sabato 19 dicembre 2015

“Il primo giorno di primavera”, l’inganno del desiderio



L’amore? Una degenerazione della sessualità.I critici? Abilissimi nel tessere il nulla. Chiedere la verità a un artista? Come comprare il pane dal macellaio. Intervistare su un’isola un Nobel per la letteratura sarcasticamente orgoglioso della sua solitudine si rivela un’impresa per il giornalista accolto a colpi di arma da fuoco. La vita però si diverte a cambiare copione e l’incontro li sorprenderà entrambi. Liberamente ispirato a “Variazioni enigmatiche” di Éric-Emmanuel Schmitt, “Il primo giorno di primavera”, diretto da Antonio Grimaldi, ha registrato il tutto esaurito al Teatro del Giullare. Antonino Masilotti (Erik, il giornalista) crea con cura appassionata una sorta di spirito guida, un personaggio che fa della dolente dedizione all’amore il suo comandamento e assottiglia la distanza tra menzogna e verità con spaesante tenacia. Marco Villani (Abel, lo scrittore) seduce nell’oscillare tra cinismo e passione, costruendo in un chiaroscuro emotivo una figura che ricorda Oscar Wilde nelle sue sentenze affilate ed è profondamente umana nell’egoismo come nella consacrazione. Le scene di Cristina Milito Pagliara sono giocate su di un’essenzialità evocativa. La tenda dietro la quale le ombre dei personaggi assumono qualcosa di magico sottolinea il fascino della finzione, la capacità dell’arte di celare e mostrare quel che vuole. I palloncini attorno al trono di Abel e il suo dedicarsi alle bolle di sapone alludono alla leggerezza con cui guarda alle trappole che gli uomini si costruiscono con le proprie mani, prima tra tutte la quotidianità. E proprio per sottrarsi alla stessa sorte ha imposto a Helen, la donna perdutamente amata, una dimensione esclusivamente epistolare del rapporto narrata nel suo ultimo fortunatissimo romanzo, “L’amore inconfessato”, che con l’ambiguità del linguaggio, al quale ogni inganno è possibile, mette dunque in luce una vicenda gelosamente nascosta. Ecco però che le apparenze si sgretolano. Non solo Helen è morta (nel primo giorno di primavera, ma in ogni fine esiste un inizio); Erik è suo marito e ha continuato a scrivere fingendosi lei con cui si è ormai identificato, come mostra la tenera impudenza della veste femminile nascosta sotto l’abito. Non si può vivere senza qualcosa da desiderare, anche se quel qualcosa è più evanescente di un’ombra sul sipario. Il carteggio continuerà e al diavolo rabbia e sconcerto. Amare ciò che non si rassegna alla propria morte è davvero il modo migliore di restare vivi.

lunedì 7 dicembre 2015

“Notturno di donna con ospiti”, un incubo tra quattro mura



Non bisognerebbe mai restare da soli. È allora che i fantasmi si prendono le loro rivincite, trasformando tutto in in un incubo. Accolta con entusiasmo dal pubblico del Teatro delle Arti di Salerno, Giuliana De Sio ha riproposto la sua memorabile interpretazione in “Notturno di donna con ospiti” di Annibale Ruccello. Enrico Maria Lamanna firma una regia dal ritmo che serra la gola dello spettatore in un’opera che si inserisce coerentemente nel percorso di Ruccello, conoscitore profondo della solitudine e della prigionia psicologica. Clotilde in “Ferdinando” è orgogliosamente ostaggio di un passato ormai disprezzato, il protagonista de “Le cinque rose di Jennifer” attende qualcosa che non avverrà mai, Anna Cappelli nell’omonimo monologo arriva a identificarsi con la casa simbolo di uno status sociale a lungo inseguito. Adriana è a sua volta prigioniera della sua stessa vita, schiava della televisione,  inchiodata anche dalla sua terza gravidanza al matrimonio con un metronotte, Michele (Gino Curcione, che tratteggia con cura un personaggio brutale e arido). che la considera una serva da portare a letto, immobilizzata in un presente di parole ripetute, bambini, gesti consumati dalla routine. Rimasta sola, le piombano in casa Rosanna, una compagna di scuola vittima, a suo dire,  di balordi(Rosaria De Cicco, credibilissima femme fatale priva di scrupoli), il marito Arturo (l’abile Andrea De Venuti) e Sandro,il nuovo compagno di Rosanna che aveva ingravidato Adriana in gioventù (Luigi Iacuzio, sfuggente e crudele). Inizialmente divertita dalla stranezza della situazione, la padrona di casa si troverà al centro di un massacro complicato dal ritorno del marito e dal ricordo del padre morto e della madre (Mimmo Esposito, del tutto a suo agio anche en travesti) fino al tragico esito. Un momento rivelatore è il poker tra gli ospiti: il gioco degli adulti, degli scaltri, di ciò che è totalmente estraneo alla natura di una figura interrotta, spezzata dalle sue vicende. La donna è attorniata dalle sue proiezioni in un sofisticato squilibrio di assonanze e antitesi. Rosanna è ciò che Adriana avrebbe potuto diventare nell’ottica dell’opprimente madre, ovvero una manipolatrice del sesso, ma è anche la libertà sconfinata che le è stata preclusa  e che spesso richiede un prezzo assai alto (l’aggressione, appunto) e dunque oggetto di odio e ammirazione. Michele e Sandro diventano speculari nell’abusare di lei, perchè non ha avuto la forza di sfuggire allo schema della vittima: eloquente la scena in cui i tre uomini, usciti dalla doccia, hanno tutti un asciugamano sul viso, lei ne sceglie uno e scopre attonita che si tratta proprio del suo primo uomo. Al passato non  si sfugge e nell’oscillare tra nuove e antiche ossessioni basta una macchinina rossa (il colore del desiderio, non a caso) per far regredire Adriana allo stadio di bambina. Uno stadio mai superato: l’apparizione del marito o della madre quando si sta abbandonando ai suoi istinti dimostra il senso di colpa tipico di chi non ha saputo o voluto crescere. Arturo inoltre, l’unico che non appartiene al suo concreto vissuto, racchiude in sé gli stereotipi del seduttore da telenovela a lungo vagheggiati in una grigia esistenza. E anche la scelta, all’apparenza stravagante, di far emergere i genitori dal frigo o dallo sportello di un mobile risulta logica: chi sconta l’ostilità altrui non ha che i suoi deliri. L’abito da sposa indossato alla fine della pièce simboleggia quel bisogno di amore e di riconoscibilità che le è stato sistematicamente negato. L’uccisione dei figli nel tentativo di fronteggiare la madre esprime il bisogno lancinante di sottrarsi a tutti quei legami che l’hanno schiacciata (ma la soppressione dei bambini non è molto diversa dalla violenza psicologica di una genitrice che non ha voluto lasciarla essere una persona) e la folle risata mentre, coperta di sangue, si muove sul triciclo, dimostra che il vero orrore è un susseguirsi di giorni di piombo, in cui “le parole ce stanno, ma è cum si nun vulessero ascì”.

