lunedì 27 maggio 2013

Roma, al Piccolo Eliseo “Esequie solenni”



Se la morte è il momento della verità, solo lo sguardo di due donne straordinarie può sottrarsi all’insopportabile ipocrisia che l'attornia. “Esequie solenni”, che Andrée Ruth Shammah dirigerà fino al 31 maggio al Piccolo Eliseo Patroni Griffi di Roma, basandosi sul testo di Antonio Tarantino, racconta intensamente l’incontro tra Nilde Iotti e la vedova di Alcide De Gasperi. Ivana Monti e Laura Pasetti convincono critica e pubblico in quella che si apre con i toni di una sfida, di un’inconciliabile vicinanza, per poi assumere la forma di un confronto libero e a tratti provocatorio. Franca e Leona si incontrano all’indomani della morte di Togliatti e si trovano alle prese con un peso che diviene sempre più insopportabile: il controllo delle strutture di partito, la difficoltà con cui una donna possa affermarsi, un’eredità da custodire, ma che rischia di annullarle, di strapparle a un’autocoscienza che possa finalmente rimescolare le carte. I dialoghi, che nel loro ritmo incalzante e nella tagliante ironia s’impongono subito all’attenzione, attaccano la sopraffazione di cui il potere si nutre da sempre e ne sottolineano la dimensione grigia, monolitica, il sospetto verso chi abbia il coraggio di essere solo se stesso. Il diverso cammino compiuto dalle protagoniste le induce a rivelare affinità insospettate: la solennità delle esequie è chiara metafora di chi vuole seppellire il senso critico in quella bara che è la costrizione dell’ideologia. Nessuna ideologia può però porsi al di sopra dell’anima di un individuo.

lunedì 20 maggio 2013

“La confessione” di Walter Manfrè, anime nude in scena


In una sequenza memorabile de “Il Gattopardo” diretto da Luchino Visconti, il principe Fabrizio (Burt Lancaster) rimprovera il sacerdote, interpretato da Romolo Valli, per la ritrosia a guardarlo mentre esce dalla vasca, ricordandogli che “la nudità delle anime è molto più indecente”. Quella dei peccatori che si alternano ne “La confessione” di Walter Manfrè è addirittura straniante: istiniti inconfessabili, pulsioni che riemergono ostinatamente, ipocrisie che vanno in pezzi si susseguono dinanzi allo spettatore chiamato ad ascoltare e giudicare, mentre un Prete Folle (Francesco Silvestri) lo catapulta all’interno di questo crudele cerimoniale. Lo spettacolo, che si terrà a Cosimo dal 24 al 26 maggio presso la Sala Pietro Palazzo, prevede che, su inginocchiatoi disposti su due file, dieci attori si confessino dinanzi a dieci spettatrici e che dieci attrici facciano lo stesso con altrettanti uomini del pubblico. Aldo Nicolaj, Stefano Benni, Dacia Maraini, Vincenzo Consolo, Aurelio Grimaldi sono solo alcuni degli autori dei monologhi, a cui hanno contributo nel corso degli anni altri scrittori italiani e stranieri. Offrirsi senza pudore al pubblico e lasciarsi ridefinire da diverse forme di scrittura fa della rappresentazione un discorso perennemente aperto su ciò che si vorrebbe dimenticare e una provocatoria messa in discussione dello statuto teatrale. Il voyeurismo di chi osserva diviene condivisione di una colpa che è anche specchio, per quanto distorto, della propria umanità; nel denudare la propria anima davanti a chi lo confessa, l’attore compie una sorta di maieutica rovesciata. Bisogna abitare il buio per comprendere cosa sia, ammesso che ci sia, la luce.

