domenica 4 dicembre 2016

“Birre e rivelazioni”, l’amaro sapore della verità



Un pub accogliente, due chiacchiere davanti a un buon bicchiere, le canzoni di Simon e Garfunkel che raccontano il respiro libero di chi si apre al mondo, senza ipocrisie. Cosa desiderare di più rassicurante? Eppure è in ciò che è familiare che si scavano le crepe più profonde o si intrecciano –fuori binario- distanze impensate. Applaudito alla Sala Pasolini di Salerno nell’ambito del cartellone di Casa del Contemporaneo, “Birre e rivelazioni-atto unico in otto birre”, scritto, diretto e interpretato da Tony Laudadio al fianco di Andrea Renzi è un lento studiarsi che diventa duello verbale, in cui le parole spingono corpi e coscienze fino ai margini di un gioco al massacro, uno psicodramma che è seduzione del proibito e solitudine dell’assodato, destinato a crollare inesorabilmente sotto il suo stesso peso. Il proprietario del locale, Sergio (Renzi, che crea il suo personaggio con un’immediatezza ruvida e intensa ben lontano da qualsiasi eccesso o tentazione caricaturale) si crede un padre del tutto all’altezza del suo compito: si illude di comprendere il figlio Francesco, allievo di Marco (Laudadio, che sa conferire una forza spiazzante alla leggerezza e alla sicurezza del demiurgo), oscillando tra ironia e attenzione. Sarà il docente a togliergli il sonno: il ragazzo è anche attratto dagli uomini in una confusione di istinti e ha baciato Marco, divenuto il suo confidente. Sospetto, rancore, senso di inadeguatezza e bisogno di marcare il territorio si insinuano tra i due adulti che non si contendono solo il giovane, ma gettano sul tavolo tutto ciò in cui credono (la cosiddetta normalità per Sergio, la necessità di ascoltare la natura per Marco). La musica assume in questo contesto un valore fondamentale: esorcizza il disagio, libera il desiderio di esprimersi senza timore di giudizi o categorie, è rimpianto di una giovinezza in cui tutto era ancora possibile. E quando il professore costringe il padre all’umiliazione e ad offrirsi in cambio di un sostegno puramente psicologico al figlio, ormai alla deriva, ecco cadere la maschera: il docente si è finto aguzzino perché il suo interlocutore capisse il prezzo spesso terribile che la diversità è costretta a pagare. Hanno imparato l’uno dall’altro: il proprietario ha mostrato quanto conti per lui l’amore, il coprotagonista ha evidenziato il valore del rispetto. Forse diverranno amici o chissà altro.  E non è un caso che gli incontri siano scanditi dalle birre. Conoscere l’altro significa scendere in lui e in se stessi come l’alcol scende nel corpo. Farsi contaminare dall’altro è l’unico modo per comprendersi, anche a costo di sentirsi in balia di ciò che non si immaginava possibile. Come la birra accarezza la gola, così le parole devono impregnare la carne, finchè tra i pregiudizi nasca un’idea in cui ritrovarsi.