domenica 6 dicembre 2015

Notte Pasolini e la feroce bellezza di Salò



Avrebbe potuto essere girato un’ora fa. Le mostruosità che restano impresse sulla pelle dello spettatore sono frutto di un clima che attraversa ogni epoca: la reificazione di corpi e anime da parte di un potere mai pago di mostrare fin dove la sua violenza possa arrivare. Restaurato dalla Cineteca di Bologna, “Salò o le 120 giornate di Sodoma” è tornato a stordire con il suo feroce splendore a suggello di Notte Pasolini Atto III, il progetto che ha coinvolto le voci più vive della cultura salernitana. La proiezione presso il Cinema Apollo di Salerno è stata preceduta dalla presentazione di Alfonso Amendola, che ha ricordato come il “cattivo maestro” Pasolini sia oggi più che mai un interlocutore che chiarisca i meccanismi del disgusto e del declino in cui viviamo. Nell’intervento “Senza spargimento di sangue”, Elio Goka, senza trascurare la forzatura pedagogica da parte del potere che fa a pezzi il momento in cui si credono eterne le gioie infantili, ha evidenziato come il postumo di Salò sia Salò stesso, in quanto riflessione che contrappone la pornografia artistica a quella di consumo e disamina di come gli uomini siano micromacchine della macchina della sopraffazione, introiettandone la capacità distruttiva. Prendendo le mosse dalla pellicola di Fabrizio Laurenti, “Il corpo del duce”, che sottolinea il legame fisico tra gli Italiani e  il loro capo,  Davide Speranza ha osservato come nell’opera pasoliniana si distrugga il concetto stesso  di solidarietà, di coesione sociale e politica, nell’attacco al capitalismo colpevole di aver mutato in oggetti la cultura stessa. E la guerra combattuta appunto, senza spargimento di sangue, dalle nuove generazioni occidentali oggi mira a fagocitare il nostro tempo, a rendere gli individui controfigure in un copione deciso dall’alto. La lettura di “Se” di Kipling ha voluto esorcizzare l’horror vacui che si apre a ogni passo oggi come in passato. La perfomance di Antonio Grimaldi “Io e la mia croce” fa della morte di Pasolini un’imago vitae, la summa della sua consacrazione straniante alla libertà di pensiero. Di qui la nudità integrale, metafora di un approccio senza filtri né pregiudizi che era l’abito mentale dell’intellettuale. I rumori fuori scena dell’omicidio sembrano provenire da un altro mondo, un mondo oltre il quale si spinge già lo sguardo della vittima (ma sono gli assassini le vittime di una disumanizzazione che li rende pedine cieche) in un’aura cristologica che sublima il momento della fine e lo riscatta dal buio del vilipendio e  della brutalità. Le parole di Pasolini riecheggiano nelle tenebre prima che tutto inizi perchè bisogna opporsi all’ottenebramento della coscienza. Quando Grimaldi avanza a braccia aperte verso l’uscita della sala, comunica un messaggio di speranza e rinascita: svincolata dai ceppi in cui si costringe l’individuo, la mente non allineata invita a riscrivere il presente.
Salò ha l’implacabilità di un assioma. Chi esercita un’autorità non ammette dialettica, ma sempre e solo un’ottica verticistica che distingua chi schiaccia e chi è schiacciato. Distinzione a sua volta orribilmente ambigua, perché le vittime legittimano con la loro esistenza i potenti che abusano di loro in una malsana dipendenza incrociata. L’asfittica geometria delle figure che oscillano tra il controcampo e l’allineamento nella medesima inquadratura mostra come il veleno della sopraffazione avvinca ciò che dovrebbe essere inconciliabile e trova ennesima conferma, per citare un solo esempio, nello sposalizio grottesco tra i signori in vesti femminili e  i loro amanti. Il finale non è meno straniante. I due giovani che ballano al suono di una musica carezzevole hanno ormai incarnato l’annichilimento. E quando il buio dilaga nella mente, anche solo sognare un altrove diventa impossibile.

venerdì 4 dicembre 2015

“Scrivere non è descrivere!”, elogio della libertà al femminile



Quando nel 1976 mimò con il suo corpo la parola Mater, fu scandalo. Nella miope Italia riconoscere il diritto a essere persone non è mai stato semplice. “Mater” è una delle opere di “Scrivere non è descrivere!”, la mostra di Tomaso Binga chiusa con successo presso la Galleria Tiziana di Caro di Napoli in attesa di ospitare nuove produzioni dell’artista. A una concezione a senso unico della femminilità, Binga fa del suo corpo un segno che rifonda totalmente il linguaggio. La madre come fondamento di un mondo cieco dinanzi alle differenze diventa cosi l’occasione per ridurre gli schemi mentali a pura immagine oltre la quale la comunicazione diviene qualcosa di vivo e mai statico. Le lettere dell’”Alfabetiere” ancora forgiate dalla sua nudità invitano a considerare gli elementi della lingua un’opportunità di gioco, una presa di posizione di chi fa arte e si assume la responsabilità di essere totalmente ciò che crea. Anche la riproduzione di illustrazioni tratte da fumetti cinesi (propri dunque di una società basata sulla rigidità delle regole) è un ironico rimando a reinterpretare e arricchire il dato visivo. Lo stadio prelogico della scrittura emerge dal “Dattilocodice”: lettere battute a macchina e sovrapposte come in un arazzo liberano le energie dell’inconscio e ricordano la duttilità del significante. La “Scrittura in dissolvenza”, esposta per la prima volta (un flusso desemantizzato che scompare progressivamente, tracciato su contenitori di medicinali che ricordano finestre aperte su un nuovo orizzonte) non contiene certo un messaggio nichilista nell’azzerare i consueti codici esegetici. È al contrario un’esortazione a sottrarsi alla tirannide di tali codici, perché il fluire incontrollabile del segno sia cifra degli infiniti modi di rapportarsi al reale.  Non poteva mancare in questo contesto “Ti scrivo solo di domenica”. Le lettere disposte lungo le pareti di una sala appaiono specchi in cui l’artista e lo spettatore si osservano:  del resto le parole costruiscono la casa della mente. L’introspezione diventa grimaldello che scardina il reale. Nel riflettere sulle proprie sensazioni e sul bisogno (vitale ma ostacolato) di essere libera, Binga dà voce a tutte le donne alla ricerca della propria identità, che è un eterno dispiegarsi, non un copione dettato da pregiudizi e abitudini stantie. Scrivere non potrà mai essere descrivere, ma cogliere il rimosso, l’assonanza tra ciò che è distante, vitalità anarchica perché, come scrive l’autrice, “Le parole silenziose mi infastidiscono come la forfora”.

