martedì 17 dicembre 2019

“La tempesta”, una regia che vola basso



Cosa pensare di un regista che sabota la propria messinscena, giustificando tutto sotto il comodo ombrello della contaminazione? Un vivo disagio ha colto lo spettatore de “La tempesta” shakespeariana, in scena al Teatro Verdi di Salerno per la regia di Luca De Fusco. Gli elementi positivi, malgrado tutto, non mancano: la saggezza innamorata dell’utopia, pur nello squarcio di un miraggio, del Gonzalo tratteggiato con raffinata padronanza da Enzo Turrin; la solitudine del severo Prospero di Eros Pagni, profondamente conscio della vanità del tutto; l’ammaliante Gaia Aprea che, con l’ausilio di una maschera, impersona Ariel e Calibano, perché devozione e ostilità sono più vicine di quel che si creda. La biblioteca del mago come archivio dell’immaginario artistico del Novecento difende un’idea – non stabile né univoca- di ordine da contrapporre al caos e l’equipaggio approdato sull’isola,  a volte fisso in forme plastiche su una pedana mobile  in quanto proiezione della visione del mago,  strappa i fogli da un leggio una volta formulati i pensieri, identificando nella dimensione onirica arte e vita. Nulla di nuovo sotto il sole? Esiste comunque, almeno nel primo atto, uno sguardo organicamente orientato sul testo, oltre a un’ottima prova di tutto il cast. All’apparizione di Trinculo e Stefano, però, si precipita in una volgarità, che sarebbe eufemistico definire da taverna. Atti e parole, che non risparmiano riferimenti ai neomelodici, rendono di colpo la scena inferiore a qualunque avanspettacolo di terz’ordine. Non è l’avvilimento del registro espressivo in sé a essere sotto accusa (il teatro deve essere immune da pregiudizi) ma il suo essere asservito a un ammiccamento di nessun valore alla platea, dando per scontato che la mescolanza di differenti approcci legittimi in ogni caso una riscrittura. Altrettanto imbarazzante è l’apparizione di una Marylin che dovrebbe incarnare la legge del desiderio, vero movente di ogni azione umana, ma che si rivela concessione del tutta gratuita al gusto di un pubblico che non ama essere disturbato nel suo nulla. Che la coerenza narrativa sia una convenzione superata in nome di una libertà non addomesticabile, è salutare per chi ama il palcoscenico. Quando però un intero impianto registico ricorre a scelte inutilmente effettistiche, non resta che prendere atto di un bluff, che nasce dalla superbia. Credersi al di sopra di ciò che si allestisce è un vicolo cieco.

“Berlino, cronache del muro”, un’anima divisa in due



“Berlino è ciò che sono i testicoli per un uomo. Quando voglio far strillare l’Occidente, schiaccio Berlino”. Non si può affermare che Kruscev difettasse di concretezza e schiacciare una città era all’epoca terribilmente facile. “Berlino, cronache del muro” è l’accurato percorso storico che Ezio Mauro ha proposto al pubblico della Sala Pasolini con Massimiliano Briarava, appassionato compagno di viaggio nella narrazione. Le immagini alle spalle dei due lettori sono insistentemente speculari, a dimostrare come, nonostante tutto, le due anime della capitale non possano fare a meno di riconoscersi l’una nell’altra. La divisione di Berlino in quattro settori d’influenza non appaga i vincitori del secondo conflitto mondiale, date le tensioni che li dividono. La Nato e la Ddr dimostrano che la guerra fredda è un partita che si gioca senza esclusione di colpi. La difesa del regime, come stabilisce Ulbrich, leader del partito di unità socialista di Germania in accordo con Kruscev, richiede misure drastiche e il 13 agosto 1961 famiglie e amici sono separati da un muro che chiederà un osceno tributo di sangue a chi desidera la libertà. Indimenticabili le vicende della coppia di posdani, che, pur di raggiungere l’ovest, si gettano in un fiume con il proprio bimbo di diciotto mesi in una scatola di latta o la bastonatura inflitta a una madre solo per aver osato salutare la figlia al di là della linea di fortificazione. La Stasi, la polizia segreta della Ddr, non conosce riposo. Ha un informatore ogni cinquanta abitanti; non è possibile neppure tagliarsi la barba o sposarsi senza la sua autorizzazione; 100.000 lettere sono intercettate ogni giorno; abiti e libri sono contaminati con sostanze radioattive, per rendere sempre reperibili coloro che li usano. Perfino le cabine telefoniche si illuminano di colpo, se la chiamata è diretta a un Paese straniero. La situazione di Christa Wolf, spiata e al tempo stesso fonte di informazioni per i funzionari che agiscono nell’ombra, mostra l’irrisolvibile coesistenza di colpa e di aspirazione a una società diversa. Nessuna deformazione del reale è tuttavia duratura. Si ha un bel dipingere la Ddr come un paradiso in cui l’amore libero garantisce alle donne il doppio degli orgasmi rispetto alla sezione occidentale della città. La pervicacia di Honecker, che rasenta la cecità nella consacrazione alla causa, non meno della moglie Margot, che vuole giovani in armi a difesa del socialismo, è destinata a essere sconfitta dalla storia: quando il miraggio dell’indipendenza brilla con maggior decisione, la perestrojka segna il disfacimento della visione comunista. Oggi il crollo del muro dovrebbe risuonare con inaudito fragore, per ricordare che nessun guinzaglio si può stringere a lungo alla gola di un popolo.

