martedì 26 luglio 2022

“A’Pa”, la musica di un uomo assetato d’amore

 

“Mentre ascoltavo Bach, la stanza spariva…torturato dal disagio elementare di una bellezza reale”. La forza vivificatrice della musica non poteva sfuggire al poeta di Casarsa, che attinse di continuo al suo fascino. Per questo, nell’ambito di Salerno Classica, il Duomo di Salerno ha ospitato “A’Pa, Pasolini Suite 100”, emozionante omaggio a questo spirito libero del Novecento, in cui il legame tra parola e suono ha assunto la concretezza di una vera e propria messinscena.  Attraverso poesie, lettere, aneddoti, fotografie, Gabriele Zanini ha guidato il pubblico tra le scelte e le ossessioni dell’intellettuale: l’incontro rivelatore con Pina Kalc, che lo ha indotto a trovare, appunto, in Bach e nel violino una delle proprie cifre espressive; l’irridente vitalismo delle borgate, lontane anni luce dalle convenzioni borghesi e, agli occhi dell’autore di “Ragazzi di vita”, luogo del sublime che affiora dal degrado e ispira “Cristo al Mandrione”; le donne con cui ha condiviso tanto di sé. Oriana Fallaci gli diceva “La malinconia te la porti addosso come un profumo”. Laura Betti, che si era assunta il gravoso compito di farlo ridere, ricordava di poter aspirare a essere, dato il proprio peso, non il bastone, ma la palla della sua vecchiaia. Maria Callas, inizialmente considerata espressione dell’odiata borghesia e poi perfetta incarnazione della mitologia fisiognomica del regista in “Medea”, lo invitava a rinascere e a ricordare che “la vita è creazione, è dignità”. Lo sguardo pasoliniano non sapeva rinunciare alla profondità più spudorata, sia che fosse rivolto alle proprie inquietudini, come mostra la dolente nudità di “Supplica a mia madre” e “Senza di te tornavo”, sia che puntasse a “La dolce vita”, rievocata sul palco nella colonna sonora, insieme  a quella di “Amarcord” e di “Otto e mezzo”. Al capolavoro del 1960 Pasolini aveva contribuito, in sede di sceneggiatura, senza che le sue scelte fossero accettate: di qui la colpevole mancanza del suo nome nei titoli di testa. Ne scrisse comunque con lucidità spiazzante: “Difficile immaginare un mondo più perfettamente arido”, in cui comunque “tutti i personaggi siano pieni di felicità di essere”. Francesco Galizia (fisarmonica e sax soprano) Pietro Verna (voce e chitarra), Antonio Palazzo (pianoforte e arrangiamenti) e il Quartetto d’archi Cecile hanno eseguito, con maestria coinvolgente, brani che riflettessero lo spirito dello scrittore. Oltre alla Suite n.1 in Sol maggiore, BWV 1007 di Bach e il Prelude, Op.18 di Cesar, “Generale” di De Gregori, dato il profondo orrore dello scrittore per la guerra, “Futura” di Dalla, per contrapporre l’amore a ogni aridità, “C’è tempo” di Fossati e “Le mie parole” di Bersani, a indicare il rapporto complesso tra la propria essenza e un contesto da decifrare, “La leva calcistica della classe 68”, a ricordo dell’amore per il calcio. Non potevano mancare, con “A Pa” e “Una storia sbagliata”, i tentativi di De Gregori e De Andrè di mantenere viva la memoria di quello che la Betti definiva “un uomo braccato, respinto, ma assetato d’amore”.

martedì 19 luglio 2022

Napoli, una lettura in chiaroscuro

 

Raccontare la città di Eduardo, madre di ogni immaginario, senza restare intrappolati nel clichè, è impresa alquanto difficile. Non è pienamente riuscita a “Bastimento Napoli”, scritto da Sergio Mari e Fabio Marone con gli arrangiamenti di Giovanni Liguori, nell’ambito della seconda edizione di Salerno Classica. Lo spettacolo, in scena presso il Duomo, ha unito musica, danza e recitazione nel presumibile intento di illustrare lo spirito partenopeo attraverso voci diverse dello stesso linguaggio, ma il solo Ensemble Lirico Italiano, diretto dal Maestro Francesco D’Arcangelo, ha rappresentato la vera ossatura del progetto. Melodie amatissime, da “Cicirinella” alla Danza rossiniana, a “Je te vurria vasà”  hanno preso corpo attraverso i luminosi timbri del soprano Annalisa D’Agosto e Fernando Galano, voce e chitarra, quest’ultimo impegnato in un’esecuzione non  sempre calibrata con il ritmo dell’orchestra. Non è un caso che “Tu m’aje prommiso quattro moccatora”, canto delle lavandaie del Vomero risalente alla fine del 1200, abbia iniziato e concluso lo spettacolo attraverso i gesti antichi della danzatrice Alessandra Ranucci, china su una tinozza a lavare panni proprio come un tempo : il mondo napoletano, infatti, sa che quel che è stato non muore mai del tutto, ripercorre il qui e ora. Mari, prodottosi a propria volta nella danza senza riuscire tuttavia a trasmetterne il fascino, ha incarnato diversi personaggi : Masaniello, il cui invito a prendersi la piazza ha coinciso con l’ingresso degli orchestrali sul palco, dato che la musica è libertà; il lungimirante impresario Domenico Barbaja, pronto a murare nello studio il vivacissimo Rossini, pur di indurlo a rispettare gli impegni presi; Donizetti innamorato dei vicoli partenopei in cui cercare la poesia;  il fatuo Gagà e, naturalmente, il Pulcinella assetato di vita anche nell’incubo della guerra. Qui, però, lo spettatore ha avuto la sensazione di trovarsi dinanzi a uno strumento che suona sempre la stessa nota : un approccio nervoso, febbrile al ruolo, ora trattenuto, ora più evidente, al servizio del proprio narcisismo più che della versatilità richiesta dall’interpretazione. L’urgenza di lasciare il proprio segno ha, infatti, tolto il respiro al momento della drammatizzazione. Il colmo della retorica è straripato nell’omaggio finale a Pino Daniele. L’aver riadattato all’occasione “A livella” di Totò ha reso il celebre cantautore una presenza benevola a cui chiedere di essere ancora un riferimento per tutti coloro che amano l’arte e, di conseguenza, vivere. Una scelta più che mai capziosa, volta a sollecitare una facile commozione, ma che si è risolta in un esito inadeguato al livello del tema. È mancato il senso dell’equilibrio che richiede l’arte napoletana, dove ciò che emoziona può divenire in un attimo grottesco. Su tutto è svettata la musica, il dono prezioso di una città meticcia che sa sottrarsi a stanchi stereotipi.