sabato 18 maggio 2013

Il teatro coraggioso di Francesco Silvestri



Come combattere un dolore che divora la mente e il corpo? Con un amore tanto esclusivo da diventare una consacrazione. Non fatevi ingannare: l’enfasi e la commozione a buon mercato sono lontane anni luce dal teatro di Francesco Silvestri, che interpreterà fino al 19 maggio presso l’ex Chiesa SS Nicolò ed Erasmo di Modica Alta,sede dell'Accademia Teatrale Clarence, “Fratellini” con Vincenzo Tumino. La performance di Silvestri nel ruolo di Gildo toglie il respiro per la sua capacità di coinvolgimento, ma Tumino non gli è da meno nel suo dolente controcanto fatto di sguardi disperati e affettuosi e di parole ridotte all’osso. Con il pretesto di recarsi ogni giorno a messa, Gildo, che ha un lieve ritardo mentale, accudisce il fratello malato di aids e di fatto recluso in una stanza d’ospedale dove neppure le suore osano avvicinarsi, abbandonato dalla madre stessa, che è nominata con disagio ed è a sua volta prigioniera, murata nel suo aggressivo dolore. La solitudine si avverte fin dall’inizio della rappresentazione, quando riecheggiano per pochi istanti mille voci lontane di quella distratta e confusa quotidianità che esclude il giovane. Poiché il protagonista ha solo il tempo della celebrazione eucaristica per stare con il suo amato “fratellino” (che senso avrebbe dargli un nome? È una parte di lui), inframmezza i suoi discorsi con le parole del sacerdote per sapere quanto possa ancora trattenersi in ospedale. Gli racconta fiabe, impressioni, lo incoraggia, muove un aquilone sulla sua testa per inventare una libertà che gli è negata, rivendica il suo diritto ad accoglierlo, comprenderlo, difenderlo, esorcizzare la morte, leggendo per esempio nelle macchie sul suo corpo figure sempre diverse, come in un gioco tenero. Lo spoglia completamente e lo lava, nominando il corpo di Cristo (la nudità ricorda che è il rifiuto della carne a essere folle) e mostrando una volta di più che è la vita in se stessa a essere sacra. Il rituale amoroso di Gildo vale più di ogni messa e di ogni pregiudizio. L’uno è spazio e tempo dell’altro. E quando il fratello lo invoca con forza nel finale, come trascinato lontano dall’aquilone in una prefigurazione della sua fine, esplode il bisogno di anteporre il sogno e il desiderio a una realtà che è già morta, chiusa a chiave nella sua cecità come una madre che, a differenza del pazzo Gildo, sceglie di essere tomba e non più occasione di vita.

“La finestra sul cortile”, le insidie dello sguardo



“Se puoi vedere, guarda. Se puoi guardare, osserva” recita un proverbio. Può essere difficile però comprendere fino a che punto gli occhi si aprano al mondo o non pretendano invece di rinchiuderlo nel proprio sguardo. In che misura il vedere è un vedersi? E se l’atto di osservare fosse al contrario una forma di cecità, in modo da sfuggire a ciò che si è o si pretende di essere? Nella rilettura dell’opera di Cornell Woolrich Claudio Di Palma, regista e interprete al fianco di Andrea de Goyzueta de “La finestra sul cortile”, in scena al Teatrro Ghirelli di Salerno fino al 19 maggio, analizza le ambiguità legate alla tensione tra soggetto e oggetto della visione. Un uomo fa del suo computer un onnipresente punto di osservazione. Attraverso un sistema di telecamere nascoste può seguire le vite dei suoi dirimpettai che si compongono come un mosaico sempre cangiante dinanzi a lui. Mille prospettive si fondono in quella del protagonista, che crede di aver individuato un omicidio. Al di là delle dinamiche proprie del giallo, lo spettacolo insinua un dubbio nello spettatore. Le figure che ossessionano l’uomo che ha scelto la sua reclusione potrebbero essere fantasmi o forse il fantasma è lui, prigioniero non delle certezze, ma delle trappole in cui l’urgenza di scrutare, inseguire, capire lo precipita.

