martedì 26 luglio 2022

“A’Pa”, la musica di un uomo assetato d’amore

 

“Mentre ascoltavo Bach, la stanza spariva…torturato dal disagio elementare di una bellezza reale”. La forza vivificatrice della musica non poteva sfuggire al poeta di Casarsa, che attinse di continuo al suo fascino. Per questo, nell’ambito di Salerno Classica, il Duomo di Salerno ha ospitato “A’Pa, Pasolini Suite 100”, emozionante omaggio a questo spirito libero del Novecento, in cui il legame tra parola e suono ha assunto la concretezza di una vera e propria messinscena.  Attraverso poesie, lettere, aneddoti, fotografie, Gabriele Zanini ha guidato il pubblico tra le scelte e le ossessioni dell’intellettuale: l’incontro rivelatore con Pina Kalc, che lo ha indotto a trovare, appunto, in Bach e nel violino una delle proprie cifre espressive; l’irridente vitalismo delle borgate, lontane anni luce dalle convenzioni borghesi e, agli occhi dell’autore di “Ragazzi di vita”, luogo del sublime che affiora dal degrado e ispira “Cristo al Mandrione”; le donne con cui ha condiviso tanto di sé. Oriana Fallaci gli diceva “La malinconia te la porti addosso come un profumo”. Laura Betti, che si era assunta il gravoso compito di farlo ridere, ricordava di poter aspirare a essere, dato il proprio peso, non il bastone, ma la palla della sua vecchiaia. Maria Callas, inizialmente considerata espressione dell’odiata borghesia e poi perfetta incarnazione della mitologia fisiognomica del regista in “Medea”, lo invitava a rinascere e a ricordare che “la vita è creazione, è dignità”. Lo sguardo pasoliniano non sapeva rinunciare alla profondità più spudorata, sia che fosse rivolto alle proprie inquietudini, come mostra la dolente nudità di “Supplica a mia madre” e “Senza di te tornavo”, sia che puntasse a “La dolce vita”, rievocata sul palco nella colonna sonora, insieme  a quella di “Amarcord” e di “Otto e mezzo”. Al capolavoro del 1960 Pasolini aveva contribuito, in sede di sceneggiatura, senza che le sue scelte fossero accettate: di qui la colpevole mancanza del suo nome nei titoli di testa. Ne scrisse comunque con lucidità spiazzante: “Difficile immaginare un mondo più perfettamente arido”, in cui comunque “tutti i personaggi siano pieni di felicità di essere”. Francesco Galizia (fisarmonica e sax soprano) Pietro Verna (voce e chitarra), Antonio Palazzo (pianoforte e arrangiamenti) e il Quartetto d’archi Cecile hanno eseguito, con maestria coinvolgente, brani che riflettessero lo spirito dello scrittore. Oltre alla Suite n.1 in Sol maggiore, BWV 1007 di Bach e il Prelude, Op.18 di Cesar, “Generale” di De Gregori, dato il profondo orrore dello scrittore per la guerra, “Futura” di Dalla, per contrapporre l’amore a ogni aridità, “C’è tempo” di Fossati e “Le mie parole” di Bersani, a indicare il rapporto complesso tra la propria essenza e un contesto da decifrare, “La leva calcistica della classe 68”, a ricordo dell’amore per il calcio. Non potevano mancare, con “A Pa” e “Una storia sbagliata”, i tentativi di De Gregori e De Andrè di mantenere viva la memoria di quello che la Betti definiva “un uomo braccato, respinto, ma assetato d’amore”.

martedì 19 luglio 2022

Napoli, una lettura in chiaroscuro

 

