mercoledì 16 giugno 2021

“La manutenzione della solitudine” , amore e libertà

 

La natura maestosa e violata, l'importanza di un gesto, la fatica di vivere. Spaziano tra numerose tematiche i versi di Giuseppe Semeraro, che, accompagnato dalle musiche ironiche e calde di Leone Marco Bartolo sotto il segno di Principio Attivo Teatro, ha proposto “La manutenzione della solitudine” al Chiostro Ave Gratia Plena. Lo spettacolo ha segnato la quinta tappa di Mutaverso, il progetto a cura di Erre Teatro di Vincenzo Albano. Semeraro sa creare un'immediata empatia col pubblico, che ha la sensazione di accogliere le confidenze di un amico venuto da lontano, eppure capace di esprimere pensieri fin troppo familiari a chi lo ascolta. La profonda ammirazione per ciò che libera da menzogne e intralci (“Maestra è la vita senza promesse”), per un'idea di esistenza che chiede solo di esprimere la propria luce, s’intreccia all'amara consapevolezza di quel che soffoca e insterilisce, per cui il destino è “affanno inutile”, “domanda con troppe risposte”, “verme segreto”. Un poeta, d'altro canto, non teme di assecondare pienamente la propria percezione, che lo conduca alla sofferenza o a ritrovarsi nel fluire delle cose (“Se non ci fosse la gravità, le mie parole cadrebbero dalle pagine”). Chi scrive avverte, inoltre, la necessità di offrire coraggio e sostegno al lettore, quando si misura con la perdita e con l'ostilità (“Non prestare carne alla pena ”). Che ogni esistenza sia occasione irripetibile per donarsi a se stessi e agli altri è visione molto cara all'autore, che esorta, in uno dei suoi testi, a non cedere al sonno e a lasciarsi trasportare da una notte che sia festa gioiosa, momento di ebbra condivisione. Perfino il Salvatore preferirebbe mille volte essere semplicemente un uomo, invece di essere emblema di gloria spirituale, come  afferma lui stesso in “Due parole in croce” (“Volevo meritarmi la vita, non il paradiso”), in cui la “pietà per le giarrettiere della Chiesa” è presa d'atto di quanto sia deleterio dimenticare o travisare la propria umanità. Affrontare i giorni che si susseguono, tuttavia, resta impresa ardua, come mostra “La ballata del poeta disoccupato”, tragicomica vicenda di chi, dedicandosi alla Musa, può tranquillamente aspettare secoli la meritata somma di disoccupazione. La vena caustica di Semeraro è particolarmente degna di interesse, come mostra la sua composizione dall'eloquente titolo “Natale di merda”, dove, tra “quintali di carne morta” e “santi invidiosi di pastori anarchici”, l'alienazione da festa comandata è restituita in tutta la sua capacità di stringere alla gola. E il pubblico, a cui attori e poeti dedicano tutto? Non vuole essere disturbato nel suo conformismo, nei suoi riti rassicuranti, visto che desidera “poesie al microonde” e “un teatro senza assassini”, mentre “di pubblico in questo Paese resta solo il culo degli artisti”. Eppure non si può fare a meno di mettersi in gioco, anche quando tutto sembra perduto , come nel “Monologo dell' amore e del parcheggio”, vana e continua ricerca di parole che sappiano finalmente mescolare le carte. Nessuno scrittore può proporre strategie risolutive per guardare in faccia, senza soccombere, quello che opprime, ma può ricordare l'essenziale: il rapporto con le proprie origini, con l'elemento naturale degradato a decorazione di appartamento, come in “Un ulivo a Milano”, che rimpiange “la giostra di lucertole sul tronco” dal sedicesimo piano di un attico, dove è stato collocato alla tenera età di centoventisette anni. Gli scenari della natura racchiudono in sé il miracolo di un'energia che, generosamente, si rinnova, ma l'uomo, appiattito sul proprio egoismo, preferisce distruggere. Rimane acerbo il rimpianto dei magnifici ulivi uccisi, quando “c'era un bosco di giganti/con la faccia storta/sorridevano al mare”.   


Un giorno bianco” , il candore del rifiorire

 