domenica 20 novembre 2016

La terra senza palco”, la vittoria di Francesca Romana Miceli Picardi



Davvero curiosa, la vita sul nostro pianeta.  Contraddittoria e fragile. O almeno, così la vede un’aliena che non poteva sopportare l’odore dell’umanità e ora invece è lieta di esserne impregnata.  Con la performance “Torno sulla Terra” , Francesca Romana Miceli Picardi ha vinto il contest “La terra senza palco” nell’ambito del Festival Linea d’Ombra.  La kermesse, a cura di Antonello De Rosa e presentata da Pasquale Petrosino presso la Sala Pier Paolo Pasolini, ha visto impegnate tre compagnie in esibizioni di venti minuti, prive di supporto audio e diretto contatto con il pubblico, ma in grado di avvalersi di videoproiezioni. Nella registrazione di comportamenti, ossessioni, debolezze che appaiono completamente nuovi nell’ottica di uno straniamento ironico ma tutt’altro che inoffensivo, gli atti dei nostri simili sono catalogati con un’immediatezza che polverizza ogni ambiguità (“Squali umani sbranano l’uomo senza far uscire il sangue”, “Guerra: gioco politico a squadre. Regole: vince il più forte. Premi: nessuno). E mentre alle sue spalle scorrono immagini di umani che annegano nella solitudine o cercano un contatto che li renda vivi, la protagonista, teneramente partecipe dietro il distacco della studiosa, si lascia sedurre proprio da ciò che non è catalogabile (la neve, la musica, il bisogno di ricominciare), lasciando intuire che concedersi un domani, un altrove è il primo passo verso la felicità, anche quando l’altrove è a un passo da noi. Muovendosi tra il “Viaggio in Italia” di Goethe e le “Ventimila leghe sotto i mari”, Cinzia Antifona, Valentina Greco e Francesca Pica hanno attraversato- come viaggiatrici incantate e al tempo stesso profondamente consapevoli- i quattro elementi in “Countdown” della Compagnia PolisPapin fino a giungere alla dissoluzione del mondo siglata dalle ultime parole de “La coscienza di Zeno”.  Fiori distrutti, sacchetti d’acqua nella veste, la dolente partecipazione al volo di Icaro (mentre le immagini alludono a disastri ambientali e avidità in figure stilizzate e in un cromatismo che diviene sempre più cupo) esprimono la necessità di fondersi con la natura e l’inesorabilità di un percorso di morte frutto di caparbio egoismo. “Dentro la scatola” di e con Antonio Grimaldi ha posto l’accento sulla fossilizzazione dei ruoli maschili e femminili, evocata da immagini di scheletri costretti in camicie di forza: non esiste infatti prigione più difficile da abbattere di un pregiudizio. Elvira Buonocore ha dato tutta se stessa alla donna che si muta in bambola per compiacere un uomo che la controlla attraverso un carillon e indossa una maschera di gorilla (dove le persone diventano oggetti, l’istinto non coglie altro da sè). Quando il carillon è chiuso, l’attrice si esprime attraverso battute di film famosi: il momento della crisi ne “L’ultimo bacio”, l’addio a Reth in “Via col vento”, dove la celebre frase “Domani è un altro giorno” è significativamente troncata proprio sull’avverbio “domani”,  la morte dell’androide in “Blade runner”. Le battute alludono tutte a una svolta dolorosa, a un punto di non ritorno e i tentativi del “giocattolo” di riscoprirsi donna sono destinati al fallimento. Il lancio di arti finti verso il compagno è un rabbioso rinfacciargli la sua visione a senso unico e quando si mette in vendita in un supermercato con tanto di megafono evidenzia la totale mancanza di dialogo in una realtà claustrofobica: non a caso la scatola che la contiene ha tutta l’aria di una bara. E il pianeta più difficile da conoscere resta la mente, così abile a tendere trappole lungo il proprio percorso.  

domenica 16 ottobre 2016

Alfonso Gatto, quando un autore non è “minimalis”



Gianni Rodari? “Uno squallido e fesso che scriveva in rima baciata”. Pasolini? “Un vanitoso a cui andava bene la povertà altrui”. Zucconi? “Anni in America e non capirne un cazzo”. La scuola italiana? “Serve a seppellire, non a entusiasmare”. Sfugge forse qualcosa all’impeto demolitore di Amleto De Silva? Alfonso Gatto, a cui ha dedicato una Lectio Minimalis presso la Chiesa di Sant’Apollonia a Salerno in occasione del quarantennale della morte del noto artista. Pur conoscendo benissimo gli infiniti modi con cui la parola può raggirare e deformare, Gatto “cercava attraverso essa i modi per capire l’uomo, cioè per amarlo”, scrivendo di tutto (architettura, calcio, resistenza), intuendo la fragilità del sogno americano, assaporando la vita più intensamente proprio misurandosi sempre con il pensiero della morte, anche nei versi più ariosi. “Io non credo di aver mai commesso viltà” disse in una lontana intervista. Non avrebbe potuto descriversi meglio: il suo linguaggio suadente, mai aggressivo, capace di spaziare tra i registri più diversi, complesso e limpido, diventava occasione per narrare l’esistenza da prospettive sempre nuove e sempre obbedendo a un’onestà intellettuale. E quando si legge che “Morire è una stagione, un’aria, un cielo”, si comprende che i poeti sono necessari quanto la luce, forti della propria anima contro chiunque pretenda di “aver capito il gioco”.

martedì 27 settembre 2016

Ultimo appuntamento per “Furor letterario e furor della scena”