Raccontare la città di Eduardo, madre di ogni immaginario, senza restare intrappolati nel clichè, è impresa alquanto difficile. Non è pienamente riuscita a “Bastimento Napoli”, scritto da Sergio Mari e Fabio Marone con gli arrangiamenti di Giovanni Liguori, nell’ambito della seconda edizione di Salerno Classica. Lo spettacolo, in scena presso il Duomo, ha unito musica, danza e recitazione nel presumibile intento di illustrare lo spirito partenopeo attraverso voci diverse dello stesso linguaggio, ma il solo Ensemble Lirico Italiano, diretto dal Maestro Francesco D’Arcangelo, ha rappresentato la vera ossatura del progetto. Melodie amatissime, da “Cicirinella” alla Danza rossiniana, a “Je te vurria vasà”  hanno preso corpo attraverso i luminosi timbri del soprano Annalisa D’Agosto e Fernando Galano, voce e chitarra, quest’ultimo impegnato in un’esecuzione non  sempre calibrata con il ritmo dell’orchestra. Non è un caso che “Tu m’aje prommiso quattro moccatora”, canto delle lavandaie del Vomero risalente alla fine del 1200, abbia iniziato e concluso lo spettacolo attraverso i gesti antichi della danzatrice Alessandra Ranucci, china su una tinozza a lavare panni proprio come un tempo : il mondo napoletano, infatti, sa che quel che è stato non muore mai del tutto, ripercorre il qui e ora. Mari, prodottosi a propria volta nella danza senza riuscire tuttavia a trasmetterne il fascino, ha incarnato diversi personaggi : Masaniello, il cui invito a prendersi la piazza ha coinciso con l’ingresso degli orchestrali sul palco, dato che la musica è libertà; il lungimirante impresario Domenico Barbaja, pronto a murare nello studio il vivacissimo Rossini, pur di indurlo a rispettare gli impegni presi; Donizetti innamorato dei vicoli partenopei in cui cercare la poesia;  il fatuo Gagà e, naturalmente, il Pulcinella assetato di vita anche nell’incubo della guerra. Qui, però, lo spettatore ha avuto la sensazione di trovarsi dinanzi a uno strumento che suona sempre la stessa nota : un approccio nervoso, febbrile al ruolo, ora trattenuto, ora più evidente, al servizio del proprio narcisismo più che della versatilità richiesta dall’interpretazione. L’urgenza di lasciare il proprio segno ha, infatti, tolto il respiro al momento della drammatizzazione. Il colmo della retorica è straripato nell’omaggio finale a Pino Daniele. L’aver riadattato all’occasione “A livella” di Totò ha reso il celebre cantautore una presenza benevola a cui chiedere di essere ancora un riferimento per tutti coloro che amano l’arte e, di conseguenza, vivere. Una scelta più che mai capziosa, volta a sollecitare una facile commozione, ma che si è risolta in un esito inadeguato al livello del tema. È mancato il senso dell’equilibrio che richiede l’arte napoletana, dove ciò che emoziona può divenire in un attimo grottesco. Su tutto è svettata la musica, il dono prezioso di una città meticcia che sa sottrarsi a stanchi stereotipi.

venerdì 29 aprile 2022

Upcycle, la nuova vita degli oggetti

 

