L’amore? Una degenerazione
della sessualità.I critici? Abilissimi nel tessere il nulla. Chiedere la verità
a un artista? Come comprare il pane dal macellaio. Intervistare su un’isola un
Nobel per la letteratura sarcasticamente orgoglioso della sua solitudine si
rivela un’impresa per il giornalista accolto a colpi di arma da fuoco. La vita
però si diverte a cambiare copione e l’incontro li sorprenderà entrambi.
Liberamente ispirato a “Variazioni enigmatiche” di Éric-Emmanuel Schmitt, “Il
primo giorno di primavera”, diretto da Antonio Grimaldi, ha registrato il tutto
esaurito al Teatro del Giullare. Antonino Masilotti (Erik, il giornalista) crea
con cura appassionata una sorta di spirito guida, un personaggio che fa della
dolente dedizione all’amore il suo comandamento e assottiglia la distanza tra
menzogna e verità con spaesante tenacia. Marco Villani (Abel, lo scrittore) seduce
nell’oscillare tra cinismo e passione, costruendo in un chiaroscuro emotivo una
figura che ricorda Oscar Wilde nelle sue sentenze affilate ed è profondamente
umana nell’egoismo come nella consacrazione. Le scene di Cristina Milito
Pagliara sono giocate su di un’essenzialità evocativa. La tenda dietro la quale
le ombre dei personaggi assumono qualcosa di magico sottolinea il fascino della
finzione, la capacità dell’arte di celare e mostrare quel che vuole. I
palloncini attorno al trono di Abel e il suo dedicarsi alle bolle di sapone
alludono alla leggerezza con cui guarda alle trappole che gli uomini si
costruiscono con le proprie mani, prima tra tutte la quotidianità. E proprio
per sottrarsi alla stessa sorte ha imposto a Helen, la donna perdutamente
amata, una dimensione esclusivamente epistolare del rapporto narrata nel suo
ultimo fortunatissimo romanzo, “L’amore inconfessato”, che con l’ambiguità del
linguaggio, al quale ogni inganno è possibile, mette dunque in luce una vicenda
gelosamente nascosta. Ecco però che le apparenze si sgretolano. Non solo Helen
è morta (nel primo giorno di primavera, ma in ogni fine esiste un inizio); Erik
è suo marito e ha continuato a scrivere fingendosi lei con cui si è ormai
identificato, come mostra la tenera impudenza della veste femminile nascosta
sotto l’abito. Non si può vivere senza qualcosa da desiderare, anche se quel
qualcosa è più evanescente di un’ombra sul sipario. Il carteggio continuerà e
al diavolo rabbia e sconcerto. Amare ciò che non si rassegna alla propria morte
è davvero il modo migliore di restare vivi.
sabato 19 dicembre 2015
lunedì 7 dicembre 2015
“Notturno di donna con ospiti”, un incubo tra quattro mura
Non bisognerebbe mai restare
da soli. È allora che i fantasmi si prendono le loro rivincite, trasformando
tutto in in un incubo. Accolta con entusiasmo dal pubblico del Teatro delle
Arti di Salerno, Giuliana De Sio ha riproposto la sua memorabile interpretazione
in “Notturno di donna con ospiti” di Annibale Ruccello. Enrico Maria Lamanna
firma una regia dal ritmo che serra la gola dello spettatore in un’opera che si
inserisce coerentemente nel percorso di Ruccello, conoscitore profondo della
solitudine e della prigionia psicologica. Clotilde in “Ferdinando” è
orgogliosamente ostaggio di un passato ormai disprezzato, il protagonista de
“Le cinque rose di Jennifer” attende qualcosa che non avverrà mai, Anna
Cappelli nell’omonimo monologo arriva a identificarsi con la casa simbolo di
uno status sociale a lungo inseguito. Adriana è a sua volta prigioniera della
sua stessa vita, schiava della televisione,
inchiodata anche dalla sua terza gravidanza al matrimonio con un
metronotte, Michele (Gino Curcione, che tratteggia con cura un personaggio
brutale e arido). che la considera una serva da portare a letto, immobilizzata
in un presente di parole ripetute, bambini, gesti consumati dalla routine.
