L’amore? Una degenerazione
della sessualità.I critici? Abilissimi nel tessere il nulla. Chiedere la verità
a un artista? Come comprare il pane dal macellaio. Intervistare su un’isola un
Nobel per la letteratura sarcasticamente orgoglioso della sua solitudine si
rivela un’impresa per il giornalista accolto a colpi di arma da fuoco. La vita
però si diverte a cambiare copione e l’incontro li sorprenderà entrambi.
Liberamente ispirato a “Variazioni enigmatiche” di Éric-Emmanuel Schmitt, “Il
primo giorno di primavera”, diretto da Antonio Grimaldi, ha registrato il tutto
esaurito al Teatro del Giullare. Antonino Masilotti (Erik, il giornalista) crea
con cura appassionata una sorta di spirito guida, un personaggio che fa della
dolente dedizione all’amore il suo comandamento e assottiglia la distanza tra
menzogna e verità con spaesante tenacia. Marco Villani (Abel, lo scrittore) seduce
nell’oscillare tra cinismo e passione, costruendo in un chiaroscuro emotivo una
figura che ricorda Oscar Wilde nelle sue sentenze affilate ed è profondamente
umana nell’egoismo come nella consacrazione. Le scene di Cristina Milito
Pagliara sono giocate su di un’essenzialità evocativa. La tenda dietro la quale
le ombre dei personaggi assumono qualcosa di magico sottolinea il fascino della
finzione, la capacità dell’arte di celare e mostrare quel che vuole. I
palloncini attorno al trono di Abel e il suo dedicarsi alle bolle di sapone
alludono alla leggerezza con cui guarda alle trappole che gli uomini si
costruiscono con le proprie mani, prima tra tutte la quotidianità. E proprio
per sottrarsi alla stessa sorte ha imposto a Helen, la donna perdutamente
amata, una dimensione esclusivamente epistolare del rapporto narrata nel suo
ultimo fortunatissimo romanzo, “L’amore inconfessato”, che con l’ambiguità del
linguaggio, al quale ogni inganno è possibile, mette dunque in luce una vicenda
gelosamente nascosta. Ecco però che le apparenze si sgretolano. Non solo Helen
è morta (nel primo giorno di primavera, ma in ogni fine esiste un inizio); Erik
è suo marito e ha continuato a scrivere fingendosi lei con cui si è ormai
identificato, come mostra la tenera impudenza della veste femminile nascosta
sotto l’abito. Non si può vivere senza qualcosa da desiderare, anche se quel
qualcosa è più evanescente di un’ombra sul sipario. Il carteggio continuerà e
al diavolo rabbia e sconcerto. Amare ciò che non si rassegna alla propria morte
è davvero il modo migliore di restare vivi.
sabato 19 dicembre 2015
lunedì 7 dicembre 2015
“Notturno di donna con ospiti”, un incubo tra quattro mura
Non bisognerebbe mai restare
da soli. È allora che i fantasmi si prendono le loro rivincite, trasformando
tutto in in un incubo. Accolta con entusiasmo dal pubblico del Teatro delle
Arti di Salerno, Giuliana De Sio ha riproposto la sua memorabile interpretazione
in “Notturno di donna con ospiti” di Annibale Ruccello. Enrico Maria Lamanna
firma una regia dal ritmo che serra la gola dello spettatore in un’opera che si
inserisce coerentemente nel percorso di Ruccello, conoscitore profondo della
solitudine e della prigionia psicologica. Clotilde in “Ferdinando” è
orgogliosamente ostaggio di un passato ormai disprezzato, il protagonista de
“Le cinque rose di Jennifer” attende qualcosa che non avverrà mai, Anna
Cappelli nell’omonimo monologo arriva a identificarsi con la casa simbolo di
uno status sociale a lungo inseguito. Adriana è a sua volta prigioniera della
sua stessa vita, schiava della televisione,
inchiodata anche dalla sua terza gravidanza al matrimonio con un
metronotte, Michele (Gino Curcione, che tratteggia con cura un personaggio
brutale e arido). che la considera una serva da portare a letto, immobilizzata
in un presente di parole ripetute, bambini, gesti consumati dalla routine.
Rimasta sola, le piombano in casa Rosanna, una compagna di scuola vittima, a
suo dire, di balordi(Rosaria De Cicco,
credibilissima femme fatale priva di scrupoli), il marito Arturo (l’abile
Andrea De Venuti) e Sandro,il nuovo compagno di Rosanna che aveva ingravidato
Adriana in gioventù (Luigi Iacuzio, sfuggente e crudele). Inizialmente
divertita dalla stranezza della situazione, la padrona di casa si troverà al
centro di un massacro complicato dal ritorno del marito e dal ricordo
del padre morto e della madre (Mimmo Esposito, del tutto a suo agio anche en
travesti) fino al tragico esito. Un momento rivelatore è il poker tra gli ospiti: il gioco degli adulti, degli scaltri, di ciò che è totalmente estraneo
alla natura di una figura interrotta, spezzata dalle sue vicende. La donna è
attorniata dalle sue proiezioni in un sofisticato squilibrio di assonanze e
antitesi. Rosanna è ciò che Adriana avrebbe potuto diventare nell’ottica
dell’opprimente madre, ovvero una manipolatrice del sesso, ma è anche la
libertà sconfinata che le è stata preclusa
e che spesso richiede un prezzo assai alto (l’aggressione, appunto) e
dunque oggetto di odio e ammirazione. Michele e Sandro diventano speculari
nell’abusare di lei, perchè non ha avuto la forza di sfuggire allo schema della
vittima: eloquente la scena in cui i tre uomini, usciti dalla doccia, hanno
tutti un asciugamano sul viso, lei ne sceglie uno e scopre attonita che si
tratta proprio del suo primo uomo. Al passato non si sfugge e nell’oscillare tra nuove e
antiche ossessioni basta una macchinina rossa (il colore del desiderio, non a
caso) per far regredire Adriana allo stadio di bambina. Uno stadio mai
superato: l’apparizione del marito o della madre quando si sta abbandonando ai
suoi istinti dimostra il senso di colpa tipico di chi non ha saputo o voluto
crescere. Arturo inoltre, l’unico che non appartiene al suo concreto vissuto,
racchiude in sé gli stereotipi del seduttore da telenovela a lungo vagheggiati
in una grigia esistenza. E anche la scelta, all’apparenza stravagante, di far
emergere i genitori dal frigo o dallo sportello di un mobile risulta logica:
chi sconta l’ostilità altrui non ha che i suoi deliri. L’abito da sposa
indossato alla fine della pièce simboleggia quel bisogno di amore e di
riconoscibilità che le è stato sistematicamente negato. L’uccisione dei figli
nel tentativo di fronteggiare la madre esprime il bisogno lancinante di
sottrarsi a tutti quei legami che l’hanno schiacciata (ma la soppressione dei
bambini non è molto diversa dalla violenza psicologica di una genitrice che non
ha voluto lasciarla essere una persona) e la folle risata mentre, coperta di
sangue, si muove sul triciclo, dimostra che il vero orrore è un susseguirsi di
giorni di piombo, in cui “le parole ce stanno, ma è cum si nun vulessero ascì”.
