giovedì 14 agosto 2014

Tra classico e contemporaneo, la nuova stagione del Ghirelli



Attenzione ai classici e alla drammaturgia contemporanea. Su queste due direttive si muove la nuova stagione del Teatro Antonio Ghirelli di Salerno. Si inizia il 23 ottobre con l’eduardiano “Dolore sotto chiave”, per la regia di Francesco Saponaro con Tony Laudadio, in cui le voci dell’omonimo radiodramma Rai del 1958 amplieranno il fascino di una storia nera, dove il lutto nasconde verità scomode. Iaia Forte sarà regista e interprete di “Hanno tutti ragione” (13-16 novembre), tratto dall’omonimo libro di Paolo Sorrentino, esplorando contraddizioni e urgenze di un personaggio fuori dagli schemi come il cantante cocainomane Tony Pagoda, mentre i Virtuosi di San Martino proporranno “La repubblica di salotto” (27-30 novembre), affresco crudelmente sarcastico (e dunque più che mai veritiero) dell’Italia di oggi. Nei giorni 2, 3, 4, 7, 9, 10, 16, e 17 dicembre andrà in scena “Wrong play, my Lord o The Mousetrap”, spettacolo in lingua inglese tratto dall’”Amleto” di Shakespeare con Arturo Muselli e Alessio Sica diretti da Ludovica Rambelli, rivisitazione accattivante di un classico a cui è conferito il ritmo instancabile dell’inventiva. “Un anno dopo”, scritto e diretto da Tony Laudadio, vicenda di due colleghi di lavoro che non possono non riconoscersi l’uno nell’altro nonostante i contrasti, sarà in programma dal 27 al 30 dicembre, mentre dal 15 al 18 gennaio 2015 sarà la volta di “Due passi sono” della Compagnia Carullo-Minasi, che racconta, secondo un’ottica grottesca, l’oscillare tra costrizione e libertà e ha vinto, tra l’altro, il Premio Scenario per Ustica 2011. L’operetta dark “L’anima buona di Lucignolo” (19-22 febbraio), dove il circo riflette falsità e ambizioni di ogni cuore, si avvarrà della regia di Luca Saccoia; Licia Maglietta dirigerà se stessa in “Manca  solo la domenica” (5-8 marzo) da “Pazza è la luna” di Silvana Grasso. Qui la finta vedova di sei sconosciuti ricostruisce a proprio piacere quella vita di affetti che le è di fatto preclusa. Cesar Brie dirigerà Gianfranco Berardi e Gabriella Casolari nello spettacolo “In fondo agli occhi” (26-29 marzo), che fa della cecità la metafora di una società senza prospettive. Sonia Bergamasco, che ha ricevuto nel 2012 il Premio della Critica come migliore attrice, sarà diretta da Giuseppe Bertolucci in “Karenina, prove aperte d’infelicità”, dal 9 al 12 aprile: la genesi del capolavoro di Tolstoj diviene teatro dell’anima. Sarà possibile usufruire della tipologia di abbonamento 10+1, in cui l’undicesima rappresentazione è a scelta dell’abbonato tra gli eventi fuori abbonamento. Avrà luogo inoltre la rassegna Exp(l)o, che punterà l’attenzione sulle realtà artistiche campane, con “Antigone-una guerra civile” diretta da Mirko de Martino (23-25 gennaio), dove la celebre eroina si trasforma in una fascista, “Matrimoro” per la regia di Adriana Follieri (6-8 febbraio), che fa di Caino e Abele il mezzo per osservare la natura umana, “Apnea” di Maria Teresa Ingino in data da stabilirsi sulla liberazione dal dolore del corpo, “I posteggiatori tristi” che pongono il repertorio musicale napoletano al centro di un gioco brioso (12-15 febbraio), “Scapezzo” di e con Nicola Vicidomini (13-15 marzo) dove il fallimento coincide col divertimento, “La femme acephale” da Jacques Prevert nella drammaturgia e regia di Libero de Martino con Cinzia Annunziata, grande prova interpretativa per un racconto tutto giocato sulla follia. Le iniziative collaterali alla manifestazione saranno inoltre “Cinema tra reale e teatrale”, in cui Antonella Nocera con Parallelo 41 indagheranno assonanze e divergenze tra forme espressive diverse, “Erasmusica” a cura di Ambra Sorrentino, volta a una rivisitazione in chiave moderna dell’opera lirica e del teatro musicale, “Un fiume in jazz”, che sotto l’egida di Stefano Giuliani porterà alla ribalta i professionisti campani del jazz e “Femminile palestinese”, che, a cura di Maria Rosaria Greco, avrà per oggetto le suggestioni e le immagine di una realtà estremamente complessa.

