martedì 16 giugno 2015

Geografie, bilancio positivo



Testi di forte impatto e interpreti che hanno messo in campo le proprie energie senza respiro. Si è conclusa all’insegna del pieno successo Geografie, la rassegna, presso il Piccolo Teatro del Giullare di Salerno, ideata e diretta da Vincenzo Albano sul teatro calabrese contemporaneo in partnership con la rivista Puracultura e la webradio d’Ateneo Unisound con il patrocinio del “Centro studi sul Teatro napoletano, meridionale ed europeo” presieduto da Antonia Lezza. Emanuela Ferrauto, critico teatrale, ne è stata consulente generale.
Abbiamo chiesto ad Albano di tirare le somme.
Ora che il sipario è calato, qual è la sua opinione?
“Sono soddisfatto dei numeri. Non si è verificato nessun calo nell’affluenza del pubblico, un dato positivo. Il lavoro della mia associazione culturale Erre Teatro, che ha curato l’organizzazione generale della manifestazione, è sempre migliorabile e occorre cercare di attrarre nuovi flussi di spettatori”.
Quali sono a suo avviso gli ostacoli con cui la drammaturgia contemporanea deve fare i conti e quali i suoi punti di forza?
“Gli ostacoli riguardano la circuitazione delle compagnie, la difficoltà di garantire loro condizioni dignitose, non solo economiche. Un delicato equilibrio di oneri nel quale il pubblico gioca un ruolo fondamentale. A maggior ragione in quel segmento del presente teatrale che va avanti in maniera indipendente, se non pionieristica. Geografie ha incontrato e parlato di queste realtà, non solo in teatro, “on stage”, ma anche – per così dire – “on air”, assieme a tutto lo staff di Unisound. Mi sembrava interessante la chiave monografica regionale; una sorta di censimento, seppur parziale. Sui punti di forza, mi piace annoverare la sollecitazione all’ascolto, che sia di una storia intesa come “plot”, che sia di un frammento di essa nel quale io riconosco la mia. Siamo disabituati all’ascolto. Vediamo, basta. Ma quanto può renderci “visionari” una parola, abbandonandoci ad essa!”.
Quali progetti ha per il futuro?
“Penso alla seconda edizione di “Per voce sola”, che non è un progetto, ma un taglio offerto a una proposta che mi permette di proporre drammaturgie interessanti, e alla terza edizione di Teatrografie, che è un tentativo di narrare il teatro anche attraverso forme espressive diverse, nonché alla seconda edizione di Geografie. Sarebbe inoltre auspicabile contare su un proprio spazio. Il Giullare ha offerto un sostegno insostituibile, ma un luogo gestito autonomamente permette di connotare una precisa identità artistica”.

Le suggestioni di Erri De Luca



È allergico alla retorica, ma fa avvertire sulla pelle il dolce peso di un ricordo. Odia le maschere che la violenza costruisce per legittimarsi (“La divinità non può perdonare chi giura il falso in suo nome, come chi giura di uccidere per ordine di Dio”), ma non ama salire in cattedra. Pensa alla scrittura come a un “tempo festivo”, un modo per farsi compagnia e ricorda con devoto affetto Izet Sarajilic, “maestro di fedeltà amorosa” a una donna e a una città, la Sarajevo che ascoltava i poeti negli scantinati per dimenticare almeno per un momento il dolore della guerra. Il pubblico che ha affollato il Piccolo Teatro del Giullare di Salerno è stato sedotto da Erri De Luca nella serata condotta dal giornalista Paolo Romano in cui Brunella Caputo e Cinzia Ugatti hanno proposto un’appassionata lettura di stralci tratti dalle opere più note dello scrittore napoletano. Uno scrittore più che mai attratto dalla capacità del linguaggio di generare la vita: il motivo che lo ha spinto ad accostarsi alla Bibbia.“Mi piaceva molto il fatto che non fosse letteratura, che non si preoccupasse di avere un lettore, dato che esistevano ascoltatori, tramandatori della parola –ha detto-Che quella divinità si manifestasse fisicamente con la parola mi ha riguardato come uno che ha messo tutte le sue uova nel cesto del vocabolario da cui trarre parole per i miei scritti. Quel dire precede, procura e determina il creato. La parola al suo vertice si porta dietro la responsabilità di chi la pronuncia”. De Luca sa che le parole possono uccidere e che il razzismo ne fa un’arma impropria a cui bisogna opporre una sensibilità non allineata. “Mi sento cittadino del Mediterraneo, un intruglio dei nostri sangui. Sarebbe interessante analizzare quanto nel nostro sangue ci sia di fenicio, ebreo, normanno. Assistiamo al peggor commercio marittimo della storia dove la merce umana ha una sorte peggiore della tratta degli schiavi, dove contava che il prodotto, pagato alla consegna, arrivasse illeso, cosa che non conta affatto oggi. Facile immaginare cosa diranno di noi quelli che verrano dopo”. E se la parola rivoluzione ha ormai esaurito la sua funzione storica, non resta che resistere dal basso a ogni minaccia alla salute pubblica. Il diritto all’integrità fisica è una priorità assoluta. Senza dimenticare l’importanza dell’anarchia, “una delle formule della disobbedienza di cui Charlie Hebdo è stato l’ultimo sfiato sulfureo”.