Rimasta sola, le piombano in casa Rosanna, una compagna di scuola vittima, a
suo dire, di balordi(Rosaria De Cicco,
credibilissima femme fatale priva di scrupoli), il marito Arturo (l’abile
Andrea De Venuti) e Sandro,il nuovo compagno di Rosanna che aveva ingravidato
Adriana in gioventù (Luigi Iacuzio, sfuggente e crudele). Inizialmente
divertita dalla stranezza della situazione, la padrona di casa si troverà al
centro di un massacro complicato dal ritorno del marito e dal ricordo
del padre morto e della madre (Mimmo Esposito, del tutto a suo agio anche en
travesti) fino al tragico esito. Un momento rivelatore è il poker tra gli ospiti: il gioco degli adulti, degli scaltri, di ciò che è totalmente estraneo
alla natura di una figura interrotta, spezzata dalle sue vicende. La donna è
attorniata dalle sue proiezioni in un sofisticato squilibrio di assonanze e
antitesi. Rosanna è ciò che Adriana avrebbe potuto diventare nell’ottica
dell’opprimente madre, ovvero una manipolatrice del sesso, ma è anche la
libertà sconfinata che le è stata preclusa
e che spesso richiede un prezzo assai alto (l’aggressione, appunto) e
dunque oggetto di odio e ammirazione. Michele e Sandro diventano speculari
nell’abusare di lei, perchè non ha avuto la forza di sfuggire allo schema della
vittima: eloquente la scena in cui i tre uomini, usciti dalla doccia, hanno
tutti un asciugamano sul viso, lei ne sceglie uno e scopre attonita che si
tratta proprio del suo primo uomo. Al passato non si sfugge e nell’oscillare tra nuove e
antiche ossessioni basta una macchinina rossa (il colore del desiderio, non a
caso) per far regredire Adriana allo stadio di bambina. Uno stadio mai
superato: l’apparizione del marito o della madre quando si sta abbandonando ai
suoi istinti dimostra il senso di colpa tipico di chi non ha saputo o voluto
crescere. Arturo inoltre, l’unico che non appartiene al suo concreto vissuto,
racchiude in sé gli stereotipi del seduttore da telenovela a lungo vagheggiati
in una grigia esistenza. E anche la scelta, all’apparenza stravagante, di far
emergere i genitori dal frigo o dallo sportello di un mobile risulta logica:
chi sconta l’ostilità altrui non ha che i suoi deliri. L’abito da sposa
indossato alla fine della pièce simboleggia quel bisogno di amore e di
riconoscibilità che le è stato sistematicamente negato. L’uccisione dei figli
nel tentativo di fronteggiare la madre esprime il bisogno lancinante di
sottrarsi a tutti quei legami che l’hanno schiacciata (ma la soppressione dei
bambini non è molto diversa dalla violenza psicologica di una genitrice che non
ha voluto lasciarla essere una persona) e la folle risata mentre, coperta di
sangue, si muove sul triciclo, dimostra che il vero orrore è un susseguirsi di
giorni di piombo, in cui “le parole ce stanno, ma è cum si nun vulessero ascì”.
domenica 6 dicembre 2015
Notte Pasolini e la feroce bellezza di Salò
Avrebbe potuto essere girato
un’ora fa. Le mostruosità che restano impresse sulla pelle dello spettatore
sono frutto di un clima che attraversa ogni epoca: la reificazione di corpi e
anime da parte di un potere mai pago di mostrare fin dove la sua violenza possa
arrivare. Restaurato dalla Cineteca di Bologna, “Salò o le 120 giornate di
Sodoma” è tornato a stordire con il suo feroce splendore a suggello di Notte
Pasolini Atto III, il progetto che ha coinvolto le voci più vive della cultura
salernitana. La proiezione presso il Cinema Apollo di Salerno è stata preceduta
dalla presentazione di Alfonso Amendola, che ha ricordato come il “cattivo
maestro” Pasolini sia oggi più che mai un interlocutore che chiarisca i meccanismi
del disgusto e del declino in cui viviamo. Nell’intervento “Senza spargimento
di sangue”, Elio Goka, senza trascurare la forzatura pedagogica da parte del
potere che fa a pezzi il momento in cui si credono eterne le gioie infantili, ha
evidenziato come il postumo di Salò sia Salò stesso, in quanto riflessione che
contrappone la pornografia artistica a quella di consumo e disamina di come gli
uomini siano micromacchine della macchina della sopraffazione, introiettandone
la capacità distruttiva. Prendendo le mosse dalla pellicola di Fabrizio Laurenti,
“Il corpo del duce”, che sottolinea il legame fisico tra gli Italiani e il loro capo, Davide Speranza ha osservato come nell’opera
pasoliniana si distrugga il concetto stesso di solidarietà, di coesione sociale e
politica, nell’attacco al capitalismo colpevole di aver mutato in oggetti la
cultura stessa. E la guerra combattuta appunto, senza spargimento di sangue,
dalle nuove generazioni occidentali oggi mira a fagocitare il nostro tempo, a
rendere gli individui controfigure in un copione deciso dall’alto. La lettura
di “Se” di Kipling ha voluto esorcizzare l’horror vacui che si apre a ogni
passo oggi come in passato. La perfomance di Antonio Grimaldi “Io e la mia
croce” fa della morte di Pasolini un’imago vitae, la summa della sua
consacrazione straniante alla libertà di pensiero. Di qui la nudità integrale,
metafora di un approccio senza filtri né pregiudizi che era l’abito mentale
dell’intellettuale. I rumori fuori scena dell’omicidio sembrano provenire da un
altro mondo, un mondo oltre il quale si spinge già lo sguardo della vittima (ma
sono gli assassini le vittime di una disumanizzazione che li rende pedine
cieche) in un’aura cristologica che sublima il momento della fine e lo riscatta
dal buio del vilipendio e della
brutalità. Le parole di Pasolini riecheggiano nelle tenebre prima che tutto
inizi perchè bisogna opporsi all’ottenebramento della coscienza. Quando
Grimaldi avanza a braccia aperte verso l’uscita della sala, comunica un
messaggio di speranza e rinascita: svincolata dai ceppi in cui si costringe
l’individuo, la mente non allineata invita a riscrivere il presente.
