sabato 19 dicembre 2015

“Il primo giorno di primavera”, l’inganno del desiderio



L’amore? Una degenerazione della sessualità.I critici? Abilissimi nel tessere il nulla. Chiedere la verità a un artista? Come comprare il pane dal macellaio. Intervistare su un’isola un Nobel per la letteratura sarcasticamente orgoglioso della sua solitudine si rivela un’impresa per il giornalista accolto a colpi di arma da fuoco. La vita però si diverte a cambiare copione e l’incontro li sorprenderà entrambi. Liberamente ispirato a “Variazioni enigmatiche” di Éric-Emmanuel Schmitt, “Il primo giorno di primavera”, diretto da Antonio Grimaldi, ha registrato il tutto esaurito al Teatro del Giullare. Antonino Masilotti (Erik, il giornalista) crea con cura appassionata una sorta di spirito guida, un personaggio che fa della dolente dedizione all’amore il suo comandamento e assottiglia la distanza tra menzogna e verità con spaesante tenacia. Marco Villani (Abel, lo scrittore) seduce nell’oscillare tra cinismo e passione, costruendo in un chiaroscuro emotivo una figura che ricorda Oscar Wilde nelle sue sentenze affilate ed è profondamente umana nell’egoismo come nella consacrazione. Le scene di Cristina Milito Pagliara sono giocate su di un’essenzialità evocativa. La tenda dietro la quale le ombre dei personaggi assumono qualcosa di magico sottolinea il fascino della finzione, la capacità dell’arte di celare e mostrare quel che vuole. I palloncini attorno al trono di Abel e il suo dedicarsi alle bolle di sapone alludono alla leggerezza con cui guarda alle trappole che gli uomini si costruiscono con le proprie mani, prima tra tutte la quotidianità. E proprio per sottrarsi alla stessa sorte ha imposto a Helen, la donna perdutamente amata, una dimensione esclusivamente epistolare del rapporto narrata nel suo ultimo fortunatissimo romanzo, “L’amore inconfessato”, che con l’ambiguità del linguaggio, al quale ogni inganno è possibile, mette dunque in luce una vicenda gelosamente nascosta. Ecco però che le apparenze si sgretolano. Non solo Helen è morta (nel primo giorno di primavera, ma in ogni fine esiste un inizio); Erik è suo marito e ha continuato a scrivere fingendosi lei con cui si è ormai identificato, come mostra la tenera impudenza della veste femminile nascosta sotto l’abito. Non si può vivere senza qualcosa da desiderare, anche se quel qualcosa è più evanescente di un’ombra sul sipario. Il carteggio continuerà e al diavolo rabbia e sconcerto. Amare ciò che non si rassegna alla propria morte è davvero il modo migliore di restare vivi.