domenica 6 dicembre 2015
Notte Pasolini e la feroce bellezza di Salò
Avrebbe potuto essere girato
un’ora fa. Le mostruosità che restano impresse sulla pelle dello spettatore
sono frutto di un clima che attraversa ogni epoca: la reificazione di corpi e
anime da parte di un potere mai pago di mostrare fin dove la sua violenza possa
arrivare. Restaurato dalla Cineteca di Bologna, “Salò o le 120 giornate di
Sodoma” è tornato a stordire con il suo feroce splendore a suggello di Notte
Pasolini Atto III, il progetto che ha coinvolto le voci più vive della cultura
salernitana. La proiezione presso il Cinema Apollo di Salerno è stata preceduta
dalla presentazione di Alfonso Amendola, che ha ricordato come il “cattivo
maestro” Pasolini sia oggi più che mai un interlocutore che chiarisca i meccanismi
del disgusto e del declino in cui viviamo. Nell’intervento “Senza spargimento
di sangue”, Elio Goka, senza trascurare la forzatura pedagogica da parte del
potere che fa a pezzi il momento in cui si credono eterne le gioie infantili, ha
evidenziato come il postumo di Salò sia Salò stesso, in quanto riflessione che
contrappone la pornografia artistica a quella di consumo e disamina di come gli
uomini siano micromacchine della macchina della sopraffazione, introiettandone
la capacità distruttiva. Prendendo le mosse dalla pellicola di Fabrizio Laurenti,
“Il corpo del duce”, che sottolinea il legame fisico tra gli Italiani e il loro capo, Davide Speranza ha osservato come nell’opera
pasoliniana si distrugga il concetto stesso di solidarietà, di coesione sociale e
politica, nell’attacco al capitalismo colpevole di aver mutato in oggetti la
cultura stessa. E la guerra combattuta appunto, senza spargimento di sangue,
dalle nuove generazioni occidentali oggi mira a fagocitare il nostro tempo, a
rendere gli individui controfigure in un copione deciso dall’alto. La lettura
di “Se” di Kipling ha voluto esorcizzare l’horror vacui che si apre a ogni
passo oggi come in passato. La perfomance di Antonio Grimaldi “Io e la mia
croce” fa della morte di Pasolini un’imago vitae, la summa della sua
consacrazione straniante alla libertà di pensiero. Di qui la nudità integrale,
metafora di un approccio senza filtri né pregiudizi che era l’abito mentale
dell’intellettuale. I rumori fuori scena dell’omicidio sembrano provenire da un
altro mondo, un mondo oltre il quale si spinge già lo sguardo della vittima (ma
sono gli assassini le vittime di una disumanizzazione che li rende pedine
cieche) in un’aura cristologica che sublima il momento della fine e lo riscatta
dal buio del vilipendio e della
brutalità. Le parole di Pasolini riecheggiano nelle tenebre prima che tutto
inizi perchè bisogna opporsi all’ottenebramento della coscienza. Quando
Grimaldi avanza a braccia aperte verso l’uscita della sala, comunica un
messaggio di speranza e rinascita: svincolata dai ceppi in cui si costringe
l’individuo, la mente non allineata invita a riscrivere il presente.
Salò ha l’implacabilità di
un assioma. Chi esercita un’autorità non ammette dialettica, ma sempre e solo
un’ottica verticistica che distingua chi schiaccia e chi è schiacciato. Distinzione
a sua volta orribilmente ambigua, perché le vittime legittimano con la loro
esistenza i potenti che abusano di loro in una malsana dipendenza incrociata.
L’asfittica geometria delle figure che oscillano tra il controcampo e
l’allineamento nella medesima inquadratura mostra come il veleno della
sopraffazione avvinca ciò che dovrebbe essere inconciliabile e trova ennesima
conferma, per citare un solo esempio, nello sposalizio grottesco tra i signori
in vesti femminili e i loro amanti. Il
finale non è meno straniante. I due giovani che ballano al suono di una musica
carezzevole hanno ormai incarnato l’annichilimento. E quando il buio dilaga
nella mente, anche solo sognare un altrove diventa impossibile.
venerdì 4 dicembre 2015
“Scrivere non è descrivere!”, elogio della libertà al femminile
Quando nel 1976 mimò con il suo corpo la parola Mater, fu scandalo.
Nella miope Italia riconoscere il diritto a essere persone non è mai stato
semplice. “Mater” è una delle opere di “Scrivere non è descrivere!”, la mostra
di Tomaso Binga chiusa con successo presso la Galleria Tiziana
di Caro di Napoli in attesa di ospitare nuove produzioni dell’artista. A una
concezione a senso unico della femminilità, Binga fa del suo corpo un segno che
rifonda totalmente il linguaggio. La madre come fondamento di un mondo cieco
dinanzi alle differenze diventa cosi l’occasione per ridurre gli schemi mentali
a pura immagine oltre la quale la comunicazione diviene qualcosa di vivo e mai
statico. Le lettere dell’”Alfabetiere” ancora forgiate dalla sua nudità invitano
a considerare gli elementi della lingua un’opportunità di gioco, una presa di
posizione di chi fa arte e si assume la responsabilità di essere totalmente ciò
che crea. Anche la riproduzione di illustrazioni tratte da fumetti cinesi
(propri dunque di una società basata sulla rigidità delle regole) è un ironico
rimando a reinterpretare e arricchire il dato visivo. Lo stadio prelogico della
scrittura emerge dal “Dattilocodice”: lettere battute a macchina e sovrapposte
come in un arazzo liberano le energie dell’inconscio e ricordano la duttilità
del significante. La “Scrittura in dissolvenza”, esposta per la prima volta (un
flusso desemantizzato che scompare progressivamente, tracciato su contenitori
di medicinali che ricordano finestre aperte su un nuovo orizzonte) non contiene
certo un messaggio nichilista nell’azzerare i consueti codici esegetici. È al
contrario un’esortazione a sottrarsi alla tirannide di tali codici, perché il
fluire incontrollabile del segno sia cifra degli infiniti modi di rapportarsi
al reale. Non poteva mancare in questo
contesto “Ti scrivo solo di domenica”. Le lettere disposte lungo le pareti di
una sala appaiono specchi in cui l’artista e lo spettatore si osservano: del resto le parole costruiscono la casa
della mente. L’introspezione diventa grimaldello che scardina il reale. Nel
riflettere sulle proprie sensazioni e sul bisogno (vitale ma ostacolato) di
essere libera, Binga dà voce a tutte le donne alla ricerca della propria identità,
che è un eterno dispiegarsi, non un copione dettato da pregiudizi e abitudini
stantie. Scrivere non potrà mai essere descrivere, ma cogliere il rimosso,
l’assonanza tra ciò che è distante, vitalità anarchica perché, come scrive
l’autrice, “Le parole silenziose mi infastidiscono come la forfora”.
