degli interpreti tratteggiano con arguzia una vicenda che coinvolge subito (un omicidio su cui incombe l’ombra del soprannaturale), i loro movimenti non mirano solo a  distrarre comicamente gi spettatori, chiamati a individuare il colpevole, ma strizzano l’occhio alla natura stessa dell’attore, sempre in bilico tra l’immaginazione che diventa realtà e la consapevolezza di come tutto sia fittizio. Introdotti fuori campo da David Curzio Amelia Imparato , Augusto Landi, Andrea Bloise,  Rocco Giannattasio, Matteo Amaturo, Giovanni Caputo diventano strumenti di un’autoironica polifonia che è un toccasana per chi ha un rapporto distratto con le parole, a volte molto più insidiose di un’ombra nel buio.

sabato 18 gennaio 2014

Al Ghirelli di Salerno Benedetto Casillo è Sik Sik



Dura la vita per un ciarlatano che si affida ad espedienti. Ancor più dura se il complice di vecchia data non si presenta in teatro per tenere bordone ai suoi giochi di prestigio. La comparsa di un passante che possa sostituirlo sembrerebbe salvare la situazione, ma la sua dabbenaggine e l’arrivo dell’aiutante, più che mai deciso a non mollare la presa, innescheranno una serie di situazioni esilaranti. Fedele alla prima versione della commedia eduardiana datata 1929, che racchiude la vicenda in un atto unico, Pierpaolo Sepe dirige un Benedetto Casillo perfettamente consapevole del proprio ruolo in “Sik Sik, l’artefice magico”, di scena al Teatro Ghirelli fino a domenica alle 18.30. La produzione è della Fondazione Salerno Contemporanea con la Fondazione Campania dei Festival – Napoli Teatro Festival Italia, in collaborazione con Benevento Città Spettacolo. Come sempre accade nell’autore, di cui ricorre il trentennale della morte, la comicità ha un fondo amaro, il sorriso è sempre accompagnato dalla sensazione che le cose racchiudano comunque un fondo oscuro difficile da esorcizzare. I battibecchi tra il prestigiatore e la moglie che attende un figlio (un’Aida Talliente estremamente credibile nel suo destino di donna consumata dalla vita) sono costruiti con precisisissima attenzione ai tempi comici dietro cui si intravedono ore di risentimenti e solitudine. In Eduardo ciò che è assolutamente realista (la gravidanza, in questo caso) si presta senza alcuna forzatura ad accogliere un senso ulteriore (la promessa di una vita migliore al di là da venire). I comprimari si rivelano pienamente all’altezza del compito curando ogni dettaglio della propria interpretazione: Roberto Del Gaudio è un irresistibile pasticcione e Marco Manchisi ha tutta la buffa dignità di chi si sente spodestato. La scenografia di Francesco Ghisu trasforma il retro del teatro in una sorta di scatola magica, il palcoscenico le cui pareti sono ispirate all’arte espressionista attaverso un gioco ipnotico di geometrie intrecciate. E quando i contrasti tra i due assistenti compromettono lo spettacolo, il protagonista cerca pateticamente di trasformare in un trionfo la rovina. Se dunque da un lato è centrale un tema caro allo scrittore, la sconfitta, dall’altro l’allestimento ricorda come l’illusione teatrale-anche quando è imperfetta e fragile- è l’unico contraltare a un’esistenza che troppo spesso bara, in modo assai subdolo, con chi la vive.

sabato 11 gennaio 2014

Al Giullare di Salerno “Omicidio sul treno verso est”



Un’arguta investigatrice e scrittrice (Amelia Imparato, attenta a ogni sfumatura del suo personaggio); un’assistente giovane e ingenua (Caterina Micoloni, che convince con la sua freschezza); personaggi alquanto curiosi (Augusto Landi, Andrea Bloise, Rocco Giannattasio, Alfredo Micoloni, ironici e affiatati); il microcosmo per antonomasia, lo scompartimento di un treno che si fa scenario di un truce delitto ed ecco tutti gli ingredienti di un giallo che omaggia i tempi d’oro della radio. Nel libero adattamento di un testo di Ellery Queen, la regista Brunella Caputo offre in “Omicidio sul treno verso est” (di scena al Piccolo Teatro del Giullare l’11 e 12 gennaio rispettivamente alle 21 e alle 18.30) un radiodramma basato su di un vivissimo senso del gioco. Gli attori rompono da subilto l’illusione scenica, presentandosi nelle vesti di se stessi e assecondando con allegri movimenti negli intermezzi musicali il fascino assoluto del suono, che sia un brano di Armstrong o la capacità comunicativa della sola voce. Un sedicente professore, Marcel Dubois, lamenta la scomparsa di un rasoio dal lungo manico. L’oggetto non potrebbe essere ritrovato in luogo più macabro, dato che ricompare piantato nella schiena di George Latham,  un eccentrico viaggiatore che si rivelerà ladro di preziosi smeraldi alla cui caccia si lanciano le protagoniste. Il quadro dei sospetti è variegato: Lily Dodd, star del cinema sul viale del tramonto,  Henry Staels, all’apparenza l’uomo più tranquillo del mondo in luna di miele, tre strani figuri inseparabili dai nomi più falsi di Giuda come Smith, Jones e Brown. E su tutto incombe il sospetto che la vittima designata fosse un’altra. In quel libero esercizio dell’inttelligenza che è ogni racconto del mistero (punteggiato dalle luci e musiche di Virna Prescenzo), è il pubblico stesso a indicare movente e colpevole: una scelta coerente con l’impostazione dello spettacolo. Gli ascoltatori infatti percepiscono un piacere ancora maggiore del semplice spettatore, perché ogni parola, ogni informazione, può condurre fuori strada o contenere in sé la verità. Ne emerge un amore rinnovato per il testo, per la fluidità narrativa, per una suspense all’apparenza retrò ma di fatto moderna nel rafforzare quanto di meglio si possiede, ovvero le celluline grige, per dirla con Poirot. E non sfugge la natura sostanzialmente consolatoria del giallo, dove (almeno lì) la logica ha la meglio su tutto: lestofanti, bugiardi, assassini e miserie.

giovedì 9 gennaio 2014

Al Verdi di Salerno “Il flauto magico” secondo l’Orchestra di Piazza Vittorio



Molto più di una rivisitazione. Quella che propone l’Orchestra di Piazza Vittorio al Teatro Verdi di Salerno dal 9 al 12 gennaio è una riscrittura saggiamente anarchica del capolavoro mozartiano, “Il flauto magico”. Sotto la direzione artistica e musicale di Mario Tronco, che ha curato l’elaborazione dell’opera con Leandro Piccioni, le melodie del compositore tedesco diventano spunto per un discorso più ampio, in cui le suggestioni musicali dell’originale si mescolano con brani dell’ensemble, trasformando l’allestimento in un viaggio tra il folk, il reggae, il jazz.  All’interno di un luogo volutamente indefinito i personaggi sono tratteggiati tenendo sistematicamente conto del contributo degli interpreti, come il Tamino di Ernesto Lopez Maturell, che esprime lo slancio verso l’ignoto attraverso ritmi cubani, o il mago Sarastro di Carlos Paz, artista che mostra una particolare sensibilità per i temi politici. Unendo la vivacità del racconto orale all’attenzione per una multiculturalità sempre capace di rinnovarsi e sorprendere,  lo spettacolo celebra la capacità della narrazione in musica di ramificarsi all’infinito, rimescolando le carte all’insegna di una rara energia performativa.