sabato 11 maggio 2013

“Attesa” di Antonio Grimaldi ad Angri



Si può raccontare una storia nel silenzio quasi perfetto di una stanza, affidandosi a una voce registrata fuori campo (interferenza, eco, proiezione, sottotesto di ciò che avviene in scena). Come comprendere però quando quella stessa storia si conclude? “Attesa”, il copione diretto da Antonio Grimaldi, qui anche nella veste di interprete, andrà in scena al Teatro Oratorio Santa Caterina di Angri il 12 maggio alle 18. Il cast comprende Luciano Dell'Aglio, Gabriella Orilia, Cristina Milito Pagliara, Massimo Villani; i testi e la voce sono di Alfonso Tramontano Guerritore, le maschere di Angelo Russo e Bonaventura Girodano. Attendere non significa solo prepararsi ad accogliere qualcosa (in questo caso, il ritorno di un uomo da una guerra il cui fronte potrebbe essere nelle coscienze prima ancora che in luoghi definiti), ma anche dare un volto diverso al tempo e allo spazio, ascoltare i fantasmi che si preferisce relegare nella buia zona del non detto, percepire mutamenti sotto la patina inutile dei giorni. Un uomo e una donna scelgono di appartenersi, ma non sono preparati a sostenere la fragilità dei propri bisogni. In un allestimento che procede lungo metafore e assonanze, dove l’incubo può affacciarsi in ogni istante a ricordare quanto tutto sia effimero, l’attesa è una partita aperta con urgenze dell’anima che rimangono lì, a smascherare tutti gli inganni dell’impossibile normalità.   

venerdì 10 maggio 2013

“Esercito d’amore”, il corpo si racconta



Come raccontare il sentimento più antico del mondo schivando le trappole della retorica? Affidandosi a una gestualità che rifiuti ogni diaframma tra il corpo e l’anima. Si nutre di analogie mai scontate “Esercito d’amore”, lo spettacolo che Antonio Grimaldi dirigerà sabato 11 maggio alle 21 alla Mediateca Marte di Cava de’Tirreni su testi di Alfonso Tramontano Guerritore. Attraverso una coreografia che potenzia le suggestioni del linguaggio misurandosi con una serie di opposti (tenerezza e violenza, unità e dispersione, ricerca dell’altro e consapevolezza di dover cercare solo in sé la ragione per continuare), il cast conduce la sua riflessione sul concetto di storia come anagramma all’apparenza privo di senso. Le bandiere che campeggiano sullo sfondo inframmezzate da cuori sono ridotte alla condizione di puri significanti: l’affresco multiculturale che vorrebbero suggerire somiglia più a uno specchietto per le allodole che a una realtà concreta e i corpi che si slanciano, si abbracciano, si scindono, ora mossi da un’urgenza interiore, ora travolti da ciò che non si lascia controllare (la forza della vita in sé) ridisegnano continuamente i confini del desiderio, esorcizzando in un’armonia impossibile il male di vivere.

lunedì 6 maggio 2013

“Solo andata”, il dramma dei migranti



La voce assume l’accorata concretezza del corpo e il corpo diventa insinuante come la voce in “Solo andata”, lo spettacolo che Antonello Cossia ha proposto al Marte di Cava de’Tirreni sulla base di un testo di Erri De Luca. Il blues di Francesco Sansalone e le immagini di Mario Laporta, fornite dalla Agenzia Fotogiornalistica Controluce e prodotte da Carlo Hermann e Roberto Salomone oltre che dallo stesso Laporta, hanno scandito l’odissea dei migranti che, sognando un mondo diverso, da oltre vent’anni tentano di raggiungere la penisola, morendo a migliaia in mare. Aprendo la narrazione con una citazione tratta da “Moby dick”di Melville (la distesa marina come surrogato della pistola) per poi giungere all’orrore del naufragio in “Oceano mare” di Baricco, l’elemento acquatico è restituito in tutta la sua ambiguità: è specchio del deserto percorso a piedi da infinite distanze, esorcismo dell’angoscia, tomba, illusione di riscatto, ostacolo invalicabile, miraggio che strega. Cossia ricorre a strumenti all’apparenza elementari come una tinozza colma d’acqua e una barca di carta, ma non è intenzionato a seguire una facile analogia. A dominare le sue scelte sussiste il bisogno lancinante di azzerare qualsiasi diaframma tra il linguaggio e le cose. Tutto ciò che viene detto deve tradursi in una dimensione materiale che coinvolga lo spettatore ed ecco che le istantanee incarnano la parola che a sua volta trova un riflesso nella musica. Come il profugo non vede che mare attorno a sé (lo spazio refrattario al confine che confina nella disperazione e nei propri flutti), allo stesso modo chi assiste a “Solo andata” percepisce a ogni livello l’assedio con cui gli elementi e gli uomini serrano la gola ad altri individui. La voce di Cossia assume colori sempre nuovi all’interno di un ritmo che solo a un primo approccio risulta abbastanza uniforme: è lamento, rabbia, nostalgia, sussulto del morente, respiro che ricomincia dopo un tempo illimitato. Il dolore non si rinchiude tuttavia in se stesso, ma si fa atto d’accusa alla cecità altrui. La “Profezia” di Pierpaolo Pasolini si innesta, come svolta necessaria, nel discorso, ricordando che la vita è dove non la si sospetta: nella miseria degli ultimi vi è la rinascita di un Occidente anestetizzato da compromessi e meschinità. E la lirica di De Luca, “Valore”, ricorda che non esiste una gerarchia tra i piccoli e grandi eventi che intercettano un’esistenza. Ogni aspetto è prezioso, in ogni sguardo esistono, malgrado violenza e disprezzo, mille possibilità.