Per Seneca è il selvaggio ottenebramento della ragione, il violento erompere degli istinti, ma nell’arte il furor diviene energia incontenibile che scompagina sentieri e approdi. Dopo aver indagato i legami tra il futurismo e Napoli con “Omaggio a Piedigrotta Cangiullo” di Ugo Piscopo e aver guardato al rigore pasoliniano nell’indagine del sensibile con Michele Schiavino e il suo “Ad memoriam e furiosi”, Alfonso Amendola e Pasquale De Cristofaro condurranno il secondo appuntamento di “Furor letterario e furor della scena” il 28 settembre, a partire dalle ore 18, presso la Sala Pasolini di Salerno. La manifestazione, in collaborazione con il Corso di Laurea di Scienze della Comunicazione dell’Università degli Studi di Salerno, il Liceo Artistico “Menna-Sabatini”, il Liceo Classico “Torquato Tasso”, le Edizioni Plectica, “I Confronti” e l’Associazione “Marco Amendolara”, esamina le possibilità e le scelte che il mondo artistico può individuare quando diviene urgente aprirsi a nuovi orizzonti con impudente tenacia. Emma Grimaldi e Alberto Granese, avvalendosi delle letture di De Cristofaro, discuteranno sul tema ”Inseguendo Orlando.  Ariosto e il suo poema immaginifico”.  Il Furioso è esperienza estetica unica nella sua narrazione onnivora e virtualmente infinita: il gioco spesso truccato di desideri e prospettive è tentativo di esorcizzare lo smarrimento dell’uomo cinquecentesco dinanzi alla sorte attraverso l’elogio dell’intelletto e della versatilità, una scelta con cui i nostri tempi non possono non confrontarsi. Alle 20 Andrea Manzi e Alfonso Amendola discuteranno con l’attore-scrittore Romolo Bianco su “Io di più” (Edizioni Pironi), dove la periferia napoletana diviene scenario di vite grigie in cui l’inatteso porta alla luce tensioni e sentimenti, mutando radicalmente lo sguardo su ciò che sembrava per sempre imprigionato in se stesso. È inutile innalzare difese: gli ostacoli crollano dinanzi a un furore che libera.

lunedì 6 giugno 2016

“MM &M”, quando il teatro si innamora del cinema



Non bisognerebbe mai raccontare niente, dice Renata Bosetti seduta alla scrivania da cui legherà per un’ora il pubblico a ogni sua parola. Rinunciare a raccontare significherebbe in realtà rinunciare a vivere e non lo si può fare quando si ha “un teatro nella testa”. Applaudito calorosamente alla Sala Pasolini di Salerno a conclusione di Mutaverso, la stagione diretta da Vincenzo Albano, “MM &M. Movies, Monstrosities and Masks”, diretto da Renato Cuocolo e interpretato da un’attrice di rara intensità, è un intreccio inestricabile di vissuto e di sogno che esalta non solo il fascino, ma la capacità di modellare anime e corpi che il cinema ha sempre posseduto. La sala cinematografica è sempre stata una dimensione in cui disfarsi della linearità: poter entrare quando scorrevano le ultime immagini della pellicola e vederla dall’inizio non solo rendeva speciale la consapevolezza di chi osservava, ma permetteva di capire come l’inizio e la fine non fossero che parole. E poiché ogni sguardo puntato sullo schermo vive il momento della messinscena come un altro non farebbe, ogni spettatore è dotato di una radiolina con auricolari, percependo la sensazione che la protagonista stia rivelando a lui solo memorie, ossessioni, aspirazioni, mentre la voce della Bosetti diviene la colonna sonora di quello che è a tutti gli effetti un film sempre nuovo e sempre diverso, in cui il passato di una ragazza che sognava tutti i ruoli possibili (da “La scala a chiocciola” a “Blade runner”) si trasforma in visione libera e onnivora della vita. La telecamera che proietta alle sue spalle, ingigantiti, gli oggetti della scrivania (riviste di cinema, medicine, mele, forbici, libri) e i volti ritagliati delle dive della settima arte e di sequenze celebri restituisce alle cose la loro voce segreta. Tutto ciò che intercetta l’esistenza, che sia un fotogramma o una mappa stradale, si fa carico delle emozioni di chi vive e si muta in occasione di nuovi viaggi della mente. L’identità nasce da suggestioni che solo a un occhio superficiale appaiono irrazionali o fanciullesche. L’orribile senso di colpa e di perdita che attende sempre al varco può essere in parte sconfitto dall’amore per il teatro e il cinema, gli unici mondi in cui è del tutto naturale non poter essere una cosa sola, un’unica persona.

