giovedì 31 marzo 2016

La sana irriverenza di “Risorgimento pop”



Non è un Paese per vivi, l’Italia. Il glorioso passato da cui avrebbe dovuto sorgere un futuro altrettanto splendido è una carcassa grottesca che rivela la sostanziale immobilità di un contesto imprigionato nel proprio nulla. E a quel punto non resta che togliere il freno al sarcasmo più feroce. Di scena al Teatro Centro Sociale di Pagani il 1 aprile alle 21 nell’ambito della manifestazione Scenari Pagani, “Risorgimento pop-memorie e amnesie conferite ad una gamba” è lo spettacolo che vede protagonisti Daniele Timpano e Valerio Malorni su drammaturgia e regia dello stesso Timpano e Marco Andreoli e la collaborazione artistica di Elvira Frosini. Mazzini, Garibaldi, Cavour, Vittorio Emanuele, Pio IX non solo rivelano come la storia sia da sempre violenza e inganno, ma mettono in luce il fatto che risorgere (i due attori morti e vivi nello stesso tempo) è una coazione a ripetere l’assurdo, un ritrovarsi a barare con le carte di sempre. La vivacità della rappresentazione è garantita da gag che non lasciano un attimo di tregua allo spettatore e lo pongono di fronte all’impossibilità di individuare un qualsiasi punto di riferimento (capire come Anita sia realmente morta è un’impresa degna di quella dei Mille). Dove la logica e la consapevolezza dei figli della patria latitano, non restano che frammenti di ciò che ha preteso di imporre un equilibrio : la gamba parlante dell’eroe dei due mondi e il cadavere mazziniano in pezzi riflettono l’incoerenza di ogni disegno di riscatto nel più improbabile dei popoli. Le situazioni paradossali di “Risorgimento pop” sono un implacabile affondo contro ogni ipocrisia del potere e dei suoi sudditi.

sabato 12 marzo 2016

“Homicide House”, benvenuti nell’orrore



Debiti a non finire, una moglie che ha fin troppo a cuore le proprie esigenze, uno strozzino che ha una precisa filosofia di vita (“la libertà è una pistola in gola”). E una scelta impensabile diventa di colpo la migliore. La stagione teatrale Mutaverso diretta da Vincenzo Albano registra il suo terzo successo al Centro Sociale di Salerno con “Homicide House” di Emanuele Aldrovandi. Per evitare la vendetta dell’uomo che lo tiene in scacco (Luca Cattani, scaltro e affascinante demiurgo) il protagonista (Marco Maccieri, che è anche regista e orchestra con cura la tensione della messinscena) accetta la sua proposta: essere vittima di ricchi carnefici in una casa in cui sfogare tutte le tendenze distruttive. Le torture e la morte saranno ben pagate, ma la donna intenzionata a infilargli un punteruolo nell’occhio (Valeria Perdonò, che gioca sapientemente col ruolo di dark lady) è ossessionata dal bisogno di verità e vuole conoscere tutto quello che si cela nel suo “giocattolo”. Con feroce ironia, i personaggi dunque sono messi a nudo nelle loro motivazioni, diverse facce della stessa nevrosi: quella di avere in pugno gli altri, che si tratti della passione dello strozzino per l’aguzzina o dell’amore di quest’ultima per il suo ostaggio. Tutto è però strutturato in modo che non si dimentichi mai che si sta assistendo a una messinscena. Le figure sul palco si rivolgono talvolta al pubblico e il loro ingresso è segnato da un aspro rumore metallico, come se si aprisse una porta; il cappio in cui l’imprenditore fallito è invitato a infilare la testa appare da una sedia della sua casa sospesa a un cavo, perché è in quello che si crede stabile e statico (la famiglia, appunto) che si aprono le crepe più vistose della rovina. Il tavolo diviene podio da cui pontificano, come su un palco, l’usuraio o la moglie (l’attenta Cecilia di Donato, che come ogni borghese vuole distinguersi a tutti i costi e nella sua ostinazione non è meno inquietante di chi guadagna sulla pelle altrui). L’intento del regista è chiaro. Nella sua dinamica tra oppressi e oppressori, il mondo intero è una Homicide House. Ciò che sembra inconcepibile è a un passo da noi, abita nella nostra mente. E quando il marito resta solo, circondato da cadaveri, si volge alla platea. In quello sguardo ci sta ricordando che gli occhi assetati di orrore sono comunque i nostri e che in questo gigantesco spettacolo basta poco a diventare sinistri primi attori.

martedì 1 marzo 2016

“La famiglia Campione”, quando l’alienazione è di casa



L’alienazione è contagiosa. Attraversa corpi e stagioni della vita, fiorendo indisturbata tra le mura domestiche. Applaudita dal Teatro del Giullare  di Salerno nell’ambito di Mutaverso, la stagione diretta da Vincenzo Albano, la compagnia pistoiese Gli omini ha proposto “La famiglia Campione”: nomen omen, dato che rappresentano il prototipo del nucleo familiare di oggi proprio nell’assurdità dei loro comportamenti. Francesco Rotelli, Francesca Sarteanesi, Luca Zacchini, che sono attori e interpreti con Giulia Zacchini, creano personaggi che non si dimenticano attraverso efficaci sfumature, incarnando a turno tre generazioni in un quadro che non ha nulla di rassicurante. La casa è quanto mai affollata: un nonno che vorrebbe vedere slanci nei giovani, un altro che ricorda con rabbia il passato, una nonna che passa la vita tra preghiere e moniti, Luana e il suo rancore verso il quotidiano, divorziata da Marcello, annichilito da una vita imprigionata, e risposata con Giancarlo, ubriaco del proprio ego, lieto di avere nel primo marito della donna la sua vittima prediletta e padre di Enrico, che nasconde la fragilità sotto la supponenza. I figli di Marcello sono Dario, ribelle senza causa, Mara, alle prese con una femminilità problematica, Bianca, non tanto una voce, ma un silenzio fuori dal coro. Ogni figura è inchiodata alla sua condizione con un’amarezza che non è meno viva se mescolata a un sarcasmo che non fa sconti a nessuno. Il ricorrere di gesti ed elementi, come i tristi gilet passati da un figlio all’altro, la busta che Marcello porta con sé per fare doni improbabili ed essere finalmente accettato, le mele mangiate con avidità o nervosismo alludono all’impossibilità di evadere da quella prigione che è la famiglia. Anche il viaggio a Dubai di Enrico appare una velleità più che un proposito. E se la casa è simbolo di un’immobilità mentale, l’unica risposta è mutare senso alla reclusione, che diviene spazio del proprio essere precluso a chi non comprende. Bianca si chiude in bagno senza comunicare con nessuno. L’unico segnale, non a caso, sarà “Summer on a solitary beach” che allude a un benefico naufragio e scatenerà l’inutile entusiasmo di Dario, che si limita a un tragicomico disprezzo del contesto. La giovane uscirà per mangiare una mela e si rinchiuderà di nuovo. Le parole sono inutili. Mai perdere di vista le porte chiuse. Veleno e frustrazione, quasi sempre, abitano lì.