Il concetto di performance è immediatamente associabile a un palcoscenico, ma gli oggetti ne sono a loro volta attraversati con una feroce rapidità. Il consumismo, infatti, esige che tutto ciò che è utilizzato sia immediatamente rimpiazzato da qualcosa che subirà la stessa sorte, con una voracità distruttiva che ha il volto dell’alienazione. Il mondo artistico può tuttavia offrire una via di scampo, come dimostra “Upcycle. Quando l’arte reinventa il mondo”, l’esposizione a cura di Silvio Mignano e Antonello Tolve, in programma dal 5 maggio al 31 luglio 2022 presso la Residenza dell’Ambasciata d’Italia in Elfenstrasse 14 a Berna. La collettiva ha il sostegno di numerosi enti (l’Ambasciata d’Italia a Berna, in collaborazione con il Consolato Generale d’Italia Zurigo, il Consolato Generale d’Italia Lugano, il Consolato Generale d’Italia Ginevra, il Consolato d’Italia Basilea e l’Istituto Italiano di Cultura Zurigo, la Fondazione Filiberto e Bianca Menna di Salerno/Roma, il TOMAV experience di Ancona e la rivista ArShake Reinventing Technology di Roma) e propone le opere di Mrdjan Bajic, Elena Bellantoni, Tomaso Binga, Manuel Canelles, Filippo Centenari, Fabrizio Cotognini, Valentina De’ Mathà, Katharien De Villiers, Isora Degola, Sabine Delafon, Ulrich Egger, Matteo Fato, Giorgia Mascitti, Claudia Giannuli, H.H. Lim, Patrizia Molinari, Deborah Napolitano, Laura Paoletti, Francesca Pasquali, Marina Paris, Lamberto Pignotti, Enrico Pulsoni, Marco Raparelli, Fabrizio Sannicandro, Giuseppe Stampone, Giovanni Termini, Eugenio Tibaldi, Adrian Tranquilli, Fosco Valentini e Narda Zapata. Era il 1994 quando l’ingegnere meccanico Rainer Pilz coniò il termine upcycle, che non consiste semplicemente nel riutilizzare un materiale destinato all’immondizia, ma nel rivalorizzarlo, mutandolo in qualcosa che assume un peso ben più ampio rispetto alla funzione originaria. L’artista è da sempre colui che individua un volto nuovo nell’assodato e ne rivoluziona la percezione. Appare dunque naturale che i protagonisti dell’esposizione attuino un ripensamento della materia rifiutata dalla logica di mercato, arricchendola di significati ulteriori e rendendola nuova occasione di scoperta, dialogo, codificazione di categorie non asfittiche. L’oggetto, che conosce una nuova natura e recupera il suo spazio in un contesto, diviene, in tal modo, sfida alla possibilità che quello stesso contesto ha di definire se stesso. L’elemento, che non ha nessun diritto di cittadinanza nella logica capitalista dello sfruttamento e dell’annichilimento di quel che, fino a poco prima, è apparso indispensabile, si fa parte integrante di un discorso di libertà creativa e di nuove modalità comunicative. Si apre, infatti, contemporaneamente, al passato e al futuro, accogliendo significati sempre rinegoziabili lontano da ogni ottica meramente commerciale. L’ambasciata d’Italia a Berna ospita la mostra nell’ambito dell’ampio programma Residenza delle Arti e la scelta non può non avere valore simbolico. Le opere degli artisti, infatti, possono essere davvero considerate ambasciatrici di un nuovo e necessario legame con una materialità che riflette e modifica il rapporto tra chi utilizza e ciò che è utilizzato, riscattandolo dalla prigionia del pensiero lineare.

 

venerdì 1 aprile 2022

“Occhi gettati”, i fantasmi di Enzo Moscato

 


Accontentarsi è facile: la meschina superficie della vita appare sufficiente a molti. C’è invece un altrove che deve debordare, dilagare, dissacrare. Percorso corale tra quello che non si rassegna a scomparire, “Occhi gettati” di e con Enzo Moscato impegna un generoso cast (Benedetto Casillo, Giuseppe Affinito, Salvatore Chiantone, Tonia Filomena, Amelia Longobardi, Emilio Massa, Anita Mosca, Antonio Polito) che incarna devotamente le ossessioni dell’autore: una Napoli affollata da corpi e memorie, la contesa tra violenza e desiderio, la purezza delle creature sfruttate e dimenticate. Se è vero che ogni artista veglia sul confine continuamente attraversato dall’essere e dal nulla, Moscato, sacerdote di un rito lontano da ogni divinità e non certo per questo meno sacro, evoca presenze e crea scenari con un linguaggio corposo e cerebrale, nobile e sudicio, nutrito di influenze francesi, spagnole, tedesche, perché Napoli è babele tenera e sfrontata, da percorrere secondo mille latitudini. I fantasmi che abitano il palcoscenico sono legati a un preciso immaginario: il femminiello che vuole rivelare a tutti la sua relazione con Facc’ i San Gennaro per vendicarsi del suo abbandono; la janara che invoca “pezzient e cazz arrezzat” perché l’aiutino a legare per sempre a sé l’amante; un testimone della guerra, che assiste al dialogo impossibile tra l’ottusa aridità dei combattenti e l’innocenza di chi parla solo con Dio; Totore che incita i popolani a gettare sui “crucchi” tutto ciò che hanno “co sta bella leggerezza da indifesi”; la prostituta Luparella, invocata come una santa, un pezzo del passato da rivivere. È del resto vero che “Quello che esce dalla bocca di una baldracca è sempre come foglio di Vangelo”, perché gli ultimi sono troppo lontani dalle convenzioni borghesi per non essere vicini alla verità. Gli spiriti fragili e sarcastici che tornano a disturbare la cecità dei vivi rappresentano, in ogni caso, sensazioni e visioni che appartengono a qualunque luogo e tempo e proprio per questo tra loro si ritrova il poeta, “il pazzo”, “il semivivo”, che s’inoltra nelle sabbie mobili della cosiddetta normalità, che giunge a dare alle parole una forza che tenti di combattere la vacuità. Ogni incursione di Moscato nel ventre della città è anche riflessione sulle suggestioni del segno, elemento refrattario ai confini, dato che “tra scrittura e amore ci sono abissi che hanno le stesse vertigini”. Ecco allora che “gli occhi gettati” del titolo non rimandano soltanto all’antica pratica del malocchio o all’inseguimento di quel che toglie il sonno, ma narrano l’esperienza che eccede il limite, la percezione di chi sta “sussurrando l’insacro” e cerca la bellezza che è sempre “esca della crudeltà”.