Se credete che bastino quattro mura e qualche mobile a fare una casa, siete fuori strada : abitare infatti significa scoprirsi parte di un tutto che vive e pulsa al di sopra di ogni calcolo, schema, categoria. Proprio dalla domanda su cosa sia una casa rivolta al pubblico parte la performance “Un giorno bianco”della compagnia Bartolini/Baronio - 369 gradi, allestita presso il Chiostro Ave Gratia Plena nell’ambito di Mutaverso, il progetto teatrale di Vincenzo Albano. Tamara Bartolini, che cura la drammaturgia sulle musiche di Michele Baronio, guida gli spettatori alla scoperta del libro di Gilles Clement, “Ho costruito una casa da giardiniere”, rendendo il volume un'occasione per riflettere su tematiche oscurate dalla pandemia : il concetto di comunità, il luogo inteso come incontro, la tutela del bene pubblico che sostanzia il proprio ruolo nel mondo. Condivisione è la parola chiave, come mostrano le scelte della messinscena : le immagini antiche e recenti della città e le istantanee di incontri e di gruppi impegnati nella tutela dell'ambiente, proiettate da un computer, la presenza del collettivo Blam, ovvero Ludovica La Rocca e Alessia Elefante, architetti che, nel recupero degli spazi pubblici, mirano alla valorizzazione della socialità in ogni sua forma, la concezione degli artisti come giardinieri, che creano qualcosa di nuovo insieme a chi vuole ascoltarli, la scelta stessa dei brani musicali, come “Amara terra mia” di Domenico Modugno e “Quello che” dei 99 Posse, in cui le coordinate spaziali diventano emotive. Quando Gilles Clement , verso la fine degli anni Settanta, decide di creare una casa in cui sia la natura a fare da guida e tutto si svolga all'insegna del sole, del corpo, dell'ascolto del paesaggio, sta assestando un colpo poderoso a una fede infausta : quella nell'antropocentrismo. È la pretesa assurda e cieca che ogni cosa sia funzionale all'uomo, il “maldestro fantoccio”, per dirla con l'autore, a inaridire e distruggere qualsiasi legame con il contesto naturale. Ridurre a se stessi il molteplice, il possibile, il misterioso, è un grottesco suicidio lontano dalla percezione dei più , come dimostra la vana visita dei gendarmi alla dimora, troppo preoccupati di trovare qualcosa da combattere per capire. La passione della Bartolini, che intreccia la pagina scritta e le sensazioni di chi riconosce la forza dell'accoglienza e del dialogo (il riferimento a Mimmo Lucano è esplicito), permette di superare la staticità del reading per giungere a un confronto aperto a chiunque sappia leggere i siti come archivi di anime. “Se ti prendi cura di un posto, ne diventi responsabile”, ricorda Domenico Barone, a cui è affidato il Chiostro. È questa responsabilità che non va dimenticata: la compagnia Bartolini/Baronio  vuole ricordare a ogni passo che siamo custodi, non padroni della vita. Ecco dunque che il giorno bianco di Clement, in cui gli viene notificato uno sfratto e deve ricominciare altrove, non è solo quello dell'assenza e del silenzio, ma anche quello in cui liberarsi dalle catene della propria  identità e lasciarsi abbracciare da quell'ammaliante scenario che è la dimensione naturale. La stessa verso la quale si dirige, leggero, lontano da trappole e maschere, Peter Sellers nell'ultima inquadratura (proiettata anch'essa) di “Oltre il giardino”. La scelta di un giardiniere è lampante: non il bianco della stasi, dell’omologazione, ma il candore dell'inizio, del rifiorire. 

“La delicatezza del poco e del niente” , Roberto Latini tra macerie e desiderio

 

Si ha un bel riservarle sguardi distratti e pregiudizi, ma la poesia non è mai innocua. Perché dovrebbe, data l'impudenza con cui s'inabissa nel profondo? Le parole acuminate e suadenti di Mariangela Gualtieri trovano un interprete di rara intensità in Roberto Latini, applaudito al Teatro Ghirelli ne “La delicatezza del poco e del niente” nell'ambito di Mutaverso, il progetto di Erre Teatro di Vincenzo Albano. Muovendosi tra “Ossicine”, “Fuoco centrale”, “So dare ferite perfette”, Latini è del tutto distante dalle due trappole in cui può cadere un reading : la proiezione ambigua della propria vanità e un'assolutizzazione del linguaggio che renda invisibile l'attore. Si accosta alle liriche come un amante indifeso, pronto a pagare senza riserve il conto di una dedizione sofferta e inaggirabile. I piedi nudi su una giacca comunicano l'idea di un rituale in cui smarrire i confini tra parola e corpo. La voce distorta dal secondo microfono, che, attraverso echi, si alterna a quella ipnotica che percorre le liriche, allude a una percezione che non può che essere duplice, o meglio, non può che fare a pezzi l'usurata convenzione che distingue soggetto e oggetto, il tutto e ciò che lo compone. L'autrice, in continuo ascolto delle infinite contraddizioni della vita, conosce del resto molto bene “la solfa del tu e dell'io” che impedisce all'amore, cruciale nel suo itinerario poetico, di essere perfetta, incondizionata fusione pari al sale e all’onda, che non esistono l'uno senza l'altra e sono felicemente immuni dal concetto di confine. Il sentimento amoroso non è, agli occhi della Gualtieri, salvezza, consolazione o altrove che obnubila, per quanto la sensualità non perda mai il suo diritto di cittadinanza, ma scacco al nichilismo, abbagliante consapevolezza di come il tetro spettacolo del mondo abbia bisogno di nuovi occhi, prima ancora che di nuove leggi. “Tu non credere a chi tinge tutto di buio pesto e sangue”, scrive la poetessa alla  bambina per la quale dare tutti i giardini del proprio regno. L'urgenza di amare è la cifra nascosta del respiro, la forza benedicente senza la quale il fallimento prevale e ci si arrende all'impulso distruttivo che divora e sconvolge. Annientare è talmente semplice, muoversi tra macerie è così usuale per chi non abbia l'energia di interrogarsi e riscoprirsi che l'infanzia, la terra felice dell'immaginario, viene dimenticata e svilita, quando andrebbe recuperata, protetta, venerata con tutta la cura possibile. Il giuramento, che è leale fiducia in una vita al di sopra di comode categorie, è decisivo solo se pronunciato da un animo bambino. Giurare di difendere ciò che passa sotto silenzio, che è considerato insignificante e che invece origina tutto quel che vive, perché ovunque brilla la vita, è il patto che la scrittrice stringe con se stessa e con chiunque voglia seguirla alla ricerca del proprio senso, tra un'apparenza da decifrare e un vuoto in agguato, inseguendo una libertà capace di abitare ogni fibra. Sulle musiche di Gianluca Misiti, in cui ritmo incalzante e tonalità distese attirano lo spettatore verso la propria zona d'ombra, il non detto, il dimenticato, Roberto Latini non può che concludere la sua performance, animata da antitesi e coesione, desiderio e aridità, impotenza e fertilità della parola con “Sii dolce con me”, l’esortazione ad accogliere corpi e anime, finché non ci perderemo nel fluire luminoso dell'universo. “E quanta nostalgia avremo//dell'umano”.