martedì 24 novembre 2015

“Ceneri alle ceneri”, l’inconfessabile nell’ordinario



Non è assolutamente detto che una penna sia innocente (non si conoscono i suoi genitori, ovvero la sua storia). E non è detto che un singolare dialogo tra marito e moglie sia solo un diversivo erotico. È nell’ordinario che si annida l’inconfessabile, indizi distorti mandano in pezzi l’idea che esista qualcosa di assodato e di riconoscibile. Nella sua capacità di occultare la crudeltà nel paradosso, “Ceneri alle ceneri” di Harold Pinter non perde il suo smalto a distanza di anni e lo spettacolo diretto presso il Piccolo Teatro del Giullare di Salerno da Carla Avarista, con l’aiuto regia di Concita De Luca, è un intenso percorso tra memorie, allusioni, sogni soffocati in cui la ricerca della verità è un’implacabile opera di scarnificazione. I due coniugi, lui desideroso di conoscere i dettagli su di un amante, lei abile nello stuzzicare e spegnere la sua curiosità, vengono messi a nudo man mano che tentano di definire il mosaico di sensazioni e ricordi (sempre incompleti, sempre fuorvianti) tra chiacchiere all’apparenza fuori luogo e un dolore che s’insinua fino ad esplodere. Non è un caso che l’allestimento sia dominato dal bianco: il colore della mancanza, della quiete che attende di essere squarciata. Anna Rita Vitolo domina il palcoscenico con una intensità che catalizza a ogni passo l’attenzione e Marco Villani non le è da meno nel tratteggiare con attenta dedizione un virilità che oscilla tra complicità e sopraffazione. I movimenti, una danza ambigua e a tratti gioiosa, esprimono duplicità. Il foulard scherzosamente conteso, per esempio, sarà poi associato a qualcosa di terribile. Seduzione, contrasto, unione, si susseguono come se entrambi tentassero di esorcizzare ciò che li sovrasta e abita in loro: l’impulso a dividere il mondo in vittime e carnefici. Poco importa se stiano rivivendo un passato effettivamente vissuto o se in  loro prevalga una sorta di inconscio collettivo. Ciò che violenta un’anima tocca tutte le anime. E per quanto l’Occidente voglia essere immemore, le ferite che infligge a se stesso tornano a sanguinare, mentre l’innocenza stessa si ritrova ridotta in cenere.

venerdì 6 novembre 2015

“Lo sguardo di Ricciardi”, il non tempo di un antieroe



Cosa si prova quando si sta per annegare nel buio? Quando ci si aggrappa disperatamente all’ultimo respiro strappato a forza? Ricciardi lo sa. I fantasmi degli assassinati lo perseguitano, imprigionandolo nel loro estremo istante fino alla risoluzione di un mistero che non dà nessun conforto a questo malinconico antieroe. Conoscitrice profonda dei meccanismi narrativi di Maurizio De Giovanni, Brunella Caputo si mette totalmente in gioco con rara dedizione in “Lo sguardo di Ricciardi- Il Fatto, la Passione, l'Amore” applaudito presso il Piccolo Teatro del Giullare di Salerno, omaggio al personaggio dello scrittore napoletano. Il disegno luci e le coreografie di Virna Prescenzo rendono i corpi degli attori protagonisti assoluti di una scena arricchita solo da sensazioni e prospettive giustapposte sulle note affascinanti dell’Electric Ethno Jazz Trio: Stefano Giuliano(sassofono, wha wha, octaver, harmonizer), Domenico Andria(basso, loop, fuzz, delay) e Pietro Ciuccio (percussioni, voce, hang, loop). Se Vanni Avallone offre un ritratto energico del travestito Bambinella, la cui storia è evocata da Antonia Avallone creando immediata curiosità attorno a lui, e Alffedo Micoloni connota un brigadiere all’insegna di un’onestà ruvida e dolente, Teresa di Forio, Alfio Battaglia e la regista stessa si sdoppiano, talvolta osservando Ricciardi, talvolta identificandosi con lui e le figure che lo circondano. È una scelta coerente: la percezione del commissario è multipla e tale deve essere l’approccio al suo mondo (la Caputo e la Di Florio sono scalze come sono raffigurati spesso i defunti nell’arte). Nello scandire quella che è una sorta di via crucis laica attraverso le tappe del Fatto (il dono del protagonista), la passione (la sensualità incarnata da Livia), l’amore (Enrica, la donna che gli è preclusa per salvarla da un destino di visioni nefaste), ci si muove in un non tempo che assolutizza sentimenti e attese, in una zona di confine tra essere e non essere in cui l’unica certezza è la forza inesausta del desiderio. I defunti desiderano abitare il presente (ciò che gli somiglia, almeno), Ricciardi ha sete di verità e di normalità, l’amata desidera vivere ciò che può solo sognare. Tra l’implacabilità degli specchi e la tenerezza delle confidenti, le donne sul palco invitano a  tenere fuori la “refola”, il breve istante in cui è possibile aprirsi a un nuovo inizio. Ma nulla può soffocare l’ansia di essere finalmente altro, di regalare allo sguardo più di quel che possa vedere.

venerdì 30 ottobre 2015

Il corpo abitato di Leonardo Capuano



Mica facile convivere con i propri fantasmi. Tra una gamba dissociata che si anima appena ode la musica (la più misteriosa delle arti, non a caso, come misterioso è il cervello umano), una donna da inseguire attorno a un tavolo per discutere del mascarpone e dell’infinito e familiari a dir poco ingombranti, non si può essere neppure folli in santa pace. E siamo poi cosi certi che esista una logica inoppugnabile? Presso il Piccolo Teatro del Giullare di Salerno “Elettocardiodramma” di e con Leonardo Capuano ha concluso tra gli applausi  “Per voce sola”, la rassegna ideata e diretta da Vincenzo Albano. Il titolo rimanda a un curioso esame medico e all’adrenalina diffusa a piena mani dallo spettacolo. Nel consacrarsi interamente al suo personaggio, un balbuziente che indossa un vestito di donna senza sapere perché e sa cogliere quel che ad altri sfugge proprio per il suo essere ai margini di ciò che è “normale”, l’artista ne sottolinea con stupefacente energia la tenerezza, la curiosità, la vis comica, la capacità di spiazzare pubblico e ipotetici interlocutori con giochi di parole, questiti stranianti, ansia di gioco che è sempre tentativo di esorcizzare il dolore e la solitudine. Mentre sa contemplare se stesso nelle circostanze più anomale, l’uomo in scena accoglie in sé diversi personaggi: una madre che di materno ha ben poco ma in compenso non è affatto noiosa, tra una parabola appesa al collo per captare alieni e spiriti e l’augurio che i suoi rampolli trovino presto la pace eterna, fratelli che sono complici e antagonisti, che si tratti di provare a spararsi addosso o di cercare Satana in fondo al mare, una donna che incarna tutti i sogni più dolci. Seguendo Capuano in quelle che apparirebbero solo stravaganze, si coglie la lucidità tra le pieghe della pazzia. Inseguire in cerchio l’amata è l’essenza dell’amore, che è inesausta ricerca di quel che non si lascia raggiungere senza riuscire davvero a evadere dall’ossessione. La malattia della madre è specchio di un male più profondo, il veleno dell’incomunicabilità e della voglia di sopraffare. Lo stesso abito femminile allude alla necessità –frustrata- di comprendere ciò che è altro da sé e tutte le azioni restano come sospese perché non esiste alcuna certezza. Inutile chiedere al farmacista una pillola per l’equilibrio, magari somministrata di tanto in tanto. Non resta che osservare il volo delle donne fenicottero, rapide a sparire come la promessa della felicità.