 

mercoledì 30 marzo 2022

Ovadia e Vergassola, il sano sarcasmo dell’ebraismo

 

Se un ligure pretende di mettere nel sacco un ebreo, casca decisamente male : quattromila anni non passano certo invano. Se però l’interlocutore sa burlarsi delle proprie disgrazie, non è forse pronto a farsi convertire? Accolto da un pubblico divertito e partecipe alla Sala Pasolini, “Un ebreo, un ligure e l’ebraismo” ha visto all’opera Moni Ovadia e Dario Vergassola sugli aspetti di una religione (o meglio, di un modo di vivere) che sa sorprendere chi voglia buttarsi alle spalle usurati pregiudizi e stereotipi incancreniti.  Ovadia, affabulatore incantevole, inanella storielle legate ai contesti più disparati (il sesso, la famiglia, il commercio, la persecuzione) accomunate da battute fulminanti che lasciano piacevolmente interdetto l’ascoltatore. Vergassola, che ci tiene a precisare che è maschio ma non esercita, attua un sarcastico controcanto alla narrazione dell’artista, che si apre a tutte le suggestioni possibili esattamente come l’Yiddish, lingua anarchica per eccellenza che accoglie ogni vocabolo recepito nella sua lunga storia (boss è parola che viene da lì, per esempio), come si conviene all’idioma dell’esilio. Tra gli ashkenaziti presenti in Germania, i sefarditi in Spagna e i Romanioti nelle isole greche, non si può davvero dire che quello ebraico sia un mondo statico: una tradizione di cui essere gelosi, ma anche capacità di coglierne i lati paradossali: un sentimento della dignità, ma anche capovolgimento malizioso di atti e figure considerati mirabili. L’ironia è, in effetti, l’arma più potente che gli Ebrei abbiano mai usato contro i nemici e la propria parte oscura. Sono il popolo pronto ad accogliere il decalogo proposto da Dio, una volta compreso che è gratis. Osannano la madre, che difende in ogni modo il figlio, ma la trasformano, in particolare nella cultura americana, in una creatura castrante, che non va per il sottile quando deve dettare legge al suo figliolo. Hanno il pragmatismo dei fratelli Gershwin che, alla domanda se nelle loro opere nasca prima la musica o il testo, rispondono all’unisono “Il contratto”; il sarcasmo di Rubinstein che, a chi chiede perché i pianisti ebrei siano pochi, risponde “Prova tu a fuggire con un pianoforte sulle spalle”; la sagacia di Abrahmovic che, dovendo aggiungere una didascalia alle foto in cui Chruscev è felicemente circondato da maiali, scrive “Il terzo da sinistra è il compagno Chruscev”. Valore aggiunto, il mondo ebraico non è sessuofobico. Con buona pace delle beghine cattoliche, il sesso è un dono di Dio da accogliere con favore, in cui l’uomo deve alludere e la donna può chiedere esplicitamente. “La vera educazione viene dalla madre – ricorda Ovadia- Il grembo materno difende da ogni sventura e l’ebraismo non contempla lo stupro etnico”. Chi segue i due protagonisti nel loro percorso comprende quale sia il vero viaggio che non può attendere : oscillare senza remore tra arguzia e disincanto.       

