mercoledì 27 febbraio 2019

“Questi fantasmi!”, lo spettro della felicità



Fantasmi, apparizioni, sparizioni? Sciocchezze, sostiene la logica. Eppure è preferibile credere al soprannaturale piuttosto che capire che l’unico fantasma è la felicità. Allestito al Teatro Verdi di Salerno da Elledieffe, la Compagnia di Teatro di Luca De Filippo diretta da Carolina Rosi per la regia di Marco Tullio Giordana, l’eduardiano
“Questi fantasmi!” si conferma, pur negli esilaranti momenti di comicità, uno dei copioni più inquietanti e amari del Novecento. In quella camicia di forza che è la quotidianità, dove è il denaro a dare coraggio e senso a giorni sempre uguali, gli spiriti sono alibi dell’egoismo o mistero che sconcerta, ma hanno comunque l’infinito pregio di essere oltre lo stantio susseguirsi di meschinità su cui l’unico sguardo positivo- perché disilluso- è quello dell’invisibile Professor Santanna, che ha pirandellianamente capito il gioco. Pur conformandosi alla tradizione nella messinscena, Giordana annulla in alcuni momenti. la forza evocativa dell’opera. La pazzia della sorella del portiere (il dignitoso Nicola Di Pinto) è dovuta all’incubo di uno stupro da parte di un fantasma, mentre nel testo alla comparsa di un uccellino tiene dietro un urlo selvaggio, lasciando galoppare la fantasia dello spettatore. Giovanni Allocca crea un convincente Gastone che si ritrova addosso con gesti inconsulti la lucertola che nel copione gli sfugge, mostrata al pubblico perché il numero di avanspettacolo non lasci dubbi proprio come il tentativo di seduzione della padrona di casa. Maria (Carolina Rosi, sospesa tra passionalità soffocata e orgoglio) abbandona sia il marito che l’amante (Massimo De Matteo, attento e coinvolgente): una bella prova di libertà, che però toglie spessore al fosco futuro che incombe su Pasquale quando il tradimento si riproporrà “sotto altre sembianze”. Che lo stesso De Matteo, dopo l’apparizione di Armida (Paola Fulciniti, interprete di grande generosità) intoni tra il secondo atto e il terzo atto “Oi marì”, muovendosi in mezzo agli spettatori, è scelta decisamente incongrua, dettata dalla volontà di assecondare stereotipi cari al pubblico. Mentre Gianfelice Imparato crea un protagonista ruvido e concreto, capace di non sottostare al ricatto psicologico che il ricordo di Eduardo impone, il regista, preferendo la sovraesposizione di sentimenti e contraddizioni, dimentica che l’ambiguità tra essenza e apparenza è un vicolo cieco che non si può fare a meno di imboccare. Anche se cerchiamo di dimenticarlo,come afferma Pasquale in una menzogna sfacciatamente vera, “siamo noi i fantasmi”.

domenica 24 febbraio 2019

"Socialmente", media e nevrosi



Quando li si vede sfibrati, stralunati, ipnotizzati dal televisore che fissano come se lo sguardo non potesse avere che una direzione, è facile pensare che siano agli antipodi della normalità. E invece si sta assistendo a una nevrosi che tutti respiriamo come se fosse ossigeno. Ideatori, registi e interpreti, Francesco Alberici e Claudia Marsicano offrono con “Socialmente” di Frigoproduzioni un ritratto implacabile di chi sceglie di farsi vampirizzare dai media in una sorta di culto molesto, che pretende corpi sempre all’altezza della situazione e anime come vuoti a perdere. Lo spettacolo, applaudito al Centro Sociale di Salerno, rientra nel cartellone di Mutaverso, il progetto sostenuto dalla Erre Teatro di Vincenzo Albano. I protagonisti, tanto carismatici che è impossibile staccare loro gli occhi di dosso (ampliando così la suggestione dell’allestimento come prigione della percezione) incarnano i due volti- ormai indistinguibili- dell’esibizionismo: l’ansia di brillare nello star system e il bisogno di esorcizzare frustrazioni e solitudini. Il frigo che presenta la F di Facebook allude alla voglia di divorare immagini, chat, emoticon ma anche di esserne divorati: i protagonisti entrano ed escono da questo vero e proprio archivio di informazioni, ricordi, messaggi, totalizzante al punto di risucchiare quasi tutta la luce del palco, dove il contatto umano è in effetti congelato nell’attesa, puntualmente tradita, che si trovi uno sbocco a una condivisione che è solo masturbazione allo specchio. Francesco Alberici si mette in gioco senza respiro nel misurarsi da un lato con il desiderio sessuale, provocato da una chat, represso a fatica e pronto a deflagrare con la violenza di un pugno, dall’altro con l’amara constatazione che gli “amici” contattati non siano che numeri. Claudia Marsicano, eccellente equilibrista tra apatia astiosa ed entusiasmo febbrile, tra coreografie ossessionanti, coazione a ripetere e senso del nulla, dialoga col televisore sognando l’affermazione in un talent show e soffrendo l’esclusione dal successo. Anche quando sono vicini tra parole che girano a vuoto e voci fuori campo di giovani intervistati ben lieti di essere sempre connessi, sono incapaci di riconoscersi davvero in qualcosa. Non vale a nulla cantare a squarciagola “Oggi sono io” di Alex Britti prima di accasciarsi come sacchi vuoti: chi annega nel mare magnum dei social può dire tranquillamente addio a quel concetto ingombrante che è l’identità. Tenetevi per voi tutto ciò che non avete il coraggio di essere; la corsa al like non aspetta.