giovedì 22 ottobre 2015

Per voce sola, successo per “Letizia forever”


È dolce, timida, ha gli occhi vivi di una bambina mentre è seduta compunta come una scolaretta su una pedana di legno dove troneggia un mangianastri e sopra al suo capo ruota la classica sfera argentata delle discoteche. Si fa presto a dimenticare la sua poderosa barba e a considerarla più donna di qualsiasi altra donna. Che mistero volete che esista in una creatura così tranquilla? Più di quanto si possa immaginare, risponderebbe lei. Accolto calorosamente dal pubblico salernitano presso il Piccolo Teatro del Giullare, “Letizia forever”, scritto e diretto da Rosario Palazzolo, ha segnato la terza tappa di “Per voce sola”, la rassegna diretta da Vincenzo Albano. Salvatore Nocera lavora sapientemente su pochi, efficaci dettagli per tratteggiare il suo personaggio: l’ingenuità con cui racconta ciò che l’emoziona, lo sguardo ferito quando rivive il suo dramma (urla indistinte si odono all’inizio e alla fine della narrazione, perché evadere dal dolore è a volte impossibile), l’ironia tanto più acuta quanto più proviene da un’analfabeta a cui la vita ha fatto promesse non mantenute. Letizia è tenuta sotto controllo in quello che sembra un ospedale psichiatrico (abbiamo solo il suo punto di vista e tutto è estremamente ondivago) e poiché bisogna far luce su un delitto, è spinta a dar voce ai pensieri sulle note di canzoni “genere amore”, come lei le definisce. “La musica arragiona con l’icoscio” spiega, ma “l’icoscio” è furbo: non si fa smascherare con facilità. Sulle note di Pupo, Gianni Togni, Viola Valentino, sappiamo tutto di lei: il difficile rapporto con la madre, la fuga col futuro marito, la solitudine, la scoperta del tradimento e infine il coltello brandito. A questo punto, il buio: ha ucciso? È stata uccisa? Il figlioletto che viene a trovarla e la chiama ora mamma, ora papà è prova di una deriva psicologica? Letizia non sa e non vuole rispondere. Il fatto stesso che siano le note, spazio delle sensazioni e delle illusioni, a far emergere qualcosa di lei sull’onda di desideri frustrati mostra come la protagonista resti ai margini del cosiddetto raziocinio. Non esiste un’unica realtà. Le risposte non sono che dubbi fragili. E anche la sarcastica scelta metateatrale di immaginarsi dinanzi a un pubblico per comprendere ciò che sfugge alla comprensione, nonostante la prevalenza, ricorda, dei cretini (di qui la pedana da cui orchestrare la sua “pièce”) deride la catarsi da sempre attribuita al palco. Barba e ciabatte rosa non sono in contraddizione. Letizia è pirandellianamente se stessa, suo marito, la vita sognata nei “fabulosi anni 80”, la vittima e il colpevole. Inutile chiederle altro: è già tempo di ascoltare una nuova canzone.

sabato 10 ottobre 2015

“Antropolaroid”, istantanee dal passato



Essere inchiodati a un ruolo, a un destino? Si farebbe di tutto per sfuggire a questo copione, che si creino gabbie peggiori o si corra incontro alla libertà. Accolto entusiasticamente al Teatro del Giullare di Salerno, “Antropolaroid” di e con Tindaro Granata ha segnato la seconda tappa della rassegna di Vincenzo Albano, “Per voce sola”. Quando la voce del protagonista si fa strada nel buio descrivendo il momento dell’impiccagione, non crea semplicemente tensione attorno al primo personaggio sul palco (il bisnonno Francesco, umile e forte come tutti gli uomini legati alla terra, che si uccide per un cancro), ma allude a cappi ugualmente letali: la miseria, la sopraffazione, la legge del più forte che costringe il nonno Tindaro a essere al tempo stesso vittima e carnefice al servizio di Badalamenti in un omicidio mimato con gesti violenti e dolorosi, perché il corpo narra meglio delle parole ciò che fa a pezzi un’anima. Tutti i familiari in cui Granata si trasforma con un semplice movimento, con una rapida inflessione, cercano di sottrarsi a ciò che li imprigiona: zia Peppina, che ignora con dolce caparbietà la gamba offesa per insegnare il valzer a nonna Maria Rosa, la quale fugge per un amore che le farà del male, Nià Mena che la aiuta e vede nella giovane la possibilità di vivere che a lei, ex prostituta, è stata preclusa, papà Teodoro alla ricerca di un’autoaffermazione. Perfino zio Gasparino, che non vuole tenersi distante dalla pista da ballo a dispetto della meningite (ma nella Sicilia cocciutamente chiusa nel suo non tempo, dove la donna che conosce l’italiano è “buttana”, è la fantasia a esorcizzare il male e la paura, per cui è stato un angelo nero a rubare a Gasparino il pensiero quando era in fasce). Nel declinare tutte le sfumature del tormento e della tenerezza, all’artista bastano una sedia e un lenzuolo che diventano tomba, letto, vestito della festa, dato che sono appunto le emozioni a dominare la scena. Dal passato rivissuto anche con ironia (indimenticabile la bisnonna Concetta che sputa sulla lapide del marito, reo di averla resa vedova) emerge l’ansia dello stesso Tindaro di essere padrone di sé. Nella danza antica che sfida Badalamenti, inizia a infrangere le catene con l’isola che pure abita in ogni suo respiro. Sulla nave che lo porta verso il suo futuro di attore ritrova proprio il nipote del mafioso: la sua presenza è evocata da una sola lampadina accesa sul proscenio, dato che i legami con ciò che è stato sono l’unica certezza in un’esistenza tutta da definire. Ma non si torna indietro. E mentre il domani si avvicina, resta in Tindaro la benedizione della “stidda” assicurata dalla bisnonna: tanta bellezza, tanta fortuna, tanta sofferenza. Perché è il dolore il prezzo per alzare al cielo occhi nuovi.