martedì 31 maggio 2016

“Desidera”, amore e libertà sulle ali di un aeroplano




Tornare indietro e riscrivere la propria storia? Chi non lo ha mai desiderato almeno una volta? Ma la vita si fa beffe di calcoli e previsioni. Affidato quasi esclusivamente al movimento corporeo, specchio e linguaggio di un immaginario che muta e insegue il suo centro, “Desidera. Una storia d’amore e di stelle” ha raccolto calorosi applausi presso il Centro Sociale di Salerno nell’ambito di Mutaverso, la stagione teatrale che ha in Vincenzo Albano il suo direttore artistico. La drammaturgia e la regia sono firnmate da Simona di Maio e Sebastiano Coticelli, che dividono il palcoscenico con Giuseppe Brancaccio, Amalia Ruocco e Dimitri Tetta. Razionalità e sogno si intrecciano continuamente. L’anziano che si aggira per il palco tutto immerso nelle sue riflessioni tra fogli ingombranti si trova puntualmente tra le mani (nella giacca o inviato misteriosamente) un aeroplanino di carta e vale davvero poco farlo sistematicamente a pezzi. Ritorna con la puntualità di un orologio non solo perché è il suo passato di aviatore, ma anche l’aspirazione a vivere assecondando il proprio istinto. Le due coppie di amanti che creano una sorta di danza struggente e ironica sono le due possibilità a cui un rapporto d’amore può andare incontro: la complicità o il contrasto, la vicinanza più intima o la distanza più cupa. Il cuore della messinscena è probabilmente il momento in cui i quattro personaggi muovono ognuno verso la stessa direzione, e subito dopo verso una meta opposta, i propri aeroplani. L’identità non è certo qualcosa di immobile che si possa ingabbiare; l’amore lo è ancora di meno. Gli approdi sono il senso di ogni viaggio e al tempo stesso l’occasione per cominciarne un altro. La dialettica tra il bisogno di ancorarsi al corpo di una donna e l’urgenza di spingersi verso un altrove, forze entrambe vitali e necessarie, conduce inevitabilmente a smarrire molto di sé. Non sarà possibile evitare la morte della donna amata (la visita da parte dei tre medici è un efficace esempio di come la scienza celebri se stessa, dimenticando che ha un essere vivente dinanzi agli occhi), ma le figure che circondano l’anziano creeranno per lui un aeroplano con i mobili della stanza. Non importa quanto un viaggio sia reale; ciò che conta è non guarire, fino all’ultimo respiro, dalla volontà di varcare limiti e prigioni.

mercoledì 25 maggio 2016

“Esse o non Esse”, il fascino di un dissipatore



Strategia, razionalità, attento studio dell’avversario: è questo che si attribuisce al gioco degli scacchi. Ma quale raziocinio può soccorrere quando il baratro è nella mente e nel mondo? Potente sintesi de “I demoni” di Fedor Dostoevskij diretta da Adriana Follieri –che ha curato la drammaturgia col protagonista-, “Esse o non Esse” è lo spettacolo applaudito al Teatro Pasolini in cui Fiorenzo Madonna ha dato al pubblico tutto ciò che è lecito attendersi da un interprete e anche di più: carisma, capacità di infondere vita sempre nuova negli infiniti volti della simulazione, consacrazione totale a un personaggio che oscilla tra il bisogno di dominare tutto e il lento annegare in se stesso. Stavrogin è il beffardo demiurgo nella deriva di corpi e anime, da cui il titolo che rimanda alla sua iniziale: sposare il suo cinismo o aggrapparsi a un ideale, anche se su tutti, allo stesso modo, calerà il buio. Gli altri personaggi sono pezzi della scacchiera che lui manipola. Il pedone impiccato a una sottoveste è la bambina che ha stuprato (che infatti si suiciderà), la madre è torre e regina, perché non c’è madre che non abbia peso in un’esistenza, gli amici (il buon Satov, Kirillov che vuole essere dio di se stesso) sono alfieri incollati alla scacchiera mentre lui si accascia (perché oppongono le proprie scelte al naufragio) o sono cavalli su cui puntare le scommesse del pubblico. La scommessa è però persa in partenza: dove correre al di fuori del ruolo che ci cuciamo addosso? Lo stesso re in cui Stavrogin si identifica è un carillon: dunque un giocattolo, un’illusione. Sull’onda di una contaminazione musicale che spazia dal canto in vernacolo al francese –per accrescere un effetto straniante-il gioco perde così con feroce sarcasmo la sua connotazione di arma della ragione per testimoniare un’aporia in cui Dio è necessario al senso della vita, ma non esiste. Dissipatore delle proprie energie e di quelle altrui, ama l’ostentazione per esorcizzare inutilmente il senso di colpa che lo perseguita. Ringrazia al microfono le sue vittime, Borges, Dostoevskij stesso, si trucca di bianco dopo aver derubato un impiegato, sputa sul palco lo champagne acquistato col furto, tenta di confessarsi per poi tingersi di rosso e nero (si è scoperto definitivamente demone: la confessione non purifica, è una presa d’atto della propria natura), declama il monologo di Amleto circondato dai pezzi della scacchiera per poi scalciarli via, getta con lo stesso slancio l’abito della donna a cui sarebbe conveniente unirsi e i fogli che lo inchiodano. Uno di essi ha l’impronta del suo viso. È quello che ha tentato di fare da sempre: lasciare una traccia che lo distingua, che lo renda riconoscibile. Non è un caso che i soli momenti di quiete (“attimi di infinita armonia”) avvengano su un lembo di prato dove sono sepolti gli amici: dinanzi alla nudità della morte la gioia sognata sembra balenare, in un istante, con più forza. E quando imprigiona il suo corpo nel filo del microfono declamando “Penziere mieje”, canto di morte e di libertà, è inchiodato alla vertigine del nulla. Meglio troncare il respiro che assistere ancora al ridicolo tentativo degli uomini di trovare qualcosa che sopravviva al male e alla follia.