giovedì 24 marzo 2022

“Ditegli sempre di sì”, le parole disabitate

 

Ipocrite, ambigue, sfuggenti. Le parole non sono mai solamente se stesse ed è pazzia sperare che lo siano. Spettacolo giocato su un accorto senso del ritmo e su un grande affiatamento dell’intero cast, “Ditegli sempre di sì” di Eduardo De Filippo ha visto impegnata, per la regia di Roberto Andò, la compagnia Elledieffe al Teatro Verdi di Salerno. Le note de “La forza del destino” aprono e chiudono la messinscena con chiaro riferimento all’inesorabilità della condizione umana. Chi, infatti, non considera il linguaggio come una strada aperta verso l’atro, ma come semplice riflesso di una nevrosi, di un alibi, di un opportunismo, parte da se stesso e a se stesso ritorna e le distanze aumentano vertiginosamente. Le parole appaiono di fatto disabitate, sradicate da un senso condiviso. La commedia, a quel punto, è indistinguibile dalla tragedia, come mostra la vicenda di Michele Murri (il miglior ruolo di Gianfelice Imparato, in equilibrio perfetto tra crudeltà e ingenuità), uscito dal manicomio, ma non rinsavito, e destinato a portare scompiglio nella vita della sorella (Carolina Rosi) per l’incapacità di cogliere un lato nascosto nella comunicazione. Un amico  in contrasto col fratello si dichiara morto agli occhi di quest’ultimo? Eccogli arrivare una gigantesca corona di fiori. La sorella del protagonista fa gli occhi dolci al padrone di casa? Appare scontato che voglia convolare a nozze con lui. Un personaggio immagina una vincita favolosa? È già facoltoso agli occhi di Michele. Se quest’ultimo è un elemento di disturbo, non si può tuttavia affermare che il contesto attorno a lui sia sano. All’inizio della rappresentazione, le altre figure sono immobili sul proscenio, mentre Michele avanza con lenta circospezione sullo sfondo; la stessa con cui si muoverà la cameriera nell’ultimo atto, durante la gita in campagna, come se gli interpreti vivessero in una sorta di bolla che li taglia fuori dalla realtà. L’asetticità degli ambienti fa pensare a una casa di cura. Gesti e comportamenti sono spesso grotteschi, eccessivi, plateali, evidenziando quanto la normalità (ammesso che tale idea esista) sia decisamente estranea a quel che accade sul palcoscenico. Ciò che si dice, quindi, è scisso dalla concretezza, dall’autenticità, perché non ci si sottrae alla nebbia delle convinzioni radicate e dei falsi giudizi. È proprio vero che la parole sono pietre: sanno creare muri impossibili da scalare.

“Elengazissima”, lo stile secondo Drusilla Foer

 

Mica facile muoversi in un mondo piatto e volgare. Meglio allora rendersi icona di stile, felicemente lontani da ogni supponenza, tra Hollywood e la dignità delle signore mature, ma tutt’altro che propense a fare tappezzeria. Carisma da vendere e notevoli doti istrioniche, Drusilla Foer, al secolo Gianluca Gori, ha conquistato il pubblico del Teatro Verdi di Salerno con “Elengazissima”, il recital, su direzione artistica di Franco Godi, al fianco del pianista Loris Di Leo e di Nico Gori al clarinetto e al sax. Tra gin tonic come unico antidoto all’orrore della foto di un padrone di casa orgogliosamente in posa con Bruno Vespa e il ricordo struggente di un amico “fuori di chiave”, tenacemente legato all’amante scomparsa, la protagonista crea i tasselli di una vita sospesa tra una prospettiva ironica e malinconia. Una nonna all’apparenza tanto rigida da meritare una nicchia di Notre Dame e in realtà scatenatissima, un marito da ricordare con tenero trasporto, la curiosità di vivere tutte le esperienze possibili concorrono a tratteggiare un personaggio che sa imporsi con piacevolezza, complice la superba voce con cui interpreta grandi classici della canzone, da “I will survive” a “Almeno tu nell’universo”, da “Canto (anche se sono stonato)” a “Sognando”. Siamo certo a distanze siderali da Paolo Poli, quando la scelta di proporsi en travesti era davvero uno scardinamento sistematico di pregiudizi e ottusità, e il garbo ammiccante dei testi, proposti tra un brano e l’altro, non li rende certamente incisivi,  ma il richiamo all’unicità (parola preferita a diversità, perché in nessun modo ghettizzante), al diritto a vivere liberamente la propria identità è espresso in modo coinvolgente. Accontentare la platea e al tempo stesso lanciare un sasso nello stagno; difendere ciò che segna uno scarto, ma senza allontanarsi davvero da un’ottica borghese. In una parola, leggerezza appena pensosa. Madame Foer dimostra chiaramente che l’artista è un bugiardo sincero, col quale vale sempre la pena stare al gioco.