giovedì 1 ottobre 2015

“XXI Secolo”, amore e dissoluzione



Storie dall’impianto narrativo solo apparentemente semplice sono spesso destinate ad abitare a lungo la mente di chi le legge. È il caso di “XXI Secolo” di Paolo Zardi. Mentre miseria e violenza divorano tutto, il coma in cui cade la moglie del protagonista lo costringe a riconsiderare tutto ciò che ha vissuto. All’interno di un percorso creativo che ha il suo epicentro nel momento in cui le maschere crollano, l’autore si misura in modo ancora più ambizioso che in passato col doloroso momento della dissoluzione e con gli echi che essa lascia in chi la vive. Raccontare la disperazione espone al rischio dell’enfasi, ma la scrittura di Zardi è felicemente immune da questo pericolo. Anche quando si inoltra in analisi che sgomentano per la profondità di quel che cercano e rivelano ("XXI Secolo" non è un libro da comodino, i lettori passivi possono tranquillamente dedicarsi ad altro), lo stile possiede una concretezza ruvida e tagliente che abbatte qualunque diaframma tra chi legge e ciò che viene letto: lo si avverte nella propria carne. Attraverso sotterranee analogie il momento della crisi sembra dilatarsi all’infinito. Eleonore soggiace a un’insidia che nasce dal proprio corpo come l’Occidente ha nella propria rapacità il germe del suo male. Il protagonista che vende apparecchi per depurare l’acqua porta a porta vuole diffondere linfa vitale nel corpo come desidera che gli affetti restino vivi e protetti nel tessuto dei giorni. Mentre però l’Occidente è sepolto nel fallimento e dunque la sua immobilità è percepita come inaggirabile, quella di Eleonore manda in pezzi ciò che era considerato saldo e al riparo da pericolosi mutamenti. La sua è un’immobilità antifrastica, che allude al proprio opposto, mostrando la fluidità, l’incostanza, l’imprevedibilità di tutto quello che coinvolge un’anima.
La voce narrante è coerente con l’ampiezza del disegno. Ne "Il signor Bovary" l’immedesimazione nella figura principale (altalenante e ambigua come tutti i bisogni umani) era motivata da un redde rationem legato a quanto di più intimo si possa concepire, il desiderio, e nasceva soprattutto da un approcio problematico con la scrittura, che è rivelazione mai salvifica del disagio. In "XXI Secolo" la resa dei conti ha assunto dimensioni planetarie, dato che l’Occidente ha sempre preteso di essere l’ombelico del mondo e la ricerca di senso diviene così pressante che si impone un tipo di narrazione capace di abbracciare il singolo e la collettività. Si moltiplica lo sguardo, dunque, perché si moltiplicano i naufragi.
Zardi è stato sempre affascinato dal concetto di limite perché in esso, come in una consustanziazione laica, si attua in pieno la natura umana. Il limite gravoso che qui viene continuamanete riproposto è quello di una logica soffocata dai suoi stessi tentativi di individuare, rivelare, decifrare. Anche il rapporto con l’informazione -la vicenda del fantino vittima di un incidente, le notizie dal mondo- conduce su una falsa pista, perchè quella che vorrebbe essere un’ottica multipla, in grado di cogliere a ogni livello la complessità, è in realtà la messinscena di qualcosa di cui si è persa la ragione ultima.
L’Occidente collassa perché su di esso si accartoccia il suo limite, che è pretesa di imporre un’omologazione del pensiero e del comportamento, ma pretendere che i rapporti siano traducibili in chiare equazioni, in un sistema di causa ed effetto non conduce da nessuna parte. Non si può ingabbiare un magma di sensazioni in una categoria. Ecco allora che al limite inteso come superbia di ridurre il mondo a se stessi se ne contrappone un altro, accolto a fatica e con disperata fiducia, che dalla coscienza della propria fragilità fa germogliare la possibilità di riscrivere la propria storia. Quel che confina in una condizione può divenire un varco per aprire su quella stessa condizione occhi nuovi e riviverla al di fuori di parametri soffocanti. Zardi non regala mai facili approdi o scorciatoie consolatorie. Non sappiamo se l’amore sarà una via d’uscita. Possiamo solo comprendere che quello che ci sottrae alla barbarie scaturisce da quelle stesse viscere che ci spingono verso il baratro.

martedì 29 settembre 2015

“Ecce Robot”, il talento visionario di Daniele Timpano



Kitsch, brutti, violenti, pornografici. E dunque, irresistibili. Era il 4 aprile del 1978. Chi diavolo poteva immaginare che l’alabarda spaziale di Goldrake si sarebbe conficcata nella mente e nel cuore di un’intera generazione? Applaudito dal pubblico del Teatro del Giullare di Salerno, “Ecce Robot. Cronaca di un’invasione” ha aperto la seconda edizione di “Per voce sola”, la rassegna, nata dall’impegno dell’associazione culturale Erre Teatro, che ha in Vincenzo Albano il suo direttore artistico col sostegno del Comune di Salerno, di contributi privati e la collaborazione di Pura Cultura e di Fonderie Culturali. Ricostruendo con  divertente scrupolo filologico il primo e l’ultimo episodio di Mazinga Z, un cult di quegli anni, Daniele Timpano rende omaggio al creatore di questa e altre serie di successo, Go Nagai, nel dar vita a tutti i personaggi e nell’ispirare ai cartoni nipponici il suo stesso approccio al palco, come il conto alla rovescia per la fine dello spettacolo che crea la tensione adatta a un’astronave. Lo sguardo spiritato, i movimenti a tratti convulsi, le espressioni spesso fissate in una maschera buffa non lo farebbero affatto sfigurare in un plot del Sol Levante. L’adrenalina profusa in uno spettacolo che non conosce attimi di cedimento è elogio della sfrenata libertà espressiva a cui i robot hanno aperto le porte e il  protagonista si presenta come il frutto di una mutazione antropologica (cosa aspettarsi da chi alle elementari camminava alzando le ginocchia come Lupin III?). La stessa temuta, denunciata e osteggiata da gran parte dell’opinione pubblica di quarant’anni fa, dalla lettera dei seicento genitori di Imola contro l’inaridimento intellettivo ed emotivo dei figli made in Japan alla demonizzazione di Nantas Salvalaggio, che nella tragica morte di un bimbo ammiratore di Goldrake vedeva senza appello il male che avanza (e qui il sarcasmo riesce a giocare tutte le sue carte senza ledere neppure in parte il dramma). Ma ecco l’orgoglioso capovolgimento della questione. È vero, gli eroi d’acciaio sono entrati nel dna, sarebbe stato probabilmente meglio far saltare in aria un democristiano in quel periodo travagliato invece di passare pomeriggi interi davanti a quelle trasmissioni e lo stesso teatro di Timpano rivendica con comica ammirazione di essere nato da quella produzione a basso costo. Dietro l’onnipresenza del televisore però vi era l’assenza degli adulti o le loro tensioni malate: il ricordo di una gamba tagliata al padre in una lite è la grottesca dimostrazione di come l’orrore ami nascondersi nella quotidianità. Nulla spaventa un bambino più di una famiglia in pezzi. Mamma e papà che vomitano veleno l’uno sull’altro dietro una porta a vetri turbano più di qualunque mostro. E il missile fallico di Mazinga Z farà sempre minor danno di un genitore anaffettivo, che relega davanti al piccolo schermo chi ha solo voglia di sognare un po’ di più.

giovedì 24 settembre 2015

Al via la seconda edizione di “Per voce sola”