sabato 16 novembre 2019

"Il tempo è veleno" , storia di un inganno



Saggezza, liberazione, acutezza di giudizio: è questo che si attribuisce allo scorrere degli anni, che compensano le energie tolte con uno sguardo più attento alla realtà. Questo però accade solo se si ha la forza di sfuggire alle proprie frustrazioni. “Il tempo è veleno”, diretto da Francesco Saponaro e scritto e interpretato da Tony  Laudadio al fianco di un generoso cast particolarmente sensibile a un ritmo calibrato ((Teresa Saponangelo, Andrea Renzi, Eva Cambiale, Angela Fontana, Lucienne Perreca) ha avuto una positiva accoglienza al Teatro Pasolini di Salerno. La rappresentazione si muove su due livelli strettamente complementari: il peso della vita vissuta come prolungamento ostinato di angosce causate da errori e omissioni e la coesistenza di vivi e morti nello stesso spazio scenico (la casa di famiglia da cui ammirare il golfo napoletano), che è fisso e non a caso privo di porte, in quanto non si sfugge a ciò che ha originato un’esistenza. Solitudini, contrasti e incomprensioni nascono da una falsa paternità illegittima descritta in una lettera della madre Bianca e dal segreto del padre Paco, un ginecologo dedito alla fecondazione assistita. Laudadio conosce il pregio di un’ironia feroce. Le due azioni, che cambieranno tutto, avvengono per denaro, motivazione decisamente prosaica, che mostra come sogni e speranze non sfuggano al cinismo e al ridicolo. Si assiste inoltre a un capovolgimento di senso: entrambe le scelte si basano su una fertilità, che di fatto rende sterile la trama dei rapporti tra difficoltà a comprendere il proprio ruolo e fiducia che va sonoramente in pezzi. Il tempo non diventa quindi alleato ma nemico, perché ingigantisce le distanze colmabili guardandosi dentro fino in fondo. Alla figlia Marta gioverà una verità rivelata da chi sa che i fantasmi sono compagni fedeli, l’uomo che soffre di aver causato, sia pur involontariamente, la morte dei genitori di lei. Tale verità, didascalicamente legata a Napoli (sottolineatura superflua, ma gli artisti di quella città la fanno coincidere col mondo intero) è che vita e morte devono riconoscersi, abbracciarsi, trarre il proprio senso l’una dall’altra. “Ci vediamo domani” dice con amore Marta agli spettri del padre e della madre, che la guardano con l’affetto paziente di chi ascolta e comprende. Ormai la donna sa che il tempo può guarire da se stesso, dal momento che domani e ieri sono i nomi vuoti di un eterno attimo.