lunedì 7 dicembre 2015

“Notturno di donna con ospiti”, un incubo tra quattro mura



Non bisognerebbe mai restare da soli. È allora che i fantasmi si prendono le loro rivincite, trasformando tutto in in un incubo. Accolta con entusiasmo dal pubblico del Teatro delle Arti di Salerno, Giuliana De Sio ha riproposto la sua memorabile interpretazione in “Notturno di donna con ospiti” di Annibale Ruccello. Enrico Maria Lamanna firma una regia dal ritmo che serra la gola dello spettatore in un’opera che si inserisce coerentemente nel percorso di Ruccello, conoscitore profondo della solitudine e della prigionia psicologica. Clotilde in “Ferdinando” è orgogliosamente ostaggio di un passato ormai disprezzato, il protagonista de “Le cinque rose di Jennifer” attende qualcosa che non avverrà mai, Anna Cappelli nell’omonimo monologo arriva a identificarsi con la casa simbolo di uno status sociale a lungo inseguito. Adriana è a sua volta prigioniera della sua stessa vita, schiava della televisione,  inchiodata anche dalla sua terza gravidanza al matrimonio con un metronotte, Michele (Gino Curcione, che tratteggia con cura un personaggio brutale e arido). che la considera una serva da portare a letto, immobilizzata in un presente di parole ripetute, bambini, gesti consumati dalla routine. Rimasta sola, le piombano in casa Rosanna, una compagna di scuola vittima, a suo dire,  di balordi(Rosaria De Cicco, credibilissima femme fatale priva di scrupoli), il marito Arturo (l’abile Andrea De Venuti) e Sandro,il nuovo compagno di Rosanna che aveva ingravidato Adriana in gioventù (Luigi Iacuzio, sfuggente e crudele). Inizialmente divertita dalla stranezza della situazione, la padrona di casa si troverà al centro di un massacro complicato dal ritorno del marito e dal ricordo del padre morto e della madre (Mimmo Esposito, del tutto a suo agio anche en travesti) fino al tragico esito. Un momento rivelatore è il poker tra gli ospiti: il gioco degli adulti, degli scaltri, di ciò che è totalmente estraneo alla natura di una figura interrotta, spezzata dalle sue vicende. La donna è attorniata dalle sue proiezioni in un sofisticato squilibrio di assonanze e antitesi. Rosanna è ciò che Adriana avrebbe potuto diventare nell’ottica dell’opprimente madre, ovvero una manipolatrice del sesso, ma è anche la libertà sconfinata che le è stata preclusa  e che spesso richiede un prezzo assai alto (l’aggressione, appunto) e dunque oggetto di odio e ammirazione. Michele e Sandro diventano speculari nell’abusare di lei, perchè non ha avuto la forza di sfuggire allo schema della vittima: eloquente la scena in cui i tre uomini, usciti dalla doccia, hanno tutti un asciugamano sul viso, lei ne sceglie uno e scopre attonita che si tratta proprio del suo primo uomo. Al passato non  si sfugge e nell’oscillare tra nuove e antiche ossessioni basta una macchinina rossa (il colore del desiderio, non a caso) per far regredire Adriana allo stadio di bambina. Uno stadio mai superato: l’apparizione del marito o della madre quando si sta abbandonando ai suoi istinti dimostra il senso di colpa tipico di chi non ha saputo o voluto crescere. Arturo inoltre, l’unico che non appartiene al suo concreto vissuto, racchiude in sé gli stereotipi del seduttore da telenovela a lungo vagheggiati in una grigia esistenza. E anche la scelta, all’apparenza stravagante, di far emergere i genitori dal frigo o dallo sportello di un mobile risulta logica: chi sconta l’ostilità altrui non ha che i suoi deliri. L’abito da sposa indossato alla fine della pièce simboleggia quel bisogno di amore e di riconoscibilità che le è stato sistematicamente negato. L’uccisione dei figli nel tentativo di fronteggiare la madre esprime il bisogno lancinante di sottrarsi a tutti quei legami che l’hanno schiacciata (ma la soppressione dei bambini non è molto diversa dalla violenza psicologica di una genitrice che non ha voluto lasciarla essere una persona) e la folle risata mentre, coperta di sangue, si muove sul triciclo, dimostra che il vero orrore è un susseguirsi di giorni di piombo, in cui “le parole ce stanno, ma è cum si nun vulessero ascì”.

domenica 6 dicembre 2015

Notte Pasolini e la feroce bellezza di Salò



Avrebbe potuto essere girato un’ora fa. Le mostruosità che restano impresse sulla pelle dello spettatore sono frutto di un clima che attraversa ogni epoca: la reificazione di corpi e anime da parte di un potere mai pago di mostrare fin dove la sua violenza possa arrivare. Restaurato dalla Cineteca di Bologna, “Salò o le 120 giornate di Sodoma” è tornato a stordire con il suo feroce splendore a suggello di Notte Pasolini Atto III, il progetto che ha coinvolto le voci più vive della cultura salernitana. La proiezione presso il Cinema Apollo di Salerno è stata preceduta dalla presentazione di Alfonso Amendola, che ha ricordato come il “cattivo maestro” Pasolini sia oggi più che mai un interlocutore che chiarisca i meccanismi del disgusto e del declino in cui viviamo. Nell’intervento “Senza spargimento di sangue”, Elio Goka, senza trascurare la forzatura pedagogica da parte del potere che fa a pezzi il momento in cui si credono eterne le gioie infantili, ha evidenziato come il postumo di Salò sia Salò stesso, in quanto riflessione che contrappone la pornografia artistica a quella di consumo e disamina di come gli uomini siano micromacchine della macchina della sopraffazione, introiettandone la capacità distruttiva. Prendendo le mosse dalla pellicola di Fabrizio Laurenti, “Il corpo del duce”, che sottolinea il legame fisico tra gli Italiani e  il loro capo,  Davide Speranza ha osservato come nell’opera pasoliniana si distrugga il concetto stesso  di solidarietà, di coesione sociale e politica, nell’attacco al capitalismo colpevole di aver mutato in oggetti la cultura stessa. E la guerra combattuta appunto, senza spargimento di sangue, dalle nuove generazioni occidentali oggi mira a fagocitare il nostro tempo, a rendere gli individui controfigure in un copione deciso dall’alto. La lettura di “Se” di Kipling ha voluto esorcizzare l’horror vacui che si apre a ogni passo oggi come in passato. La perfomance di Antonio Grimaldi “Io e la mia croce” fa della morte di Pasolini un’imago vitae, la summa della sua consacrazione straniante alla libertà di pensiero. Di qui la nudità integrale, metafora di un approccio senza filtri né pregiudizi che era l’abito mentale dell’intellettuale. I rumori fuori scena dell’omicidio sembrano provenire da un altro mondo, un mondo oltre il quale si spinge già lo sguardo della vittima (ma sono gli assassini le vittime di una disumanizzazione che li rende pedine cieche) in un’aura cristologica che sublima il momento della fine e lo riscatta dal buio del vilipendio e  della brutalità. Le parole di Pasolini riecheggiano nelle tenebre prima che tutto inizi perchè bisogna opporsi all’ottenebramento della coscienza. Quando Grimaldi avanza a braccia aperte verso l’uscita della sala, comunica un messaggio di speranza e rinascita: svincolata dai ceppi in cui si costringe l’individuo, la mente non allineata invita a riscrivere il presente.
Salò ha l’implacabilità di un assioma. Chi esercita un’autorità non ammette dialettica, ma sempre e solo un’ottica verticistica che distingua chi schiaccia e chi è schiacciato. Distinzione a sua volta orribilmente ambigua, perché le vittime legittimano con la loro esistenza i potenti che abusano di loro in una malsana dipendenza incrociata. L’asfittica geometria delle figure che oscillano tra il controcampo e l’allineamento nella medesima inquadratura mostra come il veleno della sopraffazione avvinca ciò che dovrebbe essere inconciliabile e trova ennesima conferma, per citare un solo esempio, nello sposalizio grottesco tra i signori in vesti femminili e  i loro amanti. Il finale non è meno straniante. I due giovani che ballano al suono di una musica carezzevole hanno ormai incarnato l’annichilimento. E quando il buio dilaga nella mente, anche solo sognare un altrove diventa impossibile.