Il peso dei ricordi e la necessità di aprire, anzi, spalancare le porte della percezione percorrono i quattro appuntamenti (tutti alle 21 al Piccolo Teatro del Giullare di Salerno) di “Per voce sola”, la rassegna, giunta alla seconda edizione, nata dall’impegno dell’associazione culturale Erre Teatro, che ha in Vincenzo Albano il suo direttore artistico col sostegno del Comune di Salerno, di contributi privati e la collaborazione di Pura Cultura e di Fonderie Culturali. Si inizia il 25 settembre con “Ecce robot. Cronaca di un’invasione” di cui Daniele Timpano, che si ispira all’opera di Go Nagai, cura drammaturgia, regia ed interpretazione e che è il racconto ironico di una colonizzazione dell’immaginario, quella dei cartoni nipponici, che prepara l’inquietante omologazione imposta dal mezzo televisivo. È un mondo di memorie e di sensazioni perdute “Antropolaroid”, di e con Tindaro Granata (2 ottobre), in cui la duttilità della lingua siciliana crea personaggi che riemergono da un lontano passato e celano aspetti inquietanti. Il 16 ottobre Salvatore Nocera, su testo e regia di Rosario Palazzolo, proporrà, con le voci di Giada Biondo, Floriana Cane, Chiara Italiano, Rosario Palazzolo, Chiara Pulizzotto, Giorgio Salamone, “Letizia for ever”, dove la più inclassificabile delle donne, nevrotica, comica e imprevedibile, fa energicamente a pezzi ogni convenzione. La conclusione della manifestazione è fissata per il 23 ottobre con “Elettrocardiodramma” scritto, diretto e interpretato da Leonardo Capuano, dove un balbuziente vestito da donna mette a nudo la propria anima nel dialogo con figure che solo lui può vedere.
 “Non è tanto il monologo come forma espressiva in sé a meritare una qualche priorità rispetto ad altri tipi di messinscena- ha detto il direttore artistico- quanto il fatto che è sempre la forza del linguaggio a contare. La parola unisce in un doppio dono: quello che l’interprete fa al pubblico con la sua creatività e quello che gli spettatori attuano offrendo il proprio ascolto. È facile dimenticare l’ascolto nella confusione che ci attornia e il pubblico non è certo stupido, ma addormentato su ciò che viene proposto. La rassegna cerca di comprendere le policromie del presente e quanto di ciò a cui si assiste oggi appartiene al futuro”.

Napoli, alla Galleria Di Caro “Scrivere non è descrivere!” di Tomaso Binga



Il segno è una terra aperta alle più disparate conquiste, uno spazio le cui coordinate sono soggette a mutamenti imprevedibili, un gioco che si autoalimenta all’insegna della più spudorata ambiguità. Un’ambiguità che si nutre dell’energia del palcoscenico, dissolvendo ogni diaframma tra i volti dell’arte. Su questo assunto ha costruito il suo percorso Tomaso Binga, al secolo Bianca Pucciarelli Menna, che inaugurerà la sua personale “Scrivere non è descrivere!” (il titolo è un verso della stessa Binga) oggi, 24 settembre, alle 19 presso la Galleria Tiziana Di Caro in Piazzetta Nilo 7 a Napoli. Le componenti del linguaggio diventano in lei occasione per annullare ogni confine tra materia e suono, rendendo gli elementi espressivi un’arma contro ogni discriminazione e appiattimento della percezione. La mostra, aperta fino al 14 novembre, proporrà la serie “Scrittura vivente”(1976), dove il corpo dell’artista, nel divenire lettera o comunque elemento base di un dialogo sempre aperto con lo spettatore, intende abolire la tirannia del codice favorendo cosi la più totale libertà espressiva. Il Dattilocodice del 1978, in cui grafemi sovrapposti alla macchina da scrivere creano un nuovo livello iconico,  a tratti quasi una sorta di arazzo onirico, carica il significante di una polisemia che attinge al prelogico per restituire a se stessa la facoltà di reinventare ed esplorare l’assodato. Oltre alle opere dei primi anni Settanta, non ultimi i disegni e i collage, i visitatori potranno visionare parte della produzione esposta alla Biennale di Venezia del 1978. Non potrà mancare “Ti scrivo solo di domenica”(1977), la performance in cui l’emancipazione femminile è descritta come la meta di un viaggio complesso e necessario, per quanto gli ostacoli si accavallino. In un anno di corrispondenza con un’amica a cui sono inviati sette biglietti alla settimana, solo il settimo contiene un messaggio, dato che la domenica è l’unico giorno di genere femminile. Il tempo diviene cosi spazio di urgenze e sensazioni che rivendicano il diritto a riscrivere la vita. Senza rinunciare all’ironia anche quando l’amarezza prevale, la poesia sonora di Binga, che difende la scelta dell’identità di riscrivere i propri percorsi oltre ogni condizionamento, è una continua esortazione a una rivoluzione sociale che abbatta definitivamente il razzismo ideologico in tutti i suoi aspetti e l’esposizione della Galleria Di Caro vuole fare da apripista a un ciclo che illustri le tappe di una protagonista della scena culturale italiana.

mercoledì 26 agosto 2015

“Scritture viventi”, il linguaggio secondo Tomaso Binga



Emerge immobile dalla tappezzeria di cui è rivestita. Recita “Io sono una carta” dove, in un crescendo di tensione, l’innocuo materiale si trasforma in una cartuccia da sparare, abbandona su una sedia a dondolo il suo abito e lascia la scena. È il 1977 e Tomaso Binga, al secolo Bianca Pucciarelli Menna, sta conducendo la sua personalissima battaglia in difesa di un’idea allora tutt’altro che assodata: la donna come soggetto attivo di ogni percorso sociale e non semplice oggetto di una visione maschile. E lo fa reinventando il linguaggio perché diventi piena espressione di libertà attraverso differenti modalità espressive: un legame con il palco in cui tutto sia di continuo reinventabile, l’Alfabetiere Murale (le lettere sono espresse dal suo corpo), il Dattilocodice (la sovrapposizione di lettere alla macchina da scrivere per un’iconografia emozionale) e la musicalità mai addomesticabile della poesia sonora, per citare solo alcuni esempi. Il suo percorso è illustrato nell’agile volume della collana Il presente dell’arte edito da Plectica, “Scritture viventi” a cura di Antonello Tolve e Stefania Zuliani, autori  tra l’altro di una bibliografia ragionata estremamente puntuale. Zuliani ricorda come Binga abbia sempre sovvertito la concezione artistica in nome di una contaminazione che si facesse discorso aperto e coinvolgente del senso del corpo e della parola. Il dialogo multiculturale diviene sistematica messa in gioco del sapere nel centro culturale diretto dall’artista, il Lavatoio Contumaciale a Roma che Lorenzo Mango ricorda come spazio “che si inteatra, si disegna come teatrabile”. Il filo che unisce Binga ad Artaud è enucleato da Pierfrancesco Giannangeli, dato che il “linguaggio fisico a base di segni e non più di parole” diviene la peculiarità di una performance in cui poesia e ironia aprono infinite possibilità di approccio al reale. Che il segno linguistico sia da sempre per questa artista un terreno da conquistare a una risemantizzazione che annulli ogni mediazione tra carne e vocabolo, tra immagine e fonema è una scelta oggetto della riflessione di Tolve. L’ampia antologia critica esamina la produzione di Binga tra gli anni 70 e il 2000. Ermanno Migliorini pone l’accento su come in lei la scrittura smantelli la specificità dell’elemento artistico per aprirlo a nuove capacità interpretative, Giulio Carlo Argan nota come “la regressione della parola a segno” ampli il raggio della comunicazione, Giorgio Cortenova si sofferma sull’attitudine del significante ad espandersi, tracciando nuove vie alla percezione. Romana Loda ricorda come la concretezza fisica dell’artista opponga la totalità della persona all’astrazione in nome di un’umanità da preservare. I versi di Vincenzo Agnetti narrano “di belle cose seminate con le dita/ sul proprio corpo come altra terra”, mentre il Dattilocodice è per Italo Mussa il luogo di una mutazione polisemica basata sulla disappartenza della lettera a se stessa e per Mirella Bentivoglio ricorda l’origine pittografica della lingua. L’empatia e la paziente costruzione di prospettive contro tutti i vincoli animano “Ti scrivo solo di domenica”, la perfornance analizzata da Gillo Dorlfes. In un anno di corrispondenza con un’amica a cui sono inviati sette biglietti alla settimana, solo il settimo contiene un messaggio, dato che la domenica è l’unico giorno di genere femminile. Il tempo diviene cosi spazio di urgenze e sensazioni che rivendicano il diritto a riscrivere la vita. La desemantizzazione orchestrata da Binga contro una stasi in realtà fortemente ambigua del dato grafico è un aspetto cruciale secondo Elverio Maurizi e Francesco Moschini si misura col passaggio dalla piena identificazione tra opera e creatrice al rarefarsi magmatico della forma nel ciclo dei Biographic, in cui più che vocazione alla pittura si ravvisa un dinamismo refrattario alla tirannia della categoria. Paolo Balmas evidenzia a sua volta la libertà che la scrittura sa attuare nel farsi corpo e nello scrivere “Mimando il conturbante rende presente il disturbante” Cesare Milanese fotografa l’essenza del suo itinerario. La sperimentazione continua di mezzi artistici per rendere il gesto e il suono armi contro ogni ipocrisia e violenza occupa la riflessione di Angelo Trimarco, cosi’ come l’impegno in vista di una società migliore è la traccia che Francesco Muzzioli segue nel considerare significato e significante pedine di un gioco in cui Binga investe tutta l’energia propria di chi vuole fare dell’arte l’ambito di un pensiero non allineato.

