venerdì 31 gennaio 2020

“Malacrescita”, l’ammaliante inferno di Mimmo Borrelli



A vederlo avanzare sulla scena, scarmigliato e delirante, mentre urla e sputa,con una rattoppata vestaglia, sul cui bordo un merletto preannuncia la mescolanza di maschile e femminile, si avverte un vivo disagio. È appunto questo che Mimmo Borrelli si aspetta dal pubblico: vivere senza pudore la sue pièce fino in fondo, anche a costo dell’angoscia e del disgusto. Proposto presso la Sala Pasolini ai pigri e insofferenti spettatori salernitani (qualcuno è andato via o ha preferito lo schermo del cellulare, perché è più facile cercare rassicurazione nelle conferme che disorientamento dalle sorprese), lo spettacolo “Malacrescita”, tratto da “La Madre: ’i figlie so’ piezze ‘i sfaccimma” dello stesso attore, è un ammaliante precipizio da cui è impossibile risalire, dato che quel che si annida nelle viscere è prigione e condanna. Borrelli si ispira a vicende di camorra e alla Medea di Euripide per tracciare lo scenario allucinato di due figli che, ottenebrati dal vino, che hanno bevuto invece del latte materno, rivivono vicende familiari dominate dall’abuso, dalla rabbia e dalla sconcia obbedienza alla bassezza. Presente e passato si sovrappongono di continuo nelle dinamiche genitori- figli rese vive dal protagonista. L’infanzia selvaggia e tenera è evocata dal suono di un pupazzo di gomma di Antonio Della Ragione, mentre esegue dal vivo le musiche al servizio di quell’ipnotico fluire di suoni aspri e sgualciti tra crudezze e litanie che è la lingua flegrea, che ubriaca e contamina l’ascoltatore non meno dell’alcol avidamente tracannato. L’interprete è dunque al tempo stesso i due gemelli stravolti e per questo capaci di cogliere l’essenza delle cose, simboleggiati da due teste di bambole affumicate (non sono potuti diventare adulti: sono per sempre inchiodati alla condizione di aborti di individui, pur essendo venuti al mondo), “Santokanne”, loro padre a cui tutto è dovuto e che concepisce una sessualità solo predatoria, issato su una sedia da cui disprezza il mondo e la moglie Maria Sibilla Ascione, madre dei due folli, che unisce in sé il nome e il destino di veggente e di Vergine. Una Vergine bersaglio di feroci bestemmie, perché costringe a cercare amore anche dove non ne esiste neanche l’ombra e avvince chi genera e chi è generato in un legame inaggirabile, soffocando ogni altro desiderio. La rete bianca che Borrelli indossa è manto e sudario della madre di Cristo, consacrazione malata a un ruolo svuotato ormai di ogni senso. Come la Sibilla nel cui antro, in gita da piccola, si accorse di divenire donna (iniziazione a una vita in cui si può prevedere solo la propria rovina), la madre profetizza la vita disastrosa dei figli dei quali ha cercato invano di sbarazzarsi: “Mostri siete e mostri diverrete”, afferma. Si vendica dell’abbandono di Santokanne ubriacandoli, proiettando nel loro sbandamento l’impeto distruttivo di un’esistenza degradata. A loro spetta raccontare in modo inconsulto l’accaduto tra bottiglie e fiori che possono essere solo di plastica, perchè la rinascita è una chimera. Il racconto però non esorcizza il dolore: può solo perpetuarne l’ossessiva presenza, renderlo ubiquo come le preghiere calpestate o i suoni irrazionali della profetessa dove i pagani cercavano invano la verità.

lunedì 13 gennaio 2020

“Quasi Natale”, il suono del tempo



Lo si può ignorare, deformare, tenere fuori dalla porta, ma si ripresenterà con la cocciutaggine di un bambino capriccioso. Il passato vuole riappropriarsi del presente e non c’è occasione migliore del rituale natalizio, che si impone inesorabile tra mandarini e continui tentativi di accendere l’albero. Storia solo all’apparenza semplice, “Quasi Natale”, scritto e diretto da Francesco Lagi, con Anna Bellato, Francesco Colella, Silvia D’Amico, Leonardo Maddalena, ha fatto da preludio, al Teatro Ghirelli, alla quinta stagione di Mutaverso, il progetto artistico di Vincenzo Albano. Una madre costretta in ospedale, che non compare ma di cui si avverte di continuo la presenza, tenta invano di comunicare per telefono qualcosa ai tre figli: Isidoro, inquieto e sensibile spirito del focolare; Chiara, che fatica a fare i conti con la propria fragilità; Michele, non abbastanza dinamico e spregiudicato da avere la meglio sulle dinamiche familiari. L’infanzia ritorna nei gesti, negli scherzi, negli oggetti, persino nei rancori mai superati e nelle distanze che raggelano. Testimone e complice di questa regressione dolce e crudele è Miriam, la donna di Michele, non a caso somigliante alla madre di lui, che, tra leggende navajo ed empatia, esorta a udire “il suono del tempo”, a cogliere ciò che si ostina a non morire. Gli interpreti alimentano una continua tensione emotiva, facendo emergere, con delicatezza mai innocua o con una sofferenza che tende a implodere, le ambiguità del quotidiano (un acquario che ricorda troppo da vicino le vite dei figli), le sensazioni di disagio e il bisogno di calore annidati nell’ordinario. Non occorrono riti propiziatori (la collana che Miriam strofina tra le mani con cura): ciò che è già accaduto è nelle viscere, vigila, mette in discussione, tende trappole. La messinscena lascia affiorare l’amarezza e lo struggimento propri di chi è sospeso tra un’epoca irrecuperabile e un equilibrio che tarda a concretizzarsi. Resistere, tuttavia, è inutile: il passato non è, come è stato scritto, un secchio di cenere, ma una porta che attende pazientemente di essere aperta. Le polpette materne conservate in freezer, cucinate e amorevolmente mangiate dai protagonisti, alludono alla necessità di nutrirsi di sentimenti creduti morti per (illudersi di) ricominciare. Il telefono ora può squillare quanto vuole, per annunciare il decesso della donna; tanto, “tutto ha un’anima e tutto rimane”.