martedì 24 novembre 2015
“Ceneri alle ceneri”, l’inconfessabile nell’ordinario
Non è assolutamente detto
che una penna sia innocente (non si conoscono i suoi genitori, ovvero la sua
storia). E non è detto che un singolare dialogo tra marito e moglie sia solo un
diversivo erotico. È nell’ordinario che si annida l’inconfessabile, indizi
distorti mandano in pezzi l’idea che esista qualcosa di assodato e di
riconoscibile. Nella sua capacità di occultare la crudeltà nel paradosso, “Ceneri
alle ceneri” di Harold Pinter non perde il suo smalto a distanza di anni e lo
spettacolo diretto presso il Piccolo Teatro del Giullare di Salerno da Carla
Avarista, con l’aiuto regia di Concita De Luca, è un intenso percorso tra
memorie, allusioni, sogni soffocati in cui la ricerca della verità è
un’implacabile opera di scarnificazione. I due coniugi, lui desideroso di
conoscere i dettagli su di un amante, lei abile nello stuzzicare e spegnere la
sua curiosità, vengono messi a nudo man mano che tentano di definire il mosaico
di sensazioni e ricordi (sempre incompleti, sempre fuorvianti) tra chiacchiere
all’apparenza fuori luogo e un dolore che s’insinua fino ad esplodere. Non è un
caso che l’allestimento sia dominato dal bianco: il colore della mancanza,
della quiete che attende di essere squarciata. Anna Rita Vitolo domina il
palcoscenico con una intensità che catalizza a ogni passo l’attenzione e Marco
Villani non le è da meno nel tratteggiare con attenta dedizione un virilità che
oscilla tra complicità e sopraffazione. I movimenti, una danza ambigua e a
tratti gioiosa, esprimono duplicità. Il foulard scherzosamente conteso, per
esempio, sarà poi associato a qualcosa di terribile. Seduzione, contrasto,
unione, si susseguono come se entrambi tentassero di esorcizzare ciò che li
sovrasta e abita in loro: l’impulso a dividere il mondo in vittime e carnefici.
Poco importa se stiano rivivendo un passato effettivamente vissuto o se in loro prevalga una sorta di inconscio
collettivo. Ciò che violenta un’anima tocca tutte le anime. E per quanto
l’Occidente voglia essere immemore, le ferite che infligge a se stesso tornano
a sanguinare, mentre l’innocenza stessa si ritrova ridotta in cenere.
venerdì 6 novembre 2015
“Lo sguardo di Ricciardi”, il non tempo di un antieroe
Cosa
si prova quando si sta per annegare nel buio? Quando ci si aggrappa
disperatamente all’ultimo respiro strappato a forza? Ricciardi lo sa. I
fantasmi degli assassinati lo perseguitano, imprigionandolo nel loro estremo
istante fino alla risoluzione di un mistero che non dà nessun conforto a questo
malinconico antieroe. Conoscitrice profonda dei meccanismi narrativi di
Maurizio De Giovanni, Brunella Caputo si mette totalmente in gioco con rara
dedizione in “Lo sguardo di Ricciardi- Il Fatto, la Passione, l'Amore” applaudito presso il Piccolo
Teatro del Giullare di Salerno, omaggio al personaggio dello scrittore
napoletano. Il disegno luci e le coreografie di Virna Prescenzo rendono i corpi
degli attori protagonisti assoluti di una scena arricchita solo da sensazioni e
prospettive giustapposte sulle note affascinanti dell’Electric Ethno Jazz Trio:
Stefano Giuliano(sassofono, wha wha, octaver, harmonizer), Domenico Andria(basso,
loop, fuzz, delay) e Pietro Ciuccio (percussioni, voce, hang, loop). Se Vanni
Avallone offre un ritratto energico del travestito Bambinella, la cui storia è
evocata da Antonia Avallone creando immediata curiosità attorno a lui, e
Alffedo Micoloni connota un brigadiere all’insegna di un’onestà ruvida e
dolente, Teresa di Forio, Alfio Battaglia e la regista stessa si sdoppiano,
talvolta osservando Ricciardi, talvolta identificandosi con lui e le figure che
lo circondano. È una scelta coerente: la percezione del commissario è multipla
e tale deve essere l’approccio al suo mondo (la Caputo e la Di Florio sono scalze
come sono raffigurati spesso i defunti nell’arte). Nello scandire quella che è
una sorta di via crucis laica attraverso le tappe del Fatto (il dono del
protagonista), la passione (la sensualità incarnata da Livia), l’amore (Enrica,
la donna che gli è preclusa per salvarla da un destino di visioni nefaste), ci
si muove in un non tempo che assolutizza sentimenti e attese, in una zona di
confine tra essere e non essere in cui l’unica certezza è la forza inesausta
del desiderio. I defunti desiderano abitare il presente (ciò che gli somiglia,
almeno), Ricciardi ha sete di verità e di normalità, l’amata desidera vivere
ciò che può solo sognare. Tra l’implacabilità degli specchi e la tenerezza
delle confidenti, le donne sul palco invitano a
tenere fuori la “refola”, il breve istante in cui è possibile aprirsi a
un nuovo inizio. Ma nulla può soffocare l’ansia di essere finalmente altro, di
regalare allo sguardo più di quel che possa vedere.
venerdì 30 ottobre 2015
Il corpo abitato di Leonardo Capuano
Mica facile convivere con i
propri fantasmi. Tra una gamba dissociata che si anima appena ode la musica (la
più misteriosa delle arti, non a caso, come misterioso è il cervello umano),
una donna da inseguire attorno a un tavolo per discutere del mascarpone e
dell’infinito e familiari a dir poco ingombranti, non si può essere neppure
folli in santa pace. E siamo poi cosi certi che esista una logica
inoppugnabile? Presso il Piccolo Teatro del Giullare di Salerno
“Elettocardiodramma” di e con Leonardo Capuano ha concluso tra gli
applausi “Per voce sola”, la rassegna
ideata e diretta da Vincenzo Albano. Il titolo rimanda a un curioso esame
medico e all’adrenalina diffusa a piena mani dallo spettacolo. Nel consacrarsi
interamente al suo personaggio, un balbuziente che indossa un vestito di donna
senza sapere perché e sa cogliere quel che ad altri sfugge proprio per il suo
essere ai margini di ciò che è “normale”, l’artista ne sottolinea con
stupefacente energia la tenerezza, la curiosità, la vis comica, la capacità di
spiazzare pubblico e ipotetici interlocutori con giochi di parole, questiti
stranianti, ansia di gioco che è sempre tentativo di esorcizzare il dolore e la
solitudine. Mentre sa contemplare se stesso nelle circostanze più anomale,
l’uomo in scena accoglie in sé diversi personaggi: una madre che di materno ha
ben poco ma in compenso non è affatto noiosa, tra una parabola appesa al collo
per captare alieni e spiriti e l’augurio che i suoi rampolli trovino presto la
pace eterna, fratelli che sono complici e antagonisti, che si tratti di provare
a spararsi addosso o di cercare Satana in fondo al mare, una donna che incarna
tutti i sogni più dolci. Seguendo Capuano in quelle che apparirebbero solo
stravaganze, si coglie la lucidità tra le pieghe della pazzia. Inseguire in
cerchio l’amata è l’essenza dell’amore, che è inesausta ricerca di quel che non
si lascia raggiungere senza riuscire davvero a evadere dall’ossessione. La
malattia della madre è specchio di un male più profondo, il veleno
dell’incomunicabilità e della voglia di sopraffare. Lo stesso abito femminile
allude alla necessità –frustrata- di comprendere ciò che è altro da sé e tutte
le azioni restano come sospese perché non esiste alcuna certezza. Inutile
chiedere al farmacista una pillola per l’equilibrio, magari somministrata di
tanto in tanto. Non resta che osservare il volo delle donne fenicottero, rapide
a sparire come la promessa della felicità.
