mercoledì 30 marzo 2022

Ovadia e Vergassola, il sano sarcasmo dell’ebraismo

 

Se un ligure pretende di mettere nel sacco un ebreo, casca decisamente male : quattromila anni non passano certo invano. Se però l’interlocutore sa burlarsi delle proprie disgrazie, non è forse pronto a farsi convertire? Accolto da un pubblico divertito e partecipe alla Sala Pasolini, “Un ebreo, un ligure e l’ebraismo” ha visto all’opera Moni Ovadia e Dario Vergassola sugli aspetti di una religione (o meglio, di un modo di vivere) che sa sorprendere chi voglia buttarsi alle spalle usurati pregiudizi e stereotipi incancreniti.  Ovadia, affabulatore incantevole, inanella storielle legate ai contesti più disparati (il sesso, la famiglia, il commercio, la persecuzione) accomunate da battute fulminanti che lasciano piacevolmente interdetto l’ascoltatore. Vergassola, che ci tiene a precisare che è maschio ma non esercita, attua un sarcastico controcanto alla narrazione dell’artista, che si apre a tutte le suggestioni possibili esattamente come l’Yiddish, lingua anarchica per eccellenza che accoglie ogni vocabolo recepito nella sua lunga storia (boss è parola che viene da lì, per esempio), come si conviene all’idioma dell’esilio. Tra gli ashkenaziti presenti in Germania, i sefarditi in Spagna e i Romanioti nelle isole greche, non si può davvero dire che quello ebraico sia un mondo statico: una tradizione di cui essere gelosi, ma anche capacità di coglierne i lati paradossali: un sentimento della dignità, ma anche capovolgimento malizioso di atti e figure considerati mirabili. L’ironia è, in effetti, l’arma più potente che gli Ebrei abbiano mai usato contro i nemici e la propria parte oscura. Sono il popolo pronto ad accogliere il decalogo proposto da Dio, una volta compreso che è gratis. Osannano la madre, che difende in ogni modo il figlio, ma la trasformano, in particolare nella cultura americana, in una creatura castrante, che non va per il sottile quando deve dettare legge al suo figliolo. Hanno il pragmatismo dei fratelli Gershwin che, alla domanda se nelle loro opere nasca prima la musica o il testo, rispondono all’unisono “Il contratto”; il sarcasmo di Rubinstein che, a chi chiede perché i pianisti ebrei siano pochi, risponde “Prova tu a fuggire con un pianoforte sulle spalle”; la sagacia di Abrahmovic che, dovendo aggiungere una didascalia alle foto in cui Chruscev è felicemente circondato da maiali, scrive “Il terzo da sinistra è il compagno Chruscev”. Valore aggiunto, il mondo ebraico non è sessuofobico. Con buona pace delle beghine cattoliche, il sesso è un dono di Dio da accogliere con favore, in cui l’uomo deve alludere e la donna può chiedere esplicitamente. “La vera educazione viene dalla madre – ricorda Ovadia- Il grembo materno difende da ogni sventura e l’ebraismo non contempla lo stupro etnico”. Chi segue i due protagonisti nel loro percorso comprende quale sia il vero viaggio che non può attendere : oscillare senza remore tra arguzia e disincanto.       

giovedì 24 marzo 2022

“Ditegli sempre di sì”, le parole disabitate

 

