Non un semplice intento
celebrativo, ma la necessità di confrontarsi con una scandalosa fertilità di
pensiero. NottePasolini (atto I) è la manifestazione a cura di Alfonso Amendola
(cattedra di Sociologia degli audiovisivi sperimentali presso l’Università degli
Studi di Salerno) che, a partire dalle 18.30 del 31 ottobre esplorerà, presso
il Teatro Ghirelli di Salerno, gli aspetti di un itinerario creativo che non
cessa di affascinare e con cui il pensiero moderno ha contratto un debito
profondo. Dopo l’introduzione a cura di Antonio Bottiglieri (Presidente
Fondazione “Salerno Contemporanea”), Francesco Colucci (Capo dell’Ufficio
Rapporti con la Stampa
e Promozione d’Ateneo) e dello stesso Amendola, Vincenzo Del Gaudio (dottorando di ricerca all’Università Vita-salute San
Raffaele di Milano, critico teatrale e collaboratore presso la cattedra di
Sociologia degli audiovisivi sperimentali dell'Università di Salerno)
esaminerà la specificità del teatro di parola, Costantino
Vassallo (critico d’arte indipendente, legato
alle dinamiche dell’arte contemporanea e alle sue implicazioni con la filosofia
del Novecento) punterà l’attenzione sulla
capacità dell’immagine di farsi momento di transizione della percezione, Davide
Speranza (giornalista, addetto stampa di
enti culturali e organizzatore di eventi letterari), che propoporrà anche un breve contributo audiovisivo sulla relazione tra il “video-giornalismo”
d’inchiesta dell’intellettuale e il lavoro portato avanti dai due giovani
videoreporter Vincenzo Luca Forte e Giovanna Testa, indagherà i meccanismi di
omologazione del potere che da Pasolini a Socrate a David Foster Wallace si
perpetuano subdoli. Le scelte pasoliniane nel campo del documentario saranno
oggetto dell’intervento di Salvatore
Marfella, (critico cinematografico, cronista
culturale e collaboratore di “Canale Napoli”, “Rivista Milena”, “Città
future”), mentre spetterà a Elio Goka (scrittore, attivista, Direttore
Rivista “Milena”) raccontare del bisogno di libertà che l’autore di “Ragazzi di
vita” portava da sempre dentro di sé. Francesco Savastano presenterà in seguito
la mostra “Atto 1: Periferie” con opere di Maria Teresa Cavaliere, Vincenzo
Iodice e Nicholas Tolosa, uno sguardo attento alle atmosfere suburbane care
all’autore. “Salò o le 120 giornate di Sodoma” e “Teorema” ispireranno alle 21.30. “VietatoPornoAmen”, l’atto unco della Compagnia Teatro Grimaldello diretta da
Antonio Grimaldi.
venerdì 31 ottobre 2014
martedì 21 ottobre 2014
“La merda”, viaggio attraverso il disgusto
Non è poi così orrendo fare
ciò che non piace (la fellatio a qualcuno che conta, per esempio). Si resiste.
Ci si abitua. Non è forse la resistenza che ha fatto grande questo Paese? Non
si dimentica il caustico e feroce percorso di degradazione di “La merda”, lo
spettacolo di Cristian Ceresoli con Silvia Gallerano, accolto con entusiasmo al
Centro Sociale di Salerno. L’evento ha fatto parte del cartellone “Per voce
sola – Parole della nostra scena” ideata e diretta da Vincenzo Albano e
sostenuta dalla rivista Puracultura. In un climax disturbante scandito dai
segmenti narrativi Le Cosce, IL Cazzo, La Fama, nuda su un alto sgabello, la protagonista
racconta la sua scalata al successo, ovvero la partecipazione a uno spot in cui
il canto dell’inno nazionale deve essere eseguito da una donna sovrappeso. La
nudità è un aspetto coerente della pièce. L’etica è etimologicamente legata al
concetto di ethos, abito, il sistema di valori di cui rivestirsi per
distinguersi e trovare un senso, ma non c’è traccia di questo nella vogare
Italia che fa dell’apparenza il suo culto. Il corpo va mostrato, esibito,
offerto come merce. Ad essere nudo, cioè pronto a esplodere senza filtri, è
l’istinto di sopravvivenza che coincide col bisogno assoluto di essere
riconosciuta e ammirata dal pubblico. Sono gli occhi degli altri a sancire
un’esistenza, a rivestirla di un valore. E poiché nulla viene regalato, chi
vuol vivere sotto i riflettori deve essere una predatrice, anche se ripugnanza
e ambizione si mescolano. Di qui l’insistenza sulla dimensione orale,che
approda al cannibalismo e alla coprofagia: mangiare le proprie cosce perché non
consone al comune canone di bellezza, i “cazzi” di chi possa assicurare la
notorietà, i propri escrementi per non perdere i chili accumulati in vista
della partecipazione televisiva. La posizione dell’attrice in scena rimanda a una
frustrazione che la consuma. L’urgenza di elevarsi rispetto al contesto rivela
una mostruosità speculare, dato che chi la circonda oscilla tra vacuità e
opportunismo, a eccezione del padre, devoto all’ideologia dei Mille e non a
caso suicida: il passato, specialmente quello circondato dalla gloria, risulta
stantio in un’epoca senza memoria e remore. Nel deformare la bocca, la voce e i
gesti con una mobilità espressiva che ha dello stupefacente, la Gallerano incarna un
tempo sigillato nel proprio nulla. E quando intona dolcemente l’inno prima che
il buio l’avvolga, è ormai certo che su questa Italia (ma il discorso diviene
universale) è ormai calata definitivamente la notte.