giovedì 22 ottobre 2015
Per voce sola, successo per “Letizia forever”
È dolce, timida, ha gli occhi vivi di una bambina mentre è seduta compunta come una scolaretta su una pedana di legno dove troneggia un mangianastri e sopra al suo capo ruota la classica sfera argentata delle discoteche. Si fa presto a dimenticare la sua poderosa barba e a considerarla più donna di qualsiasi altra donna. Che mistero volete che esista in una creatura così tranquilla? Più di quanto si possa immaginare, risponderebbe lei. Accolto calorosamente dal pubblico salernitano presso il Piccolo Teatro del Giullare, “Letizia forever”, scritto e diretto da Rosario Palazzolo, ha segnato la terza tappa di “Per voce sola”, la rassegna diretta da Vincenzo Albano. Salvatore Nocera lavora sapientemente su pochi, efficaci dettagli per tratteggiare il suo personaggio: l’ingenuità con cui racconta ciò che l’emoziona, lo sguardo ferito quando rivive il suo dramma (urla indistinte si odono all’inizio e alla fine della narrazione, perché evadere dal dolore è a volte impossibile), l’ironia tanto più acuta quanto più proviene da un’analfabeta a cui la vita ha fatto promesse non mantenute. Letizia è tenuta sotto controllo in quello che sembra un ospedale psichiatrico (abbiamo solo il suo punto di vista e tutto è estremamente ondivago) e poiché bisogna far luce su un delitto, è spinta a dar voce ai pensieri sulle note di canzoni “genere amore”, come lei le definisce. “La musica arragiona con l’icoscio” spiega, ma “l’icoscio” è furbo: non si fa smascherare con facilità. Sulle note di Pupo, Gianni Togni, Viola Valentino, sappiamo tutto di lei: il difficile rapporto con la madre, la fuga col futuro marito, la solitudine, la scoperta del tradimento e infine il coltello brandito. A questo punto, il buio: ha ucciso? È stata uccisa? Il figlioletto che viene a trovarla e la chiama ora mamma, ora papà è prova di una deriva psicologica? Letizia non sa e non vuole rispondere. Il fatto stesso che siano le note, spazio delle sensazioni e delle illusioni, a far emergere qualcosa di lei sull’onda di desideri frustrati mostra come la protagonista resti ai margini del cosiddetto raziocinio. Non esiste un’unica realtà. Le risposte non sono che dubbi fragili. E anche la sarcastica scelta metateatrale di immaginarsi dinanzi a un pubblico per comprendere ciò che sfugge alla comprensione, nonostante la prevalenza, ricorda, dei cretini (di qui la pedana da cui orchestrare la sua “pièce”) deride la catarsi da sempre attribuita al palco. Barba e ciabatte rosa non sono in contraddizione. Letizia è pirandellianamente se stessa, suo marito, la vita sognata nei “fabulosi anni 80”, la vittima e il colpevole. Inutile chiederle altro: è già tempo di ascoltare una nuova canzone.
sabato 10 ottobre 2015
“Antropolaroid”, istantanee dal passato
Essere inchiodati a un
ruolo, a un destino? Si farebbe di tutto per sfuggire a questo copione, che si
creino gabbie peggiori o si corra incontro alla libertà. Accolto
entusiasticamente al Teatro del Giullare di Salerno, “Antropolaroid” di e con
Tindaro Granata ha segnato la seconda tappa della rassegna di Vincenzo Albano,
“Per voce sola”. Quando la voce del protagonista si fa strada nel buio
descrivendo il momento dell’impiccagione, non crea semplicemente tensione
attorno al primo personaggio sul palco (il bisnonno Francesco, umile e forte
come tutti gli uomini legati alla terra, che si uccide per un cancro), ma
allude a cappi ugualmente letali: la miseria, la sopraffazione, la legge del
più forte che costringe il nonno Tindaro a essere al tempo stesso vittima e
carnefice al servizio di Badalamenti in un omicidio mimato con gesti violenti e
dolorosi, perché il corpo narra meglio delle parole ciò che fa a pezzi
un’anima. Tutti i familiari in cui Granata si trasforma con un semplice
movimento, con una rapida inflessione, cercano di sottrarsi a ciò che li
imprigiona: zia Peppina, che ignora con dolce caparbietà la gamba offesa per
insegnare il valzer a nonna Maria Rosa, la quale fugge per un amore che le farà
del male, Nià Mena che la aiuta e vede nella giovane la possibilità di vivere
che a lei, ex prostituta, è stata preclusa, papà Teodoro alla ricerca di
un’autoaffermazione. Perfino zio Gasparino, che non vuole tenersi distante
dalla pista da ballo a dispetto della meningite (ma nella Sicilia cocciutamente
chiusa nel suo non tempo, dove la donna che conosce l’italiano è “buttana”, è
la fantasia a esorcizzare il male e la paura, per cui è stato un angelo nero a
rubare a Gasparino il pensiero quando era in fasce). Nel declinare tutte le
sfumature del tormento e della tenerezza, all’artista bastano una sedia e un
lenzuolo che diventano tomba, letto, vestito della festa, dato che sono appunto
le emozioni a dominare la scena. Dal passato rivissuto anche con ironia
(indimenticabile la bisnonna Concetta che sputa sulla lapide del marito, reo di
averla resa vedova) emerge l’ansia dello stesso Tindaro di essere padrone di
sé. Nella danza antica che sfida Badalamenti, inizia a infrangere le catene con
l’isola che pure abita in ogni suo respiro. Sulla nave che lo porta verso il
suo futuro di attore ritrova proprio il nipote del mafioso: la sua presenza è
evocata da una sola lampadina accesa sul proscenio, dato che i legami con ciò
che è stato sono l’unica certezza in un’esistenza tutta da definire. Ma non si
torna indietro. E mentre il domani si avvicina, resta in Tindaro la benedizione
della “stidda” assicurata dalla bisnonna: tanta bellezza, tanta fortuna, tanta
sofferenza. Perché è il dolore il prezzo per alzare al cielo occhi nuovi.
giovedì 1 ottobre 2015
“XXI Secolo”, amore e dissoluzione
Storie dall’impianto
narrativo solo apparentemente semplice sono spesso destinate ad abitare a lungo
la mente di chi le legge. È il caso di “XXI Secolo” di Paolo Zardi. Mentre
miseria e violenza divorano tutto, il coma in cui cade la moglie del
protagonista lo costringe a riconsiderare tutto ciò che ha vissuto. All’interno
di un percorso creativo che ha il suo epicentro nel momento in cui le maschere
crollano, l’autore si misura in modo ancora più ambizioso che in passato col
doloroso momento della dissoluzione e con gli echi che essa lascia in chi la
vive. Raccontare la disperazione espone al rischio dell’enfasi, ma la scrittura
di Zardi è felicemente immune da questo pericolo. Anche quando si inoltra in
analisi che sgomentano per la profondità di quel che cercano e rivelano ("XXI
Secolo" non è un libro da comodino, i lettori passivi possono tranquillamente dedicarsi
ad altro), lo stile possiede una concretezza ruvida e tagliente che abbatte
qualunque diaframma tra chi legge e ciò che viene letto: lo si avverte nella
propria carne. Attraverso sotterranee analogie il momento della crisi sembra
dilatarsi all’infinito. Eleonore soggiace a un’insidia che nasce dal proprio
corpo come l’Occidente ha nella propria rapacità il germe del suo male. Il
protagonista che vende apparecchi per depurare l’acqua porta a porta vuole
diffondere linfa vitale nel corpo come desidera che gli affetti restino vivi e
protetti nel tessuto dei giorni. Mentre però l’Occidente è sepolto nel
fallimento e dunque la sua immobilità è percepita come inaggirabile, quella di
Eleonore manda in pezzi ciò che era considerato saldo e al riparo da pericolosi
mutamenti. La sua è un’immobilità antifrastica, che allude al proprio opposto,
mostrando la fluidità, l’incostanza, l’imprevedibilità di tutto quello che
coinvolge un’anima.