mercoledì 29 luglio 2015

“Il mio nome è Nessuno”, l’Odissea secondo Giannini



Inseguire una meta contro ogni ostacolo e spesso contro ogni logica. Mettersi in gioco  totalmente, fino a rendere le nuove terre spazio della propria anima. Opporre ingegno a crudeltà, ansia di vivere a distruzione. L’Odissea è il cardine di ogni immaginario e sarà Giancarlo Giannini a far rivivere il fascino di Omero stasera alle 21.30 con lo spettacolo “Il mio nome è Nessuno” nell’ambito del Festival di Teatro Antico di Veleia presso l’area archeologica nazionale di Veleia Romana a Lugagnano Val d’Arda. L’ingresso è gratuito e senza prenotazione. Accompagnato dal violoncello di Gianni Cuciniello e dall’arpa celtica di Roberta Procaccini, l’artista renderà vivide e concrete le vicende del più famoso viaggiatore di ogni tempo, guidando gli spettatori a sperimentare l’ebbrezza del rischio e della passione.

venerdì 24 luglio 2015

“Scoppiato amore” al Giffoni Film Festival



Se il gioco spensierato e caustico è per voi l’essenza del teatro, “Scoppiato amore” è senz’altro lo spettacolo che fa al caso vostro. Diretto e interpretato da Antonio Grimaldi, andrà in scena stasera alle 22.15 nell’ambito del Giffoni Film Festival. È un omaggio brioso alla Commedia dell’Arte, un’esaltazione del virtuosismo, un catalogo felicemente irrazionale delle possibilità espressive dell’attore. Il coinvolgimento amoroso, comicamente enfatizzato da una recitazione surreale e dall’inserto di musiche moderne, è oggetto di una sistematica decostruzione. Se è vero che nulla è irrazionale quanto il legame tra due amanti, Cristina Milito Pagliara (una Colombina tenera e abilissima nel creare con il pubblico l’empatia) e lo stesso Grimaldi (un Arlecchino e in seguito un Pulcinella che traboccano energia) lo dimostrano senza ombra di dubbio, celebrando, per esempio, il loro matrimonio in ginocchio tra  due ali di pupazzetti: l’amour fou ha in fondo la spensieratezza dell’infanzia.  I pupazzetti spinti gli uni verso gli altri come in una curiosa partita a scacchi dagli sposi che declamano in modo buffo ”La costruzione di un amore” esprimono la difficoltà di comunicare quando il rapporto mostra la corda. Il desiderio può cambiare pelle, ma la sua forza resta intatta, come mostra l’inconsolabile (solo all’apparenza) vedova interpretata con felice ironia da Gemma De Cesare, che mostra il suo dolore, ovvero le sue pregevoli gambe. Gli spettatori sono a più riprese coinvolti nelle schermaglie dei tre, perché ogni gioco teatrale trae forza da chi lo fruisce. Se fate a meno di desiderare, sembrano dire gli attori, allora potete anche fare a meno di respirare. Il grigiore di un corpo senza stimoli è davvero tempo perso.

venerdì 17 luglio 2015

A Maiori " Gli Echi ... Mai Sopiti "



Un luogo non è solo se stesso. Accoglie memorie, voci, suggestioni, legami tra quel che appare distante e intessere un dialogo tra lo spazio e un artista è da sempre una preziosa occasione per ridefinire prospettive e coordinate. " Gli Echi ... Mai Sopiti " è la mostra del fotografo Nicola Guarini e del ceramista Sergio Scognamiglio, curata da Vincenzo Ruocco, che si terrà presso lo studio Adele Filomena Photography dal 20 luglio al 15 settembre in Via Casa Mannini a Maiori. Istantanee e corpi di argilla interrogano il paesaggio fino a riconoscersi in esso, creando sotterranee analogie tra artificiale e naturale e proponendo nel corpo dell’opera stessa il segno di un linguaggio che diventa empatia e liberazione di energie. L’ambiente in cui le opere sono collocate amplia la percezione fino a condurre lo spettatore a distruggere ogni mediazione tra sé e il suo attorno.