“Il marito invisibile”, le derive del virtuale

 

Gentile, affascinante, capace di solleticare e di esaudire ogni desiderio tra le lenzuola, sempre pronto a trovare le parole giuste. Quale donna non si precipiterebbe a rotta di collo all’altare con un tale prodigio d’uomo? Dinanzi a tante doti, il fatto che non sia possibile percepirlo sul piano visivo diventa a dir poco trascurabile. Commedia agrodolce sulle derive del virtuale, “Il marito invisibile”, scritto e diretto da Edoardo Erba, ha aperto con successo la stagione di prosa del Teatro Verdi. Maria Amelia Monti (Fiamma) e Marina Massironi (Lorella) sono il punto di forza dello spettacolo, strutturato in funzione della versatilità e del sapiente senso del ritmo che caratterizzano le protagoniste. La storia è ambientata al tempo del lockdown, quando il flusso ininterrotto di video, post, foto, messaggi di ogni genere è divenuto una seconda pelle: non a caso, i brevi intervalli tra una fase e l’altra della vicenda sono scanditi dalla proiezione di tutto quello che le due donne vedono sul proprio cellulare, come se fosse impossibile restare, anche solo per un attimo, sole con i propri pensieri. La messinscena sottolinea subito l’ambiguo rapporto tra il reale e ciò che viaggia in rete: alle spalle delle interpreti domina il blue screen, mentre, al di sopra di esse, due schermi permettono allo spettatore di osservarle, come se partecipasse, a sua volta, alla loro videochiamata. Che dunque il video s’imponga prepotentemente nella fruizione dell’allestimento, è già un chiaro indizio della pervasione inarrestabile, e non di rado tirannica, della dimensione dei social. Elemento d’inquietudine, sia pur nella leggerezza dell’approccio, è inoltre il blue screen, che mostra di fatto il carattere fittizio dello spazio in cui le due amiche si muovono, rendendo le loro case (luogo privilegiato del vissuto) artificiali quanto la comunicazione on-line. Il marito di Fiamma, che non compare mai in scena e non la distinguerebbe da una suppellettile, dato il loro noioso e lungo matrimonio, non è certamente più reale di Lukas, il coniuge che dà il titolo allo spettacolo e conquista sia l’esuberante Lorella che la razionale e caustica amica. Se un seduttore invisibile crea sensazioni più che concrete, non solo la fame di emozioni rende superfluo distinguere materiale e immateriale, ma diviene facile pensare che il corpo (con le sue fragilità, i suoi limiti, i suoi abbagli) debba essere superato, fino a divenire libera, incontenibile energia. Lukas è un bluff : tradisce esattamente come un qualunque borghese, ma il suo rapporto con gli istinti non teme vincoli di sorta. Il definito risulta così ampiamente surclassato dall’indefinibile. Ecco allora che la smaterializzazione coinvolge prima Lorella: la dissoluzione della sua immagine inizia nel momento in cui comprende che, nonostante recriminazioni e suppliche, il marito non tornerà da lei. Mutarsi in un mare di pixel significa abbandonare per sempre la logica relazionale in cui si tenga il conto del dare e dell’avere, scegliendo dunque un modo nuovo di essere. Fiamma, che si è data a Lukas per poi respingerlo, dato l’affetto per Lorella, la segue in questo destino : chi può resistere al richiamo della libertà? Nella conclusione, le due sono ormai solo una scritta su un dispositivo, ben liete di essere ormai lontane da qualunque concetto di spazio e di tempo. Un lieto fine? A prima vista, si direbbe di sì, dato che la fuga oltre la materia è occasione di gioia. La pièce non vuole certo demonizzare quel cordone ombelicale che ormai lega noi tutti al virtuale, ma invitare a guardare con ironia agli sviluppi paradossali che un simile legame comporta. Capovolgere il dominio assoluto della tecnologia in vittoria dell’umano (Lorella e Fiamma affermano infattti che sono tantissimi ad abitare il regno dell’invisibile e a esserne deliziati) esorcizza la frustrazione della solitudine, ma non la cancella. Il felice delirio del sapersi parte della galassia virtuale riflette comunque il fallimento delle relazioni, l’incapacità di rendere fertile un contatto che non sia filtrato attraverso strumenti onnipresenti. Il blue screen, in cui siamo avvolti senza accorgercene e senza nessuna avvisaglia, è la vanità di una vita che non sa bastare a se stessa, diventando un fantasma più evanescente di quello che uno schermo ci restituisce.    