venerdì 4 dicembre 2015

“Scrivere non è descrivere!”, elogio della libertà al femminile



Quando nel 1976 mimò con il suo corpo la parola Mater, fu scandalo. Nella miope Italia riconoscere il diritto a essere persone non è mai stato semplice. “Mater” è una delle opere di “Scrivere non è descrivere!”, la mostra di Tomaso Binga chiusa con successo presso la Galleria Tiziana di Caro di Napoli in attesa di ospitare nuove produzioni dell’artista. A una concezione a senso unico della femminilità, Binga fa del suo corpo un segno che rifonda totalmente il linguaggio. La madre come fondamento di un mondo cieco dinanzi alle differenze diventa cosi l’occasione per ridurre gli schemi mentali a pura immagine oltre la quale la comunicazione diviene qualcosa di vivo e mai statico. Le lettere dell’”Alfabetiere” ancora forgiate dalla sua nudità invitano a considerare gli elementi della lingua un’opportunità di gioco, una presa di posizione di chi fa arte e si assume la responsabilità di essere totalmente ciò che crea. Anche la riproduzione di illustrazioni tratte da fumetti cinesi (propri dunque di una società basata sulla rigidità delle regole) è un ironico rimando a reinterpretare e arricchire il dato visivo. Lo stadio prelogico della scrittura emerge dal “Dattilocodice”: lettere battute a macchina e sovrapposte come in un arazzo liberano le energie dell’inconscio e ricordano la duttilità del significante. La “Scrittura in dissolvenza”, esposta per la prima volta (un flusso desemantizzato che scompare progressivamente, tracciato su contenitori di medicinali che ricordano finestre aperte su un nuovo orizzonte) non contiene certo un messaggio nichilista nell’azzerare i consueti codici esegetici. È al contrario un’esortazione a sottrarsi alla tirannide di tali codici, perché il fluire incontrollabile del segno sia cifra degli infiniti modi di rapportarsi al reale.  Non poteva mancare in questo contesto “Ti scrivo solo di domenica”. Le lettere disposte lungo le pareti di una sala appaiono specchi in cui l’artista e lo spettatore si osservano:  del resto le parole costruiscono la casa della mente. L’introspezione diventa grimaldello che scardina il reale. Nel riflettere sulle proprie sensazioni e sul bisogno (vitale ma ostacolato) di essere libera, Binga dà voce a tutte le donne alla ricerca della propria identità, che è un eterno dispiegarsi, non un copione dettato da pregiudizi e abitudini stantie. Scrivere non potrà mai essere descrivere, ma cogliere il rimosso, l’assonanza tra ciò che è distante, vitalità anarchica perché, come scrive l’autrice, “Le parole silenziose mi infastidiscono come la forfora”.