lunedì 11 agosto 2014

“Vite in pericolo”, l’omaggio al gioco e al teatro di Pippo Montedoro



Che uno scrittore dia prova di uno stile piacevole non è cosa poi così rara. È invece un’eccezione che quella piacevolezza nasca da sensazioni che mostrano l’aspetto sorprendente dell’assodato e da un’ironia a suo modo aristocratica, ma ben distante dalla saccenza e dall’autocompiacimento. È quello che sperimenta il lettore di “Vite in pericolo” di Pippo Montedoro edito da Qanat. I racconti sospesi tra memorie e fantasie s’insinuano con leggerezza (una leggerezza gravida di colori e sapori che si ritrova nella prefazione di Salvo Piparo) e di colpo il mondo di Montedoro diventa il nostro, che sia la cella dell’Ucciardone, la Vucciria o un bosco in cui non ha più senso distinguere l’animale dall’umano. L’autore ama definirsi goloso ed estende questa caratteristica al suo lessico colto e carnale. Le parole sono in effetti scelte con autentica golosità, desiderate per la loro concretezza e spesso per la loro dolcezza, si offrono agli occhi e al palato con una fisicità spudorata. C’è il rischio di non guardare mai più con gli stessi occhi la flanella dopo la descrizione erotica che il libro ci regala in uno dei molti pezzi di bravura. Ciò che unisce le parti dell’opera è la passione per il gioco, concepito come sovvertimento, urgenza di riscrivere ciò che si vorrebbe fissato definitivamente. I protagonisti di “A.D. duemilaventisette – sorrisi” giocano con l’immagine stereotipata che gli altri hanno (quando ce l’hanno) di loro; in “Sentimenti senza quartiere” si gioca con l’avidità di pusher stranieri; in “buon Vino a cattivo Gioco” il viviri (vivere) dipende dal giusto rapporto col viviri (bere); in “1973, Ucciardone - lectio elegantiae” i legami inattesi della reclusione mandano a gambe all’aria il modo perbenista di creare relazioni. In “non ci pensare, Lazzaro” la posta è il desiderio irrealizzato. “Ready Made” deride nella sua lapidarietà la vita equilibrata, “Fiato” spiazza di continuo la percezione di chi legge, “E il ritorno lo faceva a piedi” prende di mira il genere fantasy e la pretesa di riscattarsi dai propri limiti.  Il gioco pervade anche l’appendice, “Il pallore d’Achille”. In “Quistiuni” le domande al Piè Veloce rivelano, tra assonanze e paranomasie, l’ostilità verso la superbia del potere. La “pulita” coscienza borghese è sarcasticamente punita in “Fine (sceneggiatura per video fasullo)”, mentre l’esaudirsi di una volontà porta a uno pseudo-trionfo beffardo in “Le richieste di Felice”. “Di Eos molto presto” illustra l’alto prezzo da pagare per l’estinzione del genere femminile sul piano mitologico, mitopoietico, sociologico. Si ha poi la sintesi in dieci parole di principio e fine in “Serata (romanzo completo)” e i problemi striscianti, ma non irrilevanti di una lumaca  in “Chi va piano… No, Ah?!”. E se la convenzione in tutti i suoi volti è il bersaglio dello scrittore, ben si comprende l’uso ossessivo della virgola interrogativa, che imprime all’andatura della frase un ritmo del tutto autonomo. “Vite in pericolo” è però anche un atto d’amore indiscusso per il teatro, come mostra “Colonia penale e altre fragranze”, che rievoca i fasti della compagnia Curò, tra i cui fondatori c’è il Nostro, attiva a Palermo e non solo nella felice e contestatissima stagione degli anni Settanta, vivi nel bianco e nero ammaliante delle foto di Letizia Battaglia. Allora era vitale che il palcoscenico si spingesse oltre se stesso, che l’azione scenica divenisse un campo di forze pronte a fare a pezzi qualunque gerarchia mentale e fisica, che il nonsenso si tramutasse in possibilità di senso da condividere e magari calpestare con gli spettatori. Quella di Curò era una lotta senza respiro contro l’acquiescenza al sistema, un inno all’inventiva, un oltraggio a quelle prigioni che sono le categorie, una riflessione a briglia sciolta sull’ambiguità volutamente irrisolta di ruolo, luogo, parola. Montedoro resta uomo di teatro anche nella scrittura. Lo evidenzia la costruzione della tensione, la cura riservata alla mimica dei personaggi, il rapporto quanto mai duttile col tempo della narrazione. E se, come recita la frase di Piero Ciampi citata nel testo, “Il corpo è un sublime/atroce porco”, la materialità imperfetta, evocativa e seducente di questo volume è la migliore risposta a ogni forma di ottusità.