Ipocrite, ambigue, sfuggenti. Le parole non sono mai solamente se stesse ed è pazzia sperare che lo siano. Spettacolo giocato su un accorto senso del ritmo e su un grande affiatamento dell’intero cast, “Ditegli sempre di sì” di Eduardo De Filippo ha visto impegnata, per la regia di Roberto Andò, la compagnia Elledieffe al Teatro Verdi di Salerno. Le note de “La forza del destino” aprono e chiudono la messinscena con chiaro riferimento all’inesorabilità della condizione umana. Chi, infatti, non considera il linguaggio come una strada aperta verso l’atro, ma come semplice riflesso di una nevrosi, di un alibi, di un opportunismo, parte da se stesso e a se stesso ritorna e le distanze aumentano vertiginosamente. Le parole appaiono di fatto disabitate, sradicate da un senso condiviso. La commedia, a quel punto, è indistinguibile dalla tragedia, come mostra la vicenda di Michele Murri (il miglior ruolo di Gianfelice Imparato, in equilibrio perfetto tra crudeltà e ingenuità), uscito dal manicomio, ma non rinsavito, e destinato a portare scompiglio nella vita della sorella (Carolina Rosi) per l’incapacità di cogliere un lato nascosto nella comunicazione. Un amico  in contrasto col fratello si dichiara morto agli occhi di quest’ultimo? Eccogli arrivare una gigantesca corona di fiori. La sorella del protagonista fa gli occhi dolci al padrone di casa? Appare scontato che voglia convolare a nozze con lui. Un personaggio immagina una vincita favolosa? È già facoltoso agli occhi di Michele. Se quest’ultimo è un elemento di disturbo, non si può tuttavia affermare che il contesto attorno a lui sia sano. All’inizio della rappresentazione, le altre figure sono immobili sul proscenio, mentre Michele avanza con lenta circospezione sullo sfondo; la stessa con cui si muoverà la cameriera nell’ultimo atto, durante la gita in campagna, come se gli interpreti vivessero in una sorta di bolla che li taglia fuori dalla realtà. L’asetticità degli ambienti fa pensare a una casa di cura. Gesti e comportamenti sono spesso grotteschi, eccessivi, plateali, evidenziando quanto la normalità (ammesso che tale idea esista) sia decisamente estranea a quel che accade sul palcoscenico. Ciò che si dice, quindi, è scisso dalla concretezza, dall’autenticità, perché non ci si sottrae alla nebbia delle convinzioni radicate e dei falsi giudizi. È proprio vero che la parole sono pietre: sanno creare muri impossibili da scalare.

“Elengazissima”, lo stile secondo Drusilla Foer

 

Mica facile muoversi in un mondo piatto e volgare. Meglio allora rendersi icona di stile, felicemente lontani da ogni supponenza, tra Hollywood e la dignità delle signore mature, ma tutt’altro che propense a fare tappezzeria. Carisma da vendere e notevoli doti istrioniche, Drusilla Foer, al secolo Gianluca Gori, ha conquistato il pubblico del Teatro Verdi di Salerno con “Elengazissima”, il recital, su direzione artistica di Franco Godi, al fianco del pianista Loris Di Leo e di Nico Gori al clarinetto e al sax. Tra gin tonic come unico antidoto all’orrore della foto di un padrone di casa orgogliosamente in posa con Bruno Vespa e il ricordo struggente di un amico “fuori di chiave”, tenacemente legato all’amante scomparsa, la protagonista crea i tasselli di una vita sospesa tra una prospettiva ironica e malinconia. Una nonna all’apparenza tanto rigida da meritare una nicchia di Notre Dame e in realtà scatenatissima, un marito da ricordare con tenero trasporto, la curiosità di vivere tutte le esperienze possibili concorrono a tratteggiare un personaggio che sa imporsi con piacevolezza, complice la superba voce con cui interpreta grandi classici della canzone, da “I will survive” a “Almeno tu nell’universo”, da “Canto (anche se sono stonato)” a “Sognando”. Siamo certo a distanze siderali da Paolo Poli, quando la scelta di proporsi en travesti era davvero uno scardinamento sistematico di pregiudizi e ottusità, e il garbo ammiccante dei testi, proposti tra un brano e l’altro, non li rende certamente incisivi,  ma il richiamo all’unicità (parola preferita a diversità, perché in nessun modo ghettizzante), al diritto a vivere liberamente la propria identità è espresso in modo coinvolgente. Accontentare la platea e al tempo stesso lanciare un sasso nello stagno; difendere ciò che segna uno scarto, ma senza allontanarsi davvero da un’ottica borghese. In una parola, leggerezza appena pensosa. Madame Foer dimostra chiaramente che l’artista è un bugiardo sincero, col quale vale sempre la pena stare al gioco.

