giovedì 27 febbraio 2014

Amore e morte in “Romeo and Juliet” di Antonio Grimaldi



È la morte stessa ad aprire il sipario. Osserva i due amanti distesi l’uno accanto all’altra come una costode devota. Non potrebbe essere altrimenti: nessuno resiste a una passione chiusa a chiave in se stessa e la vicenda –narrata attraverso i momenti più intensi dal punto di vista emotivo- non può che partire dalla fine, perché amare è dissolversi nell’altro per poi  rinascere. Dopo “Esercito d’amore” Antonio Grimaldi si conferma raffinato regista della coralità in “Romeo and Juliet”, appludito dal pubblico del Piccolo Teatro del Giullare di Salerno. Paolo Aguzzi, Pia Ansalone, Gianni D'Amato, Gemma De Cesare, Gianluca De Stefano, Luciano Dell'Aglio, Cristina Milito Pagliara, Gabriella Orilia, Massimiliano Palumbo, Matteo Rinaldi, Maria Scognamiglio, Emanuela Tondini, Michela Ventre, altrettanti Romei e Giuliette sospesi tra attrazione e distanza, recitano in inglese e Grimaldi traduce le battute fuori scena: l’amore conosce solo il proprio linguaggio e poiché ricorre sempre diverso e sempre uguale gli interpreti, disposti ai bordi della scena, sono sacerdoti che officiano con struggente ostinazione lo stesso rito. Le convenzioni sociali sono, quelle si, un rito insensato (gli attori osservati con divertita curiosità dalla prima coppia di innamorati mentre restano seduti battendo i denti come marionette difettose). Quando la balia, interpretata da un uomo, cerca di ricondurre la sua pupilla alla ragione, i due si piegano fino a porre il capo tra le gambe mentre altre coppie replicano, ognuna a suo modo, l’atto di consacrarsi reciprocamente: all’assurda pretesa di reprimere gli istinti si contrappone una visione capovolta delle cose, perche è folle chi pretende di fare a meno dell’amore. Il regista indaga i volti dell’ossessione. Sono due atttrici simili come gocce d’acqua a incarnare l’odio tra Montecchi e Capuleti (anche l’odio non vede che se stesso), il segno della croce che diviene movimento convulso negli interpreti davanti alla morte di Giulietta è incapacità di accettare la fine di ciò che è smisurato, cioè il desiderio e gli specchi puntati sui corpi ormai privi di vita e sugli spettatori invitano a immedesimarsi nel dramma che non è lontano dalle nostre vite: la sacralità laica della carne è ribadita a ogni passo. Il resto, per dirla col Bardo, è silenzio.

domenica 16 febbraio 2014

“Sempre con me”, la partita aperta tra vittima e carnefice



“Vittima: sotantivo di genere femminile…ma guarda un po’”. È difficile che le parole diano corpo a tensioni inconfessabili, eppure definire l’orrore può essere ancora il primo passo per esorcizzarlo. Vincitore della prima edizione del Premio Cecilia Salvia nella sezione del “Festival femminile” della Basilicata, lo spettacolo “Sempre con me” di e con Carlotta Vitale per la regia di Mimmo Conte, presso il Teatro Genovesi di Salerno,  ha rappresentato la terza tappa della manifestazione Out of Bounds a cura dell’Officina Teatrale Laav di Licia Amarante e Antonella Valitutti. La dolce voce di Viola intona nel buio “Tu me fais tourner la tete”: la rimozione per sfuggire a ciò che le accade è un aspetto con cui deve misurarsi. Ha un marito violento che la rende prigioniera della sua stessa vita e ogni elemento della scenografia evidenzia questa condizione. Il pavimento è bianco e nero, come bianco e nero è l’abito appeso a una gruccia, spesso malmenato, con cui il personaggio, che indossa le stesse tinte, si identifica, e nere sono le sedie che circoscrivono lo spazio come punti cardinali mentre campeggia sullo sfondo un grande specchio. Questo cromatismo cocciutamente monotematico rimanda a un’assenza di reali aperture dialogiche: un carnefice non accetta nessuna alternativa al suo modo di sentire e lo specchio è a sua volta un muro che impedisce alla carne di spingere lo sguardo oltre le proprie ferite. In quello stesso riflesso però comincerà a nascere una nuova consapevolezza. La Vitale orchestra alla perfezione una gamma di registri espressivi che spazia dalla tenerezza alla recriminazione, dall’ironia al dolore e nell’interpretare le altre figure del copione (un macellaio che, al suo svenimento per lo stress, la crede narcolettica, una vicina, il coniuge) la scelta del monologo si rivela necessaria: nessuno è più solo di chi subisce un abuso e tutto non può che essere filtrato attraverso i suoi sensi. Il vocabolario consumato che agguanta alla ricerca di definizioni, spiegazioni, categorie racchiude in sé salvezza e limite, riscatto e incapacità della lingua di addomesticare quella forza oscura che fa coincidere piacere e sopraffazione e sembra attraversare intatta il tempo (la madre di Viola potrebbe essere stata uccisa dal padre e il testo avvolge tutto in un’affascinante ambiguità). Il coraggio della denuncia apre nuove vie (le sedie crollano al suolo), ma è arduo spezzare un vincolo malato, ammettere finalmente che chi ha inflitto cicatrici non sarà “sempre con me”.