lunedì 8 giugno 2015

“L’Italia s’è desta”, il sonno dell’etica



Gli abitanti del piccolo paese della Calabria-non occorre un nome, potrebbe succedere ovunque-possono ridere quanto vogliono al passaggio di “quella”, ”la scema”, “scarpe strane”. Non mostrano certo la stesa sfrontatezza se si allude alla loro vita apparentemente immobile, dove “ogni tanto sparisce qualcuno”. “L’Italia s’è desta”, il monologo di Dalila Cozzolino per la regia dell’autore del testo Rosario Mastrota, ha chiuso tra gli applausi del Piccolo Teatro del Giullare di Salerno Geografie, la rassegna ideata e diretta da Vincenzo Albano sul teatro calabrese contemporaneo. L’ironica naturalezza con cui la Cozzolino connota il suo personaggio, un’idiot sauvant in gonnella che possiede, in tutti i sensi, una vista ben più acuta dei compaesani, innesca immediatamente un meccanismo di complicità con questa creatura generosa e fragile, sulla quale gli sguardi tacciono se non per deridere o cercare goffamente di proteggere, come mostrano le allusioni a una madre spenta dalla lontananza del padre. Carla Libonati è invisibile come le vittime degli “ndranghetisti” che ordinano ai “brutti” di “appicciare” i negozi di chi non paga il pizzo e rapiscono e uccidono, come accade a Maria, l’unica amica della protagonista. Lo spettacolo si regge su una denuncia sociale tanto più feroce quanto più mediata dalla leggerezza. La violenza non è confinata in una terra che si costruisce da sola le sue trappole, ma è sistemica. La statua di Garibaldi per cui sono stati abbattuti alberi secolari e i contrasti tra il prete “vecchio” e quello “giovane” esprimono uno scempio dell’etica di cui la sola Carla sembra rendersi comicamente conto, avvolta in un silenzio che è limite e arma. Quando però a sparire è la sola cosa che stia a cuore al Paese, ovvero la Nazionale di Calcio sequestrata dalla malavita, sarà “scarpe strane” a indicare il dirupo in cui è nascosta con un mezzo, non a  caso, tipico dei criminali: la lettera scritta con ritagli di giornale. E la frase “L’Italia è nel burrone!” si carica di sensi ulteriori, dato che la legalità si è schiantata da tempo al suolo. Tutta la felicità di Carla esplode nel sentire il suo nome alla radio, dato che il Presidente “Sergio Mattarello” la insignirà di una medaglia, ricevendo in cambio una bella pagnotta. I doni si ricambiano, non certo come gli “ndranghetisti” che ripagano il bene col male. Con buona pace di Giulietta, un nome è ciò che indica, ne legittima l’esistenza. Ma il nome che dovrebbe distinguere definitivamente dal contesto la giovane ne ribadisce le catene. Libonati, il padre sparito e desiderato, è il boss assassino di Maria. L’innocenza non basta a salvarsi dal marcio. E mentre si allontana su una bici dove ha posto un tricolore con la spensieratezza di una bambina, Carla avverte l’amarezza di come sia terribimente facile perdere quel poco in cui si crede in un’Italia che si desta per il calcio, ma non per scrivere una storia diversa. 

mercoledì 3 giugno 2015

“Bollari”, il canto della natura e della violenza



Il palco è ancora al buio quando risuona il canto del rematore. L’uomo emerge dall’ombra e in un movimento circolare scandisce il ritmo battendo sul petto. Sul mare il tempo ricade di continuo su se stesso e corpi e onde sono parte dello stesso respiro. Presso il Piccolo Teatro del Giullare di Salerno, in una scena riempita solo dal suo carisma, Carlo Gallo ha guidato il pubblico di Geografie, la rassegna ideata e diretta da Vincenzo Albano sul teatro calabrese contemporaneo, nel mondo primitivo, eppure vicinissimo, di “Bollari”, il nome che i pescatori crotonesi danno ai tonni, salutati con gioia  come una promessa di felicità. Su quella parola, urlata  con tutta la disperata energia di chi sogna un altrove, si chiuderà la messinscena strutturata come un intreccio di storie di uomini dediti da sempre alla pesca in un contesto a cui sembrano bastare i propri confini, ma che non sfugge alla violenza della storia. A figure delineate con realismo spiazzante (Mastu Rafele, padre nel narratore, orgoglioso e devoto conoscitore delle insidie dello Jonio che si è giocato una mano per una delle molte bombe fabbricate per uccidere i tonni; Suricicchio, che riscatta dinanzi alla morte la sua fragilità) si contrappone la tronfia prepotenza del fascismo, che oscilla tra retorica (la frase mussoliniana sul passo avanti a cui la Calabria è destinata) e prove di forza dal fiato corto. La realtà dei pescatori è percorsa da tensioni e contrasti, come mostra la lotta alla fame e il desiderio di controllare la Cicella, la più grande imbarcazione del tempo, ma possiede una forza e una dignità che nessun potere costituito può anche solo lontanamente immaginare. L’episodio, realmente accaduto, del cammello impigliato tra le reti, probabilmente gettato in mare da una nave fascista, diventa metafora dell’assurda pretesa, che puntualmente naufraga, di spingersi oltre tutti i limiti e che è propria di chi sceglie la via della guerra. La bomba che uccide Rafele e i tonni è una prefigurazione della frattura tra natura e uomo che il conflitto porta con sé. E se esplosioni ben più selvagge vogliono cancellare racconti e memorie, Carlo Gallo, moderno aedo, fa rivivere i sogni e il coraggio di chi insegue i bollari (e dunque, la vita) a dispetto di quel veleno che è l’ansia di ditruggere.