“Il marito invisibile”, le derive del virtuale

 

Gentile, affascinante, capace di solleticare e di esaudire ogni desiderio tra le lenzuola, sempre pronto a trovare le parole giuste. Quale donna non si precipiterebbe a rotta di collo all’altare con un tale prodigio d’uomo? Dinanzi a tante doti, il fatto che non sia possibile percepirlo sul piano visivo diventa a dir poco trascurabile. Commedia agrodolce sulle derive del virtuale, “Il marito invisibile”, scritto e diretto da Edoardo Erba, ha aperto con successo la stagione di prosa del Teatro Verdi. Maria Amelia Monti (Fiamma) e Marina Massironi (Lorella) sono il punto di forza dello spettacolo, strutturato in funzione della versatilità e del sapiente senso del ritmo che caratterizzano le protagoniste. La storia è ambientata al tempo del lockdown, quando il flusso ininterrotto di video, post, foto, messaggi di ogni genere è divenuto una seconda pelle: non a caso, i brevi intervalli tra una fase e l’altra della vicenda sono scanditi dalla proiezione di tutto quello che le due donne vedono sul proprio cellulare, come se fosse impossibile restare, anche solo per un attimo, sole con i propri pensieri. La messinscena sottolinea subito l’ambiguo rapporto tra il reale e ciò che viaggia in rete: alle spalle delle interpreti domina il blue screen, mentre, al di sopra di esse, due schermi permettono allo spettatore di osservarle, come se partecipasse, a sua volta, alla loro videochiamata. Che dunque il video s’imponga prepotentemente nella fruizione dell’allestimento, è già un chiaro indizio della pervasione inarrestabile, e non di rado tirannica, della dimensione dei social. Elemento d’inquietudine, sia pur nella leggerezza dell’approccio, è inoltre il blue screen, che mostra di fatto il carattere fittizio dello spazio in cui le due amiche si muovono, rendendo le loro case (luogo privilegiato del vissuto) artificiali quanto la comunicazione on-line. Il marito di Fiamma, che non compare mai in scena e non la distinguerebbe da una suppellettile, dato il loro noioso e lungo matrimonio, non è certamente più reale di Lukas, il coniuge che dà il titolo allo spettacolo e conquista sia l’esuberante Lorella che la razionale e caustica amica. Se un seduttore invisibile crea sensazioni più che concrete, non solo la fame di emozioni rende superfluo distinguere materiale e immateriale, ma diviene facile pensare che il corpo (con le sue fragilità, i suoi limiti, i suoi abbagli) debba essere superato, fino a divenire libera, incontenibile energia. Lukas è un bluff : tradisce esattamente come un qualunque borghese, ma il suo rapporto con gli istinti non teme vincoli di sorta. Il definito risulta così ampiamente surclassato dall’indefinibile. Ecco allora che la smaterializzazione coinvolge prima Lorella: la dissoluzione della sua immagine inizia nel momento in cui comprende che, nonostante recriminazioni e suppliche, il marito non tornerà da lei. Mutarsi in un mare di pixel significa abbandonare per sempre la logica relazionale in cui si tenga il conto del dare e dell’avere, scegliendo dunque un modo nuovo di essere. Fiamma, che si è data a Lukas per poi respingerlo, dato l’affetto per Lorella, la segue in questo destino : chi può resistere al richiamo della libertà? Nella conclusione, le due sono ormai solo una scritta su un dispositivo, ben liete di essere ormai lontane da qualunque concetto di spazio e di tempo. Un lieto fine? A prima vista, si direbbe di sì, dato che la fuga oltre la materia è occasione di gioia. La pièce non vuole certo demonizzare quel cordone ombelicale che ormai lega noi tutti al virtuale, ma invitare a guardare con ironia agli sviluppi paradossali che un simile legame comporta. Capovolgere il dominio assoluto della tecnologia in vittoria dell’umano (Lorella e Fiamma affermano infattti che sono tantissimi ad abitare il regno dell’invisibile e a esserne deliziati) esorcizza la frustrazione della solitudine, ma non la cancella. Il felice delirio del sapersi parte della galassia virtuale riflette comunque il fallimento delle relazioni, l’incapacità di rendere fertile un contatto che non sia filtrato attraverso strumenti onnipresenti. Il blue screen, in cui siamo avvolti senza accorgercene e senza nessuna avvisaglia, è la vanità di una vita che non sa bastare a se stessa, diventando un fantasma più evanescente di quello che uno schermo ci restituisce.