Salò ha l’implacabilità di
un assioma. Chi esercita un’autorità non ammette dialettica, ma sempre e solo
un’ottica verticistica che distingua chi schiaccia e chi è schiacciato. Distinzione
a sua volta orribilmente ambigua, perché le vittime legittimano con la loro
esistenza i potenti che abusano di loro in una malsana dipendenza incrociata.
L’asfittica geometria delle figure che oscillano tra il controcampo e
l’allineamento nella medesima inquadratura mostra come il veleno della
sopraffazione avvinca ciò che dovrebbe essere inconciliabile e trova ennesima
conferma, per citare un solo esempio, nello sposalizio grottesco tra i signori
in vesti femminili e i loro amanti. Il
finale non è meno straniante. I due giovani che ballano al suono di una musica
carezzevole hanno ormai incarnato l’annichilimento. E quando il buio dilaga
nella mente, anche solo sognare un altrove diventa impossibile.
venerdì 4 dicembre 2015
“Scrivere non è descrivere!”, elogio della libertà al femminile
Quando nel 1976 mimò con il suo corpo la parola Mater, fu scandalo.
Nella miope Italia riconoscere il diritto a essere persone non è mai stato
semplice. “Mater” è una delle opere di “Scrivere non è descrivere!”, la mostra
di Tomaso Binga chiusa con successo presso la Galleria Tiziana
di Caro di Napoli in attesa di ospitare nuove produzioni dell’artista. A una
concezione a senso unico della femminilità, Binga fa del suo corpo un segno che
rifonda totalmente il linguaggio. La madre come fondamento di un mondo cieco
dinanzi alle differenze diventa cosi l’occasione per ridurre gli schemi mentali
a pura immagine oltre la quale la comunicazione diviene qualcosa di vivo e mai
statico. Le lettere dell’”Alfabetiere” ancora forgiate dalla sua nudità invitano
a considerare gli elementi della lingua un’opportunità di gioco, una presa di
posizione di chi fa arte e si assume la responsabilità di essere totalmente ciò
che crea. Anche la riproduzione di illustrazioni tratte da fumetti cinesi
(propri dunque di una società basata sulla rigidità delle regole) è un ironico
rimando a reinterpretare e arricchire il dato visivo. Lo stadio prelogico della
scrittura emerge dal “Dattilocodice”: lettere battute a macchina e sovrapposte
come in un arazzo liberano le energie dell’inconscio e ricordano la duttilità
del significante. La “Scrittura in dissolvenza”, esposta per la prima volta (un
flusso desemantizzato che scompare progressivamente, tracciato su contenitori
di medicinali che ricordano finestre aperte su un nuovo orizzonte) non contiene
certo un messaggio nichilista nell’azzerare i consueti codici esegetici. È al
contrario un’esortazione a sottrarsi alla tirannide di tali codici, perché il
fluire incontrollabile del segno sia cifra degli infiniti modi di rapportarsi
al reale. Non poteva mancare in questo
contesto “Ti scrivo solo di domenica”. Le lettere disposte lungo le pareti di
una sala appaiono specchi in cui l’artista e lo spettatore si osservano: del resto le parole costruiscono la casa
della mente. L’introspezione diventa grimaldello che scardina il reale. Nel
riflettere sulle proprie sensazioni e sul bisogno (vitale ma ostacolato) di
essere libera, Binga dà voce a tutte le donne alla ricerca della propria identità,
che è un eterno dispiegarsi, non un copione dettato da pregiudizi e abitudini
stantie. Scrivere non potrà mai essere descrivere, ma cogliere il rimosso,
l’assonanza tra ciò che è distante, vitalità anarchica perché, come scrive
l’autrice, “Le parole silenziose mi infastidiscono come la forfora”.
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