La voce narrante è coerente
con l’ampiezza del disegno. Ne "Il signor Bovary" l’immedesimazione nella figura
principale (altalenante e ambigua come tutti i bisogni umani) era motivata da
un redde rationem legato a quanto di
più intimo si possa concepire, il desiderio, e nasceva soprattutto da un
approcio problematico con la scrittura, che è rivelazione mai salvifica del
disagio. In "XXI Secolo" la resa dei conti ha assunto dimensioni planetarie, dato
che l’Occidente ha sempre preteso di essere l’ombelico del mondo e la ricerca
di senso diviene così pressante che si impone un tipo di narrazione capace di
abbracciare il singolo e la collettività. Si moltiplica lo sguardo, dunque,
perché si moltiplicano i naufragi.
Zardi è stato sempre
affascinato dal concetto di limite perché in esso, come in una
consustanziazione laica, si attua in pieno la natura umana. Il limite gravoso
che qui viene continuamanete riproposto è quello di una logica soffocata dai suoi
stessi tentativi di individuare, rivelare, decifrare. Anche il rapporto con
l’informazione -la vicenda del fantino vittima di un incidente, le notizie dal
mondo- conduce su una falsa pista, perchè quella che vorrebbe essere un’ottica
multipla, in grado di cogliere a ogni livello la complessità, è in realtà la
messinscena di qualcosa di cui si è persa la ragione ultima.
L’Occidente collassa perché
su di esso si accartoccia il suo limite, che è pretesa di imporre
un’omologazione del pensiero e del comportamento, ma pretendere che i rapporti
siano traducibili in chiare equazioni, in un sistema di causa ed effetto non
conduce da nessuna parte. Non si può ingabbiare un magma di sensazioni in una
categoria. Ecco allora che al limite inteso come superbia di ridurre il mondo a
se stessi se ne contrappone un altro, accolto a fatica e con disperata fiducia,
che dalla coscienza della propria fragilità fa germogliare la possibilità di
riscrivere la propria storia. Quel che confina in una condizione può divenire
un varco per aprire su quella stessa condizione occhi nuovi e riviverla al di
fuori di parametri soffocanti. Zardi non regala mai facili approdi o
scorciatoie consolatorie. Non sappiamo se l’amore sarà una via d’uscita.
Possiamo solo comprendere che quello che ci sottrae alla barbarie scaturisce da
quelle stesse viscere che ci spingono verso il baratro.
martedì 29 settembre 2015
“Ecce Robot”, il talento visionario di Daniele Timpano
Kitsch, brutti, violenti,
pornografici. E dunque, irresistibili. Era il 4 aprile del 1978. Chi diavolo
poteva immaginare che l’alabarda spaziale di Goldrake si sarebbe conficcata
nella mente e nel cuore di un’intera generazione? Applaudito dal pubblico del
Teatro del Giullare di Salerno, “Ecce Robot. Cronaca di un’invasione” ha aperto
la seconda edizione di “Per voce sola”, la rassegna, nata dall’impegno
dell’associazione culturale Erre Teatro, che ha in Vincenzo Albano il suo
direttore artistico col sostegno del Comune di Salerno, di contributi privati e
la collaborazione di Pura Cultura e di Fonderie Culturali. Ricostruendo
con divertente scrupolo filologico il
primo e l’ultimo episodio di Mazinga Z, un cult di quegli anni, Daniele Timpano
rende omaggio al creatore di questa e altre serie di successo, Go Nagai, nel
dar vita a tutti i personaggi e nell’ispirare ai cartoni nipponici il suo
stesso approccio al palco, come il conto alla rovescia per la fine dello
spettacolo che crea la tensione adatta a un’astronave. Lo sguardo spiritato, i
movimenti a tratti convulsi, le espressioni spesso fissate in una maschera
buffa non lo farebbero affatto sfigurare in un plot del Sol Levante. L’adrenalina
profusa in uno spettacolo che non conosce attimi di cedimento è elogio della
sfrenata libertà espressiva a cui i robot hanno aperto le porte e il protagonista si presenta come il frutto di una
mutazione antropologica (cosa aspettarsi da chi alle elementari camminava
alzando le ginocchia come Lupin III?). La stessa temuta, denunciata e
osteggiata da gran parte dell’opinione pubblica di quarant’anni fa, dalla
lettera dei seicento genitori di Imola contro l’inaridimento intellettivo ed
emotivo dei figli made in Japan alla demonizzazione di Nantas Salvalaggio, che
nella tragica morte di un bimbo ammiratore di Goldrake vedeva senza appello il
male che avanza (e qui il sarcasmo riesce a giocare tutte le sue carte senza
ledere neppure in parte il dramma). Ma ecco l’orgoglioso capovolgimento della
questione. È vero, gli eroi d’acciaio sono entrati nel dna, sarebbe stato probabilmente
meglio far saltare in aria un democristiano in quel periodo travagliato invece
di passare pomeriggi interi davanti a quelle trasmissioni e lo stesso teatro di
Timpano rivendica con comica ammirazione di essere nato da quella produzione a
basso costo. Dietro l’onnipresenza del televisore però vi era l’assenza degli
adulti o le loro tensioni malate: il ricordo di una gamba tagliata al padre in
una lite è la grottesca dimostrazione di come l’orrore ami nascondersi nella
quotidianità. Nulla spaventa un bambino più di una famiglia in pezzi. Mamma e
papà che vomitano veleno l’uno sull’altro dietro una porta a vetri turbano più
di qualunque mostro. E il missile fallico di Mazinga Z farà sempre minor danno
di un genitore anaffettivo, che relega davanti al piccolo schermo chi ha solo
voglia di sognare un po’ di più.
giovedì 24 settembre 2015
Al via la seconda edizione di “Per voce sola”
Il peso dei ricordi e la
necessità di aprire, anzi, spalancare le porte della percezione percorrono i
quattro appuntamenti (tutti alle 21 al Piccolo Teatro del Giullare di Salerno) di “Per
voce sola”, la rassegna, giunta alla seconda edizione, nata dall’impegno
dell’associazione culturale Erre Teatro, che ha in Vincenzo Albano il suo
direttore artistico col sostegno del Comune di Salerno, di contributi privati e
la collaborazione di Pura Cultura e di Fonderie Culturali. Si inizia il 25
settembre con “Ecce robot. Cronaca di un’invasione” di cui Daniele Timpano, che
si ispira all’opera di Go Nagai, cura drammaturgia, regia ed interpretazione e
che è il racconto ironico di una colonizzazione dell’immaginario, quella dei
cartoni nipponici, che prepara l’inquietante omologazione imposta dal mezzo
televisivo. È un mondo di memorie e di sensazioni perdute “Antropolaroid”, di e
con Tindaro Granata (2 ottobre), in cui la duttilità della lingua siciliana
crea personaggi che riemergono da un lontano passato e celano aspetti
inquietanti. Il 16 ottobre Salvatore Nocera, su testo e regia di Rosario
Palazzolo, proporrà, con le voci di Giada Biondo, Floriana Cane, Chiara
Italiano, Rosario Palazzolo, Chiara Pulizzotto, Giorgio Salamone, “Letizia for
ever”, dove la più inclassificabile delle donne, nevrotica, comica e
imprevedibile, fa energicamente a pezzi ogni convenzione. La conclusione della
manifestazione è fissata per il 23 ottobre con “Elettrocardiodramma” scritto,
diretto e interpretato da Leonardo Capuano, dove un balbuziente vestito da
donna mette a nudo la propria anima nel dialogo con figure che solo lui può
vedere.