martedì 16 giugno 2015

Geografie, bilancio positivo



Testi di forte impatto e interpreti che hanno messo in campo le proprie energie senza respiro. Si è conclusa all’insegna del pieno successo Geografie, la rassegna, presso il Piccolo Teatro del Giullare di Salerno, ideata e diretta da Vincenzo Albano sul teatro calabrese contemporaneo in partnership con la rivista Puracultura e la webradio d’Ateneo Unisound con il patrocinio del “Centro studi sul Teatro napoletano, meridionale ed europeo” presieduto da Antonia Lezza. Emanuela Ferrauto, critico teatrale, ne è stata consulente generale.
Abbiamo chiesto ad Albano di tirare le somme.
Ora che il sipario è calato, qual è la sua opinione?
“Sono soddisfatto dei numeri. Non si è verificato nessun calo nell’affluenza del pubblico, un dato positivo. Il lavoro della mia associazione culturale Erre Teatro, che ha curato l’organizzazione generale della manifestazione, è sempre migliorabile e occorre cercare di attrarre nuovi flussi di spettatori”.
Quali sono a suo avviso gli ostacoli con cui la drammaturgia contemporanea deve fare i conti e quali i suoi punti di forza?
“Gli ostacoli riguardano la circuitazione delle compagnie, la difficoltà di garantire loro condizioni dignitose, non solo economiche. Un delicato equilibrio di oneri nel quale il pubblico gioca un ruolo fondamentale. A maggior ragione in quel segmento del presente teatrale che va avanti in maniera indipendente, se non pionieristica. Geografie ha incontrato e parlato di queste realtà, non solo in teatro, “on stage”, ma anche – per così dire – “on air”, assieme a tutto lo staff di Unisound. Mi sembrava interessante la chiave monografica regionale; una sorta di censimento, seppur parziale. Sui punti di forza, mi piace annoverare la sollecitazione all’ascolto, che sia di una storia intesa come “plot”, che sia di un frammento di essa nel quale io riconosco la mia. Siamo disabituati all’ascolto. Vediamo, basta. Ma quanto può renderci “visionari” una parola, abbandonandoci ad essa!”.
Quali progetti ha per il futuro?
“Penso alla seconda edizione di “Per voce sola”, che non è un progetto, ma un taglio offerto a una proposta che mi permette di proporre drammaturgie interessanti, e alla terza edizione di Teatrografie, che è un tentativo di narrare il teatro anche attraverso forme espressive diverse, nonché alla seconda edizione di Geografie. Sarebbe inoltre auspicabile contare su un proprio spazio. Il Giullare ha offerto un sostegno insostituibile, ma un luogo gestito autonomamente permette di connotare una precisa identità artistica”.

Le suggestioni di Erri De Luca



È allergico alla retorica, ma fa avvertire sulla pelle il dolce peso di un ricordo. Odia le maschere che la violenza costruisce per legittimarsi (“La divinità non può perdonare chi giura il falso in suo nome, come chi giura di uccidere per ordine di Dio”), ma non ama salire in cattedra. Pensa alla scrittura come a un “tempo festivo”, un modo per farsi compagnia e ricorda con devoto affetto Izet Sarajilic, “maestro di fedeltà amorosa” a una donna e a una città, la Sarajevo che ascoltava i poeti negli scantinati per dimenticare almeno per un momento il dolore della guerra. Il pubblico che ha affollato il Piccolo Teatro del Giullare di Salerno è stato sedotto da Erri De Luca nella serata condotta dal giornalista Paolo Romano in cui Brunella Caputo e Cinzia Ugatti hanno proposto un’appassionata lettura di stralci tratti dalle opere più note dello scrittore napoletano. Uno scrittore più che mai attratto dalla capacità del linguaggio di generare la vita: il motivo che lo ha spinto ad accostarsi alla Bibbia.“Mi piaceva molto il fatto che non fosse letteratura, che non si preoccupasse di avere un lettore, dato che esistevano ascoltatori, tramandatori della parola –ha detto-Che quella divinità si manifestasse fisicamente con la parola mi ha riguardato come uno che ha messo tutte le sue uova nel cesto del vocabolario da cui trarre parole per i miei scritti. Quel dire precede, procura e determina il creato. La parola al suo vertice si porta dietro la responsabilità di chi la pronuncia”. De Luca sa che le parole possono uccidere e che il razzismo ne fa un’arma impropria a cui bisogna opporre una sensibilità non allineata. “Mi sento cittadino del Mediterraneo, un intruglio dei nostri sangui. Sarebbe interessante analizzare quanto nel nostro sangue ci sia di fenicio, ebreo, normanno. Assistiamo al peggor commercio marittimo della storia dove la merce umana ha una sorte peggiore della tratta degli schiavi, dove contava che il prodotto, pagato alla consegna, arrivasse illeso, cosa che non conta affatto oggi. Facile immaginare cosa diranno di noi quelli che verrano dopo”. E se la parola rivoluzione ha ormai esaurito la sua funzione storica, non resta che resistere dal basso a ogni minaccia alla salute pubblica. Il diritto all’integrità fisica è una priorità assoluta. Senza dimenticare l’importanza dell’anarchia, “una delle formule della disobbedienza di cui Charlie Hebdo è stato l’ultimo sfiato sulfureo”.

lunedì 8 giugno 2015

“L’Italia s’è desta”, il sonno dell’etica



Gli abitanti del piccolo paese della Calabria-non occorre un nome, potrebbe succedere ovunque-possono ridere quanto vogliono al passaggio di “quella”, ”la scema”, “scarpe strane”. Non mostrano certo la stesa sfrontatezza se si allude alla loro vita apparentemente immobile, dove “ogni tanto sparisce qualcuno”. “L’Italia s’è desta”, il monologo di Dalila Cozzolino per la regia dell’autore del testo Rosario Mastrota, ha chiuso tra gli applausi del Piccolo Teatro del Giullare di Salerno Geografie, la rassegna ideata e diretta da Vincenzo Albano sul teatro calabrese contemporaneo. L’ironica naturalezza con cui la Cozzolino connota il suo personaggio, un’idiot sauvant in gonnella che possiede, in tutti i sensi, una vista ben più acuta dei compaesani, innesca immediatamente un meccanismo di complicità con questa creatura generosa e fragile, sulla quale gli sguardi tacciono se non per deridere o cercare goffamente di proteggere, come mostrano le allusioni a una madre spenta dalla lontananza del padre. Carla Libonati è invisibile come le vittime degli “ndranghetisti” che ordinano ai “brutti” di “appicciare” i negozi di chi non paga il pizzo e rapiscono e uccidono, come accade a Maria, l’unica amica della protagonista. Lo spettacolo si regge su una denuncia sociale tanto più feroce quanto più mediata dalla leggerezza. La violenza non è confinata in una terra che si costruisce da sola le sue trappole, ma è sistemica. La statua di Garibaldi per cui sono stati abbattuti alberi secolari e i contrasti tra il prete “vecchio” e quello “giovane” esprimono uno scempio dell’etica di cui la sola Carla sembra rendersi comicamente conto, avvolta in un silenzio che è limite e arma. Quando però a sparire è la sola cosa che stia a cuore al Paese, ovvero la Nazionale di Calcio sequestrata dalla malavita, sarà “scarpe strane” a indicare il dirupo in cui è nascosta con un mezzo, non a  caso, tipico dei criminali: la lettera scritta con ritagli di giornale. E la frase “L’Italia è nel burrone!” si carica di sensi ulteriori, dato che la legalità si è schiantata da tempo al suolo. Tutta la felicità di Carla esplode nel sentire il suo nome alla radio, dato che il Presidente “Sergio Mattarello” la insignirà di una medaglia, ricevendo in cambio una bella pagnotta. I doni si ricambiano, non certo come gli “ndranghetisti” che ripagano il bene col male. Con buona pace di Giulietta, un nome è ciò che indica, ne legittima l’esistenza. Ma il nome che dovrebbe distinguere definitivamente dal contesto la giovane ne ribadisce le catene. Libonati, il padre sparito e desiderato, è il boss assassino di Maria. L’innocenza non basta a salvarsi dal marcio. E mentre si allontana su una bici dove ha posto un tricolore con la spensieratezza di una bambina, Carla avverte l’amarezza di come sia terribimente facile perdere quel poco in cui si crede in un’Italia che si desta per il calcio, ma non per scrivere una storia diversa.