sabato 19 febbraio 2022

“Mine vaganti”, la scaltrezza dell’elegia

 

“Andavo a teatro perché volevo essere turbato continuamente”. La frase di Toni Servillo non appartiene certo al pubblico di Ferzan Ozpetek, il più rassicurante dei registi in circolazione. L’allestimento del suo film “Mine vaganti” è stato, infatti, calorosamente accolto al Teatro Verdi di Salerno. Ozpetek possiede la scaltrezza dell’elegia : ogni conflitto, anche il più tormentato, è addolcito da toni malinconici e intimisti; ogni divario, per quanto profondo, stempera la polarizzazione nella nostalgia dell’avvicinamento. La fortunata pellicola, da cui lo spettacolo è tratto, affronta temi non semplici (la passione repressa, l’ansia di libertà, il peso del ruolo sociale, la fragilità degli equilibri) con un approccio insinuante, perfetto per lo spettatore che si accontenti di un’epidermica empatia. La messinscena ha i suoi punti di forza nell’energia scanzonata con cui Francesco Pannofino connota Vincenzo, il padre del protagonista, nel carisma di Iaia Forte, la madre borghese che tenta invano di difendersi dalle minacce alla routine, nella dolcezza della nonna interpretata da Simona Marchini, nell’accattivante dominio del palco da parte di Mimma Lovoi, Francesco Maggi ed Edoardo Purgatori, la cameriera e gli amici di Tommaso (Erasmo Genzini), la quintessenza del bravo ragazzo che catalizza un’immediata simpatia. Gli interpreti si muovono anche in platea, alludendo  a un tema caro al regista turco : la famiglia, intesa come libera comunanza di affetti, cancella la distanza tra chi recita e chi assiste, mentre i tendaggi rimandano al velo della memoria che Tommaso ripercorre. Esiste tuttavia un ingombrante convitato di pietra: il pensiero del film induce a considerare ciò che è stato perso per strada. Lo spessore umano della cameriera scompare nel passaggio dallo schermo al proscenio. Alba, Luciana, Antonio e Marco, interpretati rispettivamente da Roberta Astuti, Sarah Falanga, Carmine Recano e Luca Pantini, non possiedono più la sana inquietudine rivelata nel lungometraggio, così come l’esibizione delle drag queen è ben lontana dal delizioso esibizionismo della scena filmata in spiaggia. Ogni forma artistica ha evidentemente diritto al proprio linguaggio, ma resta la sensazione di una copia sbiadita e talora didascalica. Ciò rende perciò prezioso il momento in cui l’intero cast, come dominato da un sogno, intona “Una notte a Napoli”: dopotutto, sia pur con prevedibile astuzia, è di desiderio che stiamo parlando.