lunedì 6 ottobre 2014
Umano e virtuale in Luca Trezza
“Santo Mouse, Santo Klaus,
Santo Cell, Santo Nick, Santo Auditel…”. Davvero singolare, la preghiera che percorre
la vicenda sulla scena. Ancora più singolare, però, è assistere a un’umanità
che ha deciso di dissolversi in uno scenario virtuale. Applaudito al Piccolo
Teatro del Giullare di Salerno, dove è stato presentato in anteprima nazionale,
“Trittico del mio byte” di e con Luca Trezza ha costituito la seconda tappa di
“Per voce sola”, la rassegna diretta da Vincenzo Albano che si avvale del
sostegno della rivista Puracultura. Il mondo che l’artista salernitano porta in
scena è un deserto popolato da fantasmi e da comportamenti stereotipati in cui
le pulsioni entrano in rotta di collisione con una solitudine impossibile da
scalfire se non nel sogno, nell’allucinazione, nel chiamarsi fuori da uno
spazio tanto più claustrofobico quanto più appaia privo di confini. Nel primo
monologo, “Abbokkapertaà”, la
descrizione della madre cercata con disperata ostinazione è rivelatrice: “Era
alta pressappoco così, un cellulare non ce l’aveva, non aveva nemmeno una
bacheca”. La donna non ha diritto di cittadinanza in un contesto di riti e
gesti all’insegna dell’omologazione; non c’è spazio per chi non sia
assimilabile alla rete e ai suoi dettami. La perdita della madre è perdita
anche della propria ragione di esistere: quando il protagonista immagina di
essere divorato da lei, la carne sta rivendicando la sua supremazia su tutto
quello che le è estraneo. E solo un cantico –che con intento metateatrale è
l’opera in sé- può annullare distanze, mantenere vive le memorie, recuperare un
senso. La necessità di raccontare- attraverso un linguaggio che mescola e
stravolge i registri più disparati- tenta sempre di arginare la frammentazione
dell’io che si riflette nei gesti inconsulti e violenti di Trezza, un corpo che
ha bisogno dell’eccesso, del violento protendersi per ricordare a se stesso di
non essere solo qualcosa di catalogabile. In “Neo’.melo’.Diko” le figure
proposte sono estremamente tipizzate (la ragazza “facile”, l’impresario senza
scrupoli, la nonna affettuosa, il cantante sognatore) perché in una società
affascinata dalla sopraffazione non c’è posto per chi ha un sogno da difendere.
L’egoismo di chi vuole imporsi non è meno alienante della dipendenza da
Internet, che porta a deificare i mezzi tecnologici. La reazione a una tale
complessità è leggibile nella scenografia, basata su pochi elementi: il busto
di un manichino femminile che compensa invano la mancanza e a cui scattare foto
col cellulare che non assicura mai una comunicazione reale, senza filtri, una
piccola padella che funge da sterzo o da difesa, pasta da calpestare per mimare
il rumore di una finestra che si apre. In “Racconto di fine mese verso le 3e
1\2 della notte” i rumori di un attacco sono presto soppiantati da quelli, non
meno disturbanti, della connessione. Il reduce in scena è cieco (ma cieco è
quel che lo circonda, perché prigioniero di una coazione a ripetere i propri
meccanismi) ed escluso dalla scelta di tutti di essere “sulla schermità”. E il
senso di vuoto è così profondo da togliere il respiro.
venerdì 3 ottobre 2014
Luca Trezza in “Trittico del mio byte”
Luca Trezza conosce molto
bene i meccanismi dell’alienazione e della perdita. Sa descrivere come nessuno
quel silenzio ostinato dell’anima che si impossessa di chi si muove nel delirio
della sovraesposizione mediatica senza soddisfare realmente i propri desideri.