“Non è tanto il monologo come forma espressiva
in sé a meritare una qualche priorità rispetto ad altri tipi di messinscena- ha
detto il direttore artistico- quanto il fatto che è sempre la forza del
linguaggio a contare. La parola unisce in un doppio dono: quello che
l’interprete fa al pubblico con la sua creatività e quello che gli spettatori
attuano offrendo il proprio ascolto. È facile dimenticare l’ascolto nella
confusione che ci attornia e il pubblico non è certo stupido, ma addormentato
su ciò che viene proposto. La rassegna cerca di comprendere le policromie del
presente e quanto di ciò a cui si assiste oggi appartiene al futuro”.
Napoli, alla Galleria Di Caro “Scrivere non è descrivere!” di Tomaso Binga
Il segno è una terra aperta
alle più disparate conquiste, uno spazio le cui coordinate sono soggette a
mutamenti imprevedibili, un gioco che si autoalimenta all’insegna della più
spudorata ambiguità. Un’ambiguità che si nutre dell’energia del palcoscenico,
dissolvendo ogni diaframma tra i volti dell’arte. Su questo assunto ha costruito
il suo percorso Tomaso Binga, al secolo Bianca Pucciarelli Menna, che
inaugurerà la sua personale “Scrivere non è descrivere!” (il titolo è un verso
della stessa Binga) oggi, 24 settembre, alle 19 presso la Galleria Tiziana
Di Caro in Piazzetta Nilo 7 a
Napoli. Le componenti del linguaggio diventano in lei occasione per annullare
ogni confine tra materia e suono, rendendo gli elementi espressivi un’arma
contro ogni discriminazione e appiattimento della percezione. La mostra, aperta
fino al 14 novembre, proporrà la serie “Scrittura vivente”(1976), dove il corpo
dell’artista, nel divenire lettera o comunque elemento base di un dialogo
sempre aperto con lo spettatore, intende abolire la tirannia del codice
favorendo cosi la più totale libertà espressiva. Il Dattilocodice del 1978, in cui grafemi
sovrapposti alla macchina da scrivere creano un nuovo livello iconico, a tratti quasi una sorta di arazzo onirico,
carica il significante di una polisemia che attinge al prelogico per restituire
a se stessa la facoltà di reinventare ed esplorare l’assodato. Oltre alle opere
dei primi anni Settanta, non ultimi i disegni e i collage, i visitatori
potranno visionare parte della produzione esposta alla Biennale di Venezia del
1978. Non potrà mancare “Ti scrivo solo di domenica”(1977), la performance in
cui l’emancipazione femminile è descritta come la meta di un viaggio complesso
e necessario, per quanto gli ostacoli si accavallino. In
un anno di corrispondenza con un’amica a cui sono inviati sette biglietti alla
settimana, solo il settimo contiene un messaggio, dato che la domenica è
l’unico giorno di genere femminile. Il tempo diviene cosi spazio di urgenze e
sensazioni che rivendicano il diritto a riscrivere la vita. Senza rinunciare
all’ironia anche quando l’amarezza prevale, la poesia sonora di Binga, che
difende la scelta dell’identità di riscrivere i propri percorsi oltre ogni
condizionamento, è una continua esortazione a una rivoluzione sociale che
abbatta definitivamente il razzismo ideologico in tutti i suoi aspetti e
l’esposizione della Galleria Di Caro vuole fare da apripista a un ciclo che
illustri le tappe di una protagonista della scena culturale italiana.
mercoledì 26 agosto 2015
“Scritture viventi”, il linguaggio secondo Tomaso Binga
Emerge immobile
dalla tappezzeria di cui è rivestita. Recita “Io sono una carta” dove, in un
crescendo di tensione, l’innocuo materiale si trasforma in una cartuccia da
sparare, abbandona su una sedia a dondolo il suo abito e lascia la scena. È il
1977 e Tomaso Binga, al secolo Bianca Pucciarelli Menna, sta conducendo la sua
personalissima battaglia in difesa di un’idea allora tutt’altro che assodata:
la donna come soggetto attivo di ogni percorso sociale e non semplice oggetto
di una visione maschile. E lo fa reinventando il linguaggio perché diventi
piena espressione di libertà attraverso differenti modalità espressive: un
legame con il palco in cui tutto sia di continuo reinventabile, l’Alfabetiere
Murale (le lettere sono espresse dal suo corpo), il Dattilocodice (la
sovrapposizione di lettere alla macchina da scrivere per un’iconografia
emozionale) e la musicalità mai addomesticabile della poesia sonora, per citare
solo alcuni esempi. Il suo percorso è illustrato nell’agile volume della
collana Il presente dell’arte edito da Plectica, “Scritture viventi” a cura di
Antonello Tolve e Stefania Zuliani, autori
tra l’altro di una bibliografia ragionata estremamente puntuale. Zuliani
ricorda come Binga abbia sempre sovvertito la concezione artistica in nome di
una contaminazione che si facesse discorso aperto e coinvolgente del senso del
corpo e della parola. Il dialogo multiculturale diviene sistematica messa in
gioco del sapere nel centro culturale diretto dall’artista, il Lavatoio
Contumaciale a Roma che Lorenzo Mango ricorda come spazio “che si inteatra, si
disegna come teatrabile”. Il filo che unisce Binga ad Artaud è enucleato da
Pierfrancesco Giannangeli, dato che il “linguaggio fisico a base di segni e non
più di parole” diviene la peculiarità di una performance in cui poesia e ironia
aprono infinite possibilità di approccio al reale. Che il segno linguistico sia
da sempre per questa artista un terreno da conquistare a una risemantizzazione
che annulli ogni mediazione tra carne e vocabolo, tra immagine e fonema è una
scelta oggetto della riflessione di Tolve. L’ampia antologia critica esamina la
produzione di Binga tra gli anni 70 e il 2000. Ermanno Migliorini pone
l’accento su come in lei la scrittura smantelli la specificità dell’elemento
artistico per aprirlo a nuove capacità interpretative, Giulio Carlo Argan nota
come “la regressione della parola a segno” ampli il raggio della comunicazione,
Giorgio Cortenova si sofferma sull’attitudine del significante ad espandersi,
tracciando nuove vie alla percezione. Romana Loda ricorda come la concretezza
fisica dell’artista opponga la totalità della persona all’astrazione in nome di
un’umanità da preservare. I versi di Vincenzo Agnetti narrano “di belle cose
seminate con le dita/ sul proprio corpo come altra terra”, mentre il
Dattilocodice è per Italo Mussa il luogo di una mutazione polisemica basata
sulla disappartenza della lettera a se stessa e per Mirella Bentivoglio ricorda
l’origine pittografica della lingua. L’empatia e la paziente costruzione di prospettive
contro tutti i vincoli animano “Ti scrivo solo di domenica”, la perfornance
analizzata da Gillo Dorlfes. In un anno di corrispondenza con un’amica a cui
sono inviati sette biglietti alla settimana, solo il settimo contiene un
messaggio, dato che la domenica è l’unico giorno di genere femminile. Il tempo
diviene cosi spazio di urgenze e sensazioni che rivendicano il diritto a
riscrivere la vita. La desemantizzazione orchestrata da Binga contro una stasi
in realtà fortemente ambigua del dato grafico è un aspetto cruciale secondo
Elverio Maurizi e Francesco Moschini si misura col passaggio dalla piena
identificazione tra opera e creatrice al rarefarsi magmatico della forma nel
ciclo dei Biographic, in cui più che vocazione alla pittura si ravvisa un
dinamismo refrattario alla tirannia della categoria. Paolo Balmas evidenzia a
sua volta la libertà che la scrittura sa attuare nel farsi corpo e nello
scrivere “Mimando il conturbante rende presente il disturbante” Cesare Milanese
fotografa l’essenza del suo itinerario. La sperimentazione continua di mezzi
artistici per rendere il gesto e il suono armi contro ogni ipocrisia e violenza
occupa la riflessione di Angelo Trimarco, cosi’ come l’impegno in vista di una
società migliore è la traccia che Francesco Muzzioli segue nel considerare
significato e significante pedine di un gioco in cui Binga investe tutta
l’energia propria di chi vuole fare dell’arte l’ambito di un pensiero non
allineato.