mercoledì 7 agosto 2019

“Epica fera”, il duello dei corpi e delle parole



Non crederete mica che sia una bestia leggiadra, amabile, pacifica. È una “gran buttanazza fetusa”, venuta al mondo per far disperare i pescatori e fare una ”roncisvallata” di pesci spada nello stretto di Messina, beffando tutti con il suo “genio di mente”. Il delfino appare come non lo avete mai immaginato in “Epica fera”, l’emozionante spettacolo di e con Gaspare Balsamo in cui Francesco Salvadore contribuisce a creare un’atmosfera tesa e struggente col tamburo e il canto sulle qualità e la fine dell’animale o sulle sirene predatrici in una mare, che è eterna tenzone. Il cunto, che rielabora alcune parti del romanzo “Horcynus Orca” di Stefano D’Arrigo, ha concluso tra gli applausi, sulla Tonnara Maria Antonietta a Cetara, “Teatri in blu”, il progetto di Vincenzo Albano. Il corpo e la voce di Balsamo, tra la fascinazione dei pupi e l’energia del vernacolo, rendono il racconto profondamente vivido. Il delfino è fera, circondata dalla solennità sacrale del canto epico, perché strazia reti e pesci con la vorace astuzia che le ha permesso di ottenere la bellezza, quando Dio la degradò da angelo a diavolessa. La sua furia traditrice è tuttavia figlia della natura: fa parte dell’oscillare senza tempo tra vita e distruzione. Per questo il capo della barca, che ha catturato un maschio (fragile quanto gli uomini, dato che, preso dalla passione per la compagna, non ha colto la minaccia), ricorda che non c’è posto per la vendetta in un gioco dove ognuno fa la sua parte e l’ammirazione si mescola alla sofferenza quando, nella conclusione, i pesci spada sono sterminati da fere di ogni tipo ( a “sangu ianco”, a “pinna suprana”, a “denti a zappuni”), descritte a un pescatore orbo come torme di guerrieri. Tutti siamo orbi dinanzi alla grandezza, se si nutre di forze antiche e sempre vive di fronte alle quali siamo ben poco. Non vi è alcuna grandezza invece nel potere, che pretende di stabilire priorità anche linguistiche in modo insindacabile. Il fascista che esalta la dolcezza del termine delfino è specchio di quello che scaricherà l’intero caricatore nel cranio del mammifero col pretesto di liberarlo. Ridicoli nella loro superbia, i potenti si muovono tra vuoti vocaboli da deformare, per sempre lontani dall’essenza delle cose. Questa appartiene solo a chi non ha casacche né si sente al di sopra di quel mistero che è l’esistenza. La cialoma, il canto della mattanza, celebra il cupo splendore della morte contro i fascisti di ogni tempo, che non sanno di essere già morti.

lunedì 5 agosto 2019

"Delitti per gioco", omaggio a Campanile



Un padrone inflessibile, come sostiene Manzoni? O un’imperdonabile volgarità, come vorrebbe Wilde? Di certo, se il vero delitto è vegetare sul binario morto della quotidianità o della logica più stantia, Achille Campanile è senz’ombra di dubbio innocente. È un omaggio a lui “Delitti per gioco”, lo spettacolo diretto da Brunella Caputo che ha aperto, presso la Chiesa di Sant’Apollonia, La notte dei Barbuti, sezione del Barbuti Festival. “Delitto a villa Roung” e “Misterioso uxoricidio in un caffè del centro o Una moglie nervosa” sono stati proposti all’insegna di una leggerezza che sbeffeggia ogni convenzione sociale e teatrale. L’elenco di citazioni sulla natura del delitto, da Balzac a Morrison, e la minuziosa definizione di gioco, letti con intensità sacerdotale dalla stessa Caputo, sono bruscamente interrotti dagli interpreti che, oppressi da tanta cultura, la portano via di peso. L’aura del regista è quindi sarcasticamente privata di ogni fascino, perché nessuna gerarchia resiste alla spudoratezza del paradosso. Gli interpreti, che gareggiano in generosità ((Mimma Virtuoso, Renato Del Mastro, Carlo Orilia, Alfredo Micoloni, Rocco Giannattasio, Augusto Landi, Matteo Amaturo, Salvatore Albano, Teresa Di Florio, Concita De Luca e Andrea Bloise) si scatenano in una briosa coreografia (curata da Virna Prescenzo insieme al disegno luci e alla selezione musicale), che è autopresentazione, preparazione dello spazio in cui agiranno e soprattutto desiderio di mostrarsi al pubblico con la compattezza di un’orchestra, dove ognuno conta se in armonia con gli altri. Che servano tramezzini agli spettatori o galoppino tra le acrobazie verbali di copioni decisamente inadatti a ogni pigrizia mentale, gli attori sono a proprio agio in quella giungla impervia che è il linguaggio, trappola mefistofelica che sabota e deve essere sabotata, perché l’assurdo, cioè la libertà libera anche da se stessa, trionfi. Se una moglie ostile al calzolaio ricorre a epiteti poco edificanti davanti al marito, senza che ci sia una benché minima intesa su inflessioni, sfumature, allusioni, spararle diventa legittima difesa. Se, nella ricerca di un assassino in una villa, si procede sì con la ferrea determinazione degli eroi polizieschi, ma a caso, la didascalia diventa personaggio e l’assassinato si finge morto per trovare un colpevole che non esiste, la scelta è chiara: perdersi in questo ammaliante delirio e abbandonare al suo destino quel triste figuro che è il pensiero lineare.