Già in "wwww.testamento.eacapo" (I posto nella sezione Teatro del
Festival della creatività di Roma Capitale 2013 ed attualmente finalista al
Festival “Le voci dell’anima” 2014 di Gioia del Colle/Milano/Rimini) esaminava
l’instabilità di un internauta. Stasera alle 21, presso il Piccolo Teatro del
Giullare, l’artista salernitano tornerà nella sua città natale con “Trittico
del mio byte”, lo spettacolo che segna il secondo appuntamento con la rassegna
teatrale “Per voce sola” - parole della nostra scena”, ideata e diretta
da Vincenzo Albano. “Abbokkapertaa
+ Neo’.melo’.Diko. + Racconto di fine mese verso le 3e 1\2 della
notte” costituiscono le tre tappe di un viaggio in una mente inquieta,
che insegue senza sosta e senza successo un punto di riferimento che possa
orientare nel caos di pensieri e urgenze emotive. Nella prima parte dello
spettacolo la perdita di una madre è anche perdita
del proprio mondo interiore: la desolazione di scoprirsi soli si carica di
fortissima tensione, mentre il contesto in cui il protagonista si muove non
sembra essere più rassicurante. I sogni di gloria di un cantante neomelodico in
America, che si intrattiene con un impresario, una nonna, una ragazzina, diventano bilancio destabilizzante in “Neo’.melo’.Diko”, mentre la conclusione
della messinscena vede protagonista un
anziano, affetto da “arteriosclerosi digitale” alle prese con il racconto delle
proprie vicende. La narrazione non ha tuttavia la funzione di un
esorcismo, di una liberazione: inchioda chi racconta alle proprie nevrosi, a
ciò che di irrisolto torna di continuo ad assediarlo. Una pièce simile non può
non avere la struttura di un monologo, in cui il personaggio resta solo a
considerare ciò che è stato e ciò che avrebbe potuto cambiare le carte in
tavola. Lo stesso Trezza illustra il movente di un’operazione così complessa:
“Un modo per dire di sé attraverso il battere di un
cuore fatto come un byte, per far rivivere in questo altrove chi non c’è più,
per stare noi stretti stretti, vicini, mentre questa guerra moderna di
chiamate, sms, trilli e post di bacheche virtuali ci invade. A noi non resta
che pregare, invocare, delirando una preghiera per questi aggeggi moderni come
madonne contemporanee, pieni di arcani e di suggestioni”
Orazio Cerino in “Condannato a morte. The punk version”
Morire prima della morte è una crudele prerogativa di chi è destinato alla pena capitale. Lo si osserva come se fosse già nella bara, come se la meta fosse stata raggiunta nonostante il viaggio sia ancora in atto. E allora esplode la rabbia di chi non si rassegna a un copione scritto da altri. Orazio Cerino è l’appassionato protagonista di “Condannato a morte. The punk version”, audace ripensamento de “L’ultimo giorno di un condannato a morte”, pubblicato da Victor Hugo nel 1829, in scena il 3 ottobre alle 21 presso l’antica Ramiera di Giffoni Valle Piana e in replica dal 10 al 12 ottobre presso il Teatro Il Primo di Napoli. Davide Sacco cura la regia, Luigi Sacco la scenografia, Clelia Bove i costumi, mentre le musiche sono eseguite dal vivo da Martina Angelucci e le luci portano la firma di Francesco Barbera. Patrocinata da Amnesty International e dal Giffoni Film Festival, la messinscena è volutamente scarna (uno spazio spoglio che riecheggia la solitudine del protagonista), perché dinanzi alla fine gesti, pensieri, memorie non possono che mostrarsi in tutta la loro straniante nudità. Cerino chiama in causa gli spettatori, seduti ai bordi del luogo in cui si muove, rendendoli di volta in volta carcerieri, confidenti, testimoni dello scontro più cupo che si possa combattere: quello contro una repressione ammantata di rettitudine. Il condannato formula a sua volta una condanna: il sistema che annienta all’ombra di una morale cieca uccide se stesso. Il corpo riscopre una sua sacralità, a dispetto di tutti i codici a guardia di istinti e pulsioni.
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