mercoledì 7 agosto 2019

“Epica fera”, il duello dei corpi e delle parole



Non crederete mica che sia una bestia leggiadra, amabile, pacifica. È una “gran buttanazza fetusa”, venuta al mondo per far disperare i pescatori e fare una ”roncisvallata” di pesci spada nello stretto di Messina, beffando tutti con il suo “genio di mente”. Il delfino appare come non lo avete mai immaginato in “Epica fera”, l’emozionante spettacolo di e con Gaspare Balsamo in cui Francesco Salvadore contribuisce a creare un’atmosfera tesa e struggente col tamburo e il canto sulle qualità e la fine dell’animale o sulle sirene predatrici in una mare, che è eterna tenzone. Il cunto, che rielabora alcune parti del romanzo “Horcynus Orca” di Stefano D’Arrigo, ha concluso tra gli applausi, sulla Tonnara Maria Antonietta a Cetara, “Teatri in blu”, il progetto di Vincenzo Albano. Il corpo e la voce di Balsamo, tra la fascinazione dei pupi e l’energia del vernacolo, rendono il racconto profondamente vivido. Il delfino è fera, circondata dalla solennità sacrale del canto epico, perché strazia reti e pesci con la vorace astuzia che le ha permesso di ottenere la bellezza, quando Dio la degradò da angelo a diavolessa. La sua furia traditrice è tuttavia figlia della natura: fa parte dell’oscillare senza tempo tra vita e distruzione. Per questo il capo della barca, che ha catturato un maschio (fragile quanto gli uomini, dato che, preso dalla passione per la compagna, non ha colto la minaccia), ricorda che non c’è posto per la vendetta in un gioco dove ognuno fa la sua parte e l’ammirazione si mescola alla sofferenza quando, nella conclusione, i pesci spada sono sterminati da fere di ogni tipo ( a “sangu ianco”, a “pinna suprana”, a “denti a zappuni”), descritte a un pescatore orbo come torme di guerrieri. Tutti siamo orbi dinanzi alla grandezza, se si nutre di forze antiche e sempre vive di fronte alle quali siamo ben poco. Non vi è alcuna grandezza invece nel potere, che pretende di stabilire priorità anche linguistiche in modo insindacabile. Il fascista che esalta la dolcezza del termine delfino è specchio di quello che scaricherà l’intero caricatore nel cranio del mammifero col pretesto di liberarlo. Ridicoli nella loro superbia, i potenti si muovono tra vuoti vocaboli da deformare, per sempre lontani dall’essenza delle cose. Questa appartiene solo a chi non ha casacche né si sente al di sopra di quel mistero che è l’esistenza. La cialoma, il canto della mattanza, celebra il cupo splendore della morte contro i fascisti di ogni tempo, che non sanno di essere già morti.

lunedì 5 agosto 2019

"Delitti per gioco", omaggio a Campanile



Un padrone inflessibile, come sostiene Manzoni? O un’imperdonabile volgarità, come vorrebbe Wilde? Di certo, se il vero delitto è vegetare sul binario morto della quotidianità o della logica più stantia, Achille Campanile è senz’ombra di dubbio innocente. È un omaggio a lui “Delitti per gioco”, lo spettacolo diretto da Brunella Caputo che ha aperto, presso la Chiesa di Sant’Apollonia, La notte dei Barbuti, sezione del Barbuti Festival. “Delitto a villa Roung” e “Misterioso uxoricidio in un caffè del centro o Una moglie nervosa” sono stati proposti all’insegna di una leggerezza che sbeffeggia ogni convenzione sociale e teatrale. L’elenco di citazioni sulla natura del delitto, da Balzac a Morrison, e la minuziosa definizione di gioco, letti con intensità sacerdotale dalla stessa Caputo, sono bruscamente interrotti dagli interpreti che, oppressi da tanta cultura, la portano via di peso. L’aura del regista è quindi sarcasticamente privata di ogni fascino, perché nessuna gerarchia resiste alla spudoratezza del paradosso. Gli interpreti, che gareggiano in generosità ((Mimma Virtuoso, Renato Del Mastro, Carlo Orilia, Alfredo Micoloni, Rocco Giannattasio, Augusto Landi, Matteo Amaturo, Salvatore Albano, Teresa Di Florio, Concita De Luca e Andrea Bloise) si scatenano in una briosa coreografia (curata da Virna Prescenzo insieme al disegno luci e alla selezione musicale), che è autopresentazione, preparazione dello spazio in cui agiranno e soprattutto desiderio di mostrarsi al pubblico con la compattezza di un’orchestra, dove ognuno conta se in armonia con gli altri. Che servano tramezzini agli spettatori o galoppino tra le acrobazie verbali di copioni decisamente inadatti a ogni pigrizia mentale, gli attori sono a proprio agio in quella giungla impervia che è il linguaggio, trappola mefistofelica che sabota e deve essere sabotata, perché l’assurdo, cioè la libertà libera anche da se stessa, trionfi. Se una moglie ostile al calzolaio ricorre a epiteti poco edificanti davanti al marito, senza che ci sia una benché minima intesa su inflessioni, sfumature, allusioni, spararle diventa legittima difesa. Se, nella ricerca di un assassino in una villa, si procede sì con la ferrea determinazione degli eroi polizieschi, ma a caso, la didascalia diventa personaggio e l’assassinato si finge morto per trovare un colpevole che non esiste, la scelta è chiara: perdersi in questo ammaliante delirio e abbandonare al suo destino quel triste figuro che è il pensiero lineare.