mercoledì 29 luglio 2015
“Il mio nome è Nessuno”, l’Odissea secondo Giannini
Inseguire una
meta contro ogni ostacolo e spesso contro ogni logica. Mettersi in gioco totalmente, fino a rendere le nuove terre
spazio della propria anima. Opporre ingegno a crudeltà, ansia di vivere a
distruzione. L’Odissea è il cardine di ogni immaginario e sarà Giancarlo
Giannini a far rivivere il fascino di Omero stasera alle 21.30 con lo
spettacolo “Il mio nome è Nessuno” nell’ambito del Festival di Teatro Antico di
Veleia presso l’area archeologica nazionale di Veleia Romana a Lugagnano Val d’Arda.
L’ingresso è gratuito e senza prenotazione. Accompagnato dal violoncello di Gianni
Cuciniello e dall’arpa celtica di Roberta Procaccini, l’artista renderà vivide
e concrete le vicende del più famoso viaggiatore di ogni tempo, guidando gli
spettatori a sperimentare l’ebbrezza del rischio e della passione.
venerdì 24 luglio 2015
“Scoppiato amore” al Giffoni Film Festival
Se il gioco spensierato e
caustico è per voi l’essenza del teatro, “Scoppiato amore” è senz’altro lo
spettacolo che fa al caso vostro. Diretto e interpretato da Antonio Grimaldi,
andrà in scena stasera alle 22.15 nell’ambito del Giffoni Film Festival. È un
omaggio brioso alla Commedia dell’Arte, un’esaltazione del virtuosismo, un
catalogo felicemente irrazionale delle possibilità espressive dell’attore. Il
coinvolgimento amoroso, comicamente enfatizzato da una recitazione surreale e
dall’inserto di musiche moderne, è oggetto di una sistematica decostruzione. Se
è vero che nulla è irrazionale quanto il legame tra due amanti, Cristina Milito
Pagliara (una Colombina tenera e abilissima nel creare con il pubblico l’empatia)
e lo stesso Grimaldi (un Arlecchino e in seguito un Pulcinella che traboccano
energia) lo dimostrano senza ombra di dubbio, celebrando, per esempio, il loro
matrimonio in ginocchio tra due ali di
pupazzetti: l’amour fou ha in fondo la spensieratezza dell’infanzia. I pupazzetti spinti gli uni verso gli altri
come in una curiosa partita a scacchi dagli sposi che declamano in modo buffo
”La costruzione di un amore” esprimono la difficoltà di comunicare quando il rapporto
mostra la corda. Il desiderio può cambiare pelle, ma la sua forza resta
intatta, come mostra l’inconsolabile (solo all’apparenza) vedova interpretata
con felice ironia da Gemma De Cesare, che mostra il suo dolore, ovvero le sue
pregevoli gambe. Gli spettatori sono a più riprese coinvolti nelle schermaglie
dei tre, perché ogni gioco teatrale trae forza da chi lo fruisce. Se fate a
meno di desiderare, sembrano dire gli attori, allora potete anche fare a meno
di respirare. Il grigiore di un corpo senza stimoli è davvero tempo perso.
venerdì 17 luglio 2015
A Maiori " Gli Echi ... Mai Sopiti "
Un luogo non è solo se
stesso. Accoglie memorie, voci, suggestioni, legami tra quel che appare
distante e intessere un dialogo tra lo spazio e un artista è da sempre una
preziosa occasione per ridefinire prospettive e coordinate. "
Gli Echi ... Mai Sopiti
" è la mostra del fotografo Nicola Guarini e del ceramista Sergio
Scognamiglio, curata da Vincenzo Ruocco, che si terrà presso lo studio Adele
Filomena Photography dal 20 luglio al 15 settembre in Via Casa Mannini a
Maiori. Istantanee e corpi di argilla interrogano il paesaggio fino a
riconoscersi in esso, creando sotterranee analogie tra artificiale e naturale e
proponendo nel corpo dell’opera stessa il segno di un linguaggio che diventa
empatia e liberazione di energie. L’ambiente in cui le opere sono collocate
amplia la percezione fino a condurre lo spettatore a distruggere ogni mediazione
tra sé e il suo attorno.
martedì 16 giugno 2015
Geografie, bilancio positivo
Testi di forte impatto e
interpreti che hanno messo in campo le proprie energie senza respiro. Si è
conclusa all’insegna del pieno successo Geografie, la rassegna, presso il
Piccolo Teatro del Giullare di Salerno, ideata e diretta da Vincenzo Albano sul
teatro calabrese contemporaneo in partnership con la rivista Puracultura e la
webradio d’Ateneo Unisound con il patrocinio del “Centro studi sul Teatro
napoletano, meridionale ed europeo” presieduto da Antonia Lezza. Emanuela Ferrauto, critico teatrale, ne è stata consulente generale.
Abbiamo chiesto ad Albano di
tirare le somme.
Ora che il sipario è calato, qual è la sua opinione?
“Sono soddisfatto dei
numeri. Non si è verificato nessun calo nell’affluenza del pubblico, un dato
positivo. Il lavoro della mia associazione culturale Erre Teatro, che ha curato
l’organizzazione generale della manifestazione, è sempre migliorabile e occorre
cercare di attrarre nuovi flussi di spettatori”.
Quali sono a suo avviso gli ostacoli con cui la
drammaturgia contemporanea deve fare i conti e quali i suoi punti di forza?