mercoledì 1 maggio 2013

A Roma i Melisma in “Traumdeutung”



Piombare nell’inconscio senza paracadute e lasciarsi trasportare dalle sensazioni legate alla musica di parole in libertà. L’invito di “Traumdeutung” di Edoardo Sanguineti è chiaro e non resta che accettarlo incondizionatamente. La compagnia Melisma (Loredana Mauro, Emilio Barone, Francesco Petti, Carlo Roselli, che offrono qui una performance del tutto coinvolgente) allestirà lo spettacolo il 2 e 3 maggio al Teatro Tordinona di Roma. I protagonisti accolgono gli spettatori nel buio completo con piccole pile, si mescolano a loro, intrecciano il resoconto dei loro sogni in una straniante polifonia: espediente necessario per immergersi subito nelle zone recondite della mente. Numeri, corpi, cadute libere, distanze, spazi aperti, desideri si compongono progressivamente in un oratorio onirico dove le voci diventano strumenti musicali a tutti gli effetti. Quando la donna è immersa in un sonno agitato e le figure maschili si protendono ai bordi del letto, incarnano le sue pulsioni, il rimosso sopraggiunto a rimuovere la cosiddetta realtà. La sognatrice dona a sua volta voce a ciò che si agita nella mente dei suoi compagni di viaggio, mentre le note di Giovanni Battista Pergolesi e Salvatore Sciarrino creano da un lato un ironico contraltare, sottolineando solennemente ciò che non si lascia categorizzare, dall’altro ricordano l’inafferrabilità del suono, la sua capacità di ridefinire confini e di annullarli. Mettete da parte ogni difesa razionale e questa felice anarchia vi renderà liberi.

“Il gusto dell’intimità” al Teatro Obadiah



Inutile credere che l’amore sia un modo per ritrovarsi: è in realtà il momento in cui fragilità e illusioni appaiono in tutta la loro spietata concretezza. Il primo maggio alle 21, al Teatro Obadiah di Oppido Lucano, Carlotta Vitale e Mimmo Conte, che cura anche la regia, raccontano in “Il gusto dell’intimità” il percorso accidentato di due individui che vorrebbero scrivere insieme la propria storia, ma non superano il divario tra il desiderio e l’alienante succedersi dei giorni. Lo spettacolo della Compagnia Gommalacca Teatro, coprodotto dal Teatro Pubblico Campano e vincitore del Premio Nuove Sensibilità 2010/2011, si basa su di una serie di scelte espressive raffinate e crudeli: calici accostati lentamente che alludono al bisogno di condivisione, uso disturbante della musica che rimanda all’impossibilità di comunicare, vicinanze che allontanano fino a fare della propria casa una sorta di campo di battaglia dove muoversi carponi, mentre una luce raggelante è puntata sulla grottesca lotta per il telecomando, le immagini di “Otto e mezzo” proiettate sullo sfondo per ribadire l’incompiutezza di un dialogo. Se la solitudine non vede che se stessa, non resta che riservarsi un ultimo sguardo, inseguendo ostinatamente nel ricordo tutto quel che non ha avuto la forza di resistere a una vita fuori sincrono.