“Gli
ostacoli riguardano la circuitazione delle compagnie, la difficoltà di
garantire loro condizioni dignitose, non solo economiche. Un delicato
equilibrio di oneri nel quale il pubblico gioca un ruolo fondamentale. A
maggior ragione in quel segmento del presente teatrale che va avanti in maniera
indipendente, se non pionieristica. Geografie ha incontrato e parlato di queste
realtà, non solo in teatro, “on stage”, ma anche – per così dire – “on air”,
assieme a tutto lo staff di Unisound. Mi sembrava interessante la chiave
monografica regionale; una sorta di censimento, seppur parziale. Sui punti di
forza, mi piace annoverare la sollecitazione all’ascolto, che sia di una storia
intesa come “plot”, che sia di un frammento di essa nel quale io riconosco la
mia. Siamo disabituati all’ascolto. Vediamo, basta. Ma quanto può renderci
“visionari” una parola, abbandonandoci ad essa!”.
Quali progetti ha per il futuro?
“Penso alla seconda edizione
di “Per voce sola”, che non è un progetto, ma un taglio offerto a una proposta
che mi permette di proporre drammaturgie interessanti, e alla terza edizione di
Teatrografie, che è un tentativo di narrare il teatro anche attraverso forme
espressive diverse, nonché alla seconda edizione di Geografie. Sarebbe inoltre
auspicabile contare su un proprio spazio. Il Giullare ha offerto un sostegno
insostituibile, ma un luogo gestito autonomamente permette di connotare una
precisa identità artistica”.
Le suggestioni di Erri De Luca
È allergico alla
retorica, ma fa avvertire sulla pelle il dolce peso di un ricordo. Odia le
maschere che la violenza costruisce per legittimarsi (“La divinità non può
perdonare chi giura il falso in suo nome, come chi giura di uccidere per ordine
di Dio”), ma non ama salire in cattedra. Pensa alla scrittura come a un “tempo
festivo”, un modo per farsi compagnia e ricorda con devoto affetto Izet Sarajilic,
“maestro di fedeltà amorosa” a una donna e a una città, la Sarajevo che ascoltava i
poeti negli scantinati per dimenticare almeno per un momento il dolore della
guerra. Il pubblico che ha affollato il Piccolo Teatro del Giullare di Salerno è
stato sedotto da Erri De Luca nella serata condotta dal giornalista Paolo
Romano in cui Brunella Caputo e Cinzia Ugatti hanno proposto un’appassionata
lettura di stralci tratti dalle opere più note dello scrittore napoletano. Uno
scrittore più che mai attratto dalla capacità del linguaggio di generare la
vita: il motivo che lo ha spinto ad accostarsi alla Bibbia.“Mi piaceva molto il
fatto che non fosse letteratura, che non si preoccupasse di avere un lettore,
dato che esistevano ascoltatori, tramandatori della parola –ha detto-Che quella
divinità si manifestasse fisicamente con la parola mi ha riguardato come uno
che ha messo tutte le sue uova nel cesto del vocabolario da cui trarre parole
per i miei scritti. Quel dire precede, procura e determina il creato. La parola
al suo vertice si porta dietro la responsabilità di chi la pronuncia”. De Luca
sa che le parole possono uccidere e che il razzismo ne fa un’arma impropria a
cui bisogna opporre una sensibilità non allineata. “Mi sento cittadino del
Mediterraneo, un intruglio dei nostri sangui. Sarebbe interessante analizzare
quanto nel nostro sangue ci sia di fenicio, ebreo, normanno. Assistiamo al
peggor commercio marittimo della storia dove la merce umana ha una sorte
peggiore della tratta degli schiavi, dove contava che il prodotto, pagato alla
consegna, arrivasse illeso, cosa che non conta affatto oggi. Facile immaginare
cosa diranno di noi quelli che verrano dopo”. E se la parola rivoluzione ha
ormai esaurito la sua funzione storica, non resta che resistere dal basso a
ogni minaccia alla salute pubblica. Il diritto all’integrità fisica è una priorità
assoluta. Senza dimenticare l’importanza dell’anarchia, “una delle formule
della disobbedienza di cui Charlie Hebdo è stato l’ultimo sfiato sulfureo”.
lunedì 8 giugno 2015
“L’Italia s’è desta”, il sonno dell’etica
Gli abitanti del piccolo paese della Calabria-non
occorre un nome, potrebbe succedere ovunque-possono ridere quanto vogliono al
passaggio di “quella”, ”la scema”, “scarpe strane”. Non mostrano certo la stesa
sfrontatezza se si allude alla loro vita apparentemente immobile, dove “ogni
tanto sparisce qualcuno”. “L’Italia s’è desta”, il monologo di Dalila Cozzolino
per la regia dell’autore del testo Rosario Mastrota, ha chiuso tra gli applausi
del Piccolo Teatro del Giullare di Salerno Geografie, la rassegna ideata e diretta da
Vincenzo Albano sul teatro calabrese contemporaneo. L’ironica naturalezza con
cui la Cozzolino
connota il suo personaggio, un’idiot sauvant in gonnella che possiede, in tutti
i sensi, una vista ben più acuta dei compaesani, innesca immediatamente un
meccanismo di complicità con questa creatura generosa e fragile, sulla quale
gli sguardi tacciono se non per deridere o cercare goffamente di proteggere,
come mostrano le allusioni a una madre spenta dalla lontananza del padre. Carla
Libonati è invisibile come le vittime degli “ndranghetisti” che ordinano ai
“brutti” di “appicciare” i negozi di chi non paga il pizzo e rapiscono e
uccidono, come accade a Maria, l’unica amica della protagonista. Lo spettacolo
si regge su una denuncia sociale tanto più feroce quanto più mediata dalla
leggerezza. La violenza non è confinata in una terra che si costruisce da sola
le sue trappole, ma è sistemica. La statua di Garibaldi per cui sono stati
abbattuti alberi secolari e i contrasti tra il prete “vecchio” e quello
“giovane” esprimono uno scempio dell’etica di cui la sola Carla sembra rendersi
comicamente conto, avvolta in un silenzio che è limite e arma. Quando però a
sparire è la sola cosa che stia a cuore al Paese, ovvero la Nazionale di Calcio
sequestrata dalla malavita, sarà “scarpe strane” a indicare il dirupo in
cui è nascosta con un mezzo, non a caso,
tipico dei criminali: la lettera scritta con ritagli di giornale. E la frase
“L’Italia è nel burrone!” si carica di sensi ulteriori, dato che la legalità si
è schiantata da tempo al suolo. Tutta la felicità di Carla esplode nel sentire
il suo nome alla radio, dato che il Presidente “Sergio Mattarello” la insignirà
di una medaglia, ricevendo in cambio una bella pagnotta. I doni si ricambiano,
non certo come gli “ndranghetisti”
che ripagano il bene col male. Con buona pace di Giulietta, un nome è ciò che
indica, ne legittima l’esistenza. Ma il nome che dovrebbe distinguere
definitivamente dal contesto la giovane ne ribadisce le catene. Libonati, il
padre sparito e desiderato, è il boss assassino di Maria. L’innocenza non basta
a salvarsi dal marcio. E mentre si allontana su una bici dove ha posto un
tricolore con la spensieratezza di una bambina, Carla avverte l’amarezza di
come sia terribimente facile perdere quel poco in cui si crede in un’Italia che
si desta per il calcio, ma non per scrivere una storia diversa.
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