domenica 3 febbraio 2019

“Winston vs Curchill”, il peso scomodo della storia



Che quello scapestrato di suo figlio fosse destinato a lasciare un segno nella storia, è qualcosa che il padre di Churchill non avrebbe immaginato neppure in sogno. Che il potere logori soltanto chi non ce l’ha è una bugia che molte porte chiuse e molte solitudini potrebbero prontamente smentire. Basato sul testo di Carlo Gabardini, “Churchill, il vizio della democrazia”, lo spettacolo “Winston vs Curchill”, diretto da Paola Rota e allestito al Teatro Verdi di Salerno, ha visto all’opera un energico Giuseppe Battiston, che ha redarguito senza mezzi termini l’ennesimo spettatore mononeuronico troppo innamorato del proprio cellulare per rendersi conto che il teatro è un luogo in cui si pensa. E se non esiste più il pubblico di un tempo, anche gli uomini non brillano più delle antiche qualità. La solitudine in cui di fatto si muove il protagonista è anche quella di un’umanità che preferisce archiviare, sotterrare, dimenticare. Rinunciare alla propria natura è però impossibile ed ecco che Churchill, all’interno di un cerchio di minuscole luci come si conviene a una star sotto i riflettori, ricorda a briglia sciolta fasti, momenti tetri, contrasti, battute di spirito, complessi equilibri, discorsi ufficiali in cui scommettere tutto, la credibilità prima della vita, senza risparmiare a nulla e nessuno un sarcasmo che avrebbe messo a dura prova anche i nazisti. Ostinato nei propri vizi per opporsi al cane nero, come lui chiama la depressione che gli mangia l’anima, facendo della sua imponenza fisica il riflesso di un peso troppo grande (la salvezza della patria), lo statista celebra il proprio egocentrismo tra un Churchill Martini, un sigaro e ricordi ingombranti: una figlia suicida, il bisogno di avere ancora tutto nelle proprie mani, la voglia d’amore soffocata ma non spenta. L’infermiera al suo fianco (la carismatica Maria Roveran) diventa compagna di gioco (quali sarebbero le ultime parole di entrambi?) ma anche vendicatrice: il padre è tornato distrutto dalla guerra voluta proprio dal suo paziente ed è stato proprio il nome di quest’ultimo a restare sulle sue labbra in punto di morte. La donna non sa perdonargli di aver fatto la cosa giusta, di aver promesso e mantenuto “lacrime e sangue”.  Le conseguenze di una scelta diventano cicatrici. Chi sopravvive a un disastro non riesce mai ad allontanare definitivamente l’ombra della morte, ma l’interpretazione appassionata di Battison impedisce di cadere nella trappola della retorica. Il personaggio eccessivo e inquieto che viene pazientemente costruito sa conquistare e coinvolgere, mescolando con rara scaltrezza dignità, dolore e sfida continua alla rassegnazione. Quando un discorso che incoraggia le nuove generazioni ad agire per la società risuona alla radio e l’uomo resta seduto in poltrona, sta celebrando il suo funerale. Al tempo stesso però sta dimostrando che il passato non è stato vano. In fondo, come dicevano già i Greci, “anche al tramonto è sempre sole/il sole”.

Pirandello secondo Principio Attivo Teatro



Opporsi all’arte giovane e contemporanea non è affare per i deboli di cuore, come ben sanno Leone Marco Bartolo, Dario Cadei, Carla Guido, Otto Marco Mercante, Cristina Mileti, Giuseppe Semeraro, che è anche regista. Occorre essere pronti a tutto, anche a recintare il pubblico con il nastro che si riserva alle scene del crimine, senza risparmiare filo spinato. Bisogna amare fino al ridicolo, fino allo spaesamento l’illusione che un palcoscenico abbia ancora qualcosa da dire. Prova interpretativa di grande coinvolgimento, “I giganti della montagna atto III”, proposto da Principio Attivo Teatro presso il Centro Sociale di Salerno nell’ambito della quarta stagione di Mutaverso, diretta da Vincenzo Albano per Erre Teatro, è un caustico tentativo di difendere “l’arte vecchia”, ovvero pirandelliana, attraverso un ricorso iperbolico al linguaggio metateatrale (che sarebbe ormai il caso di definire ultrateatrale) caro anche agli artisti dei giorni nostri. Ricevuta l’investitura laica dalla voce fuori campo di Pirandello (la narrazione al figlio Stefano dell’atto incompiuto), il gruppo avanza al buio portando sulle spalle il corpo di Ilse, che intona “Lascia ch’io pianga”di Handel. Le tenebre alludono alla cecità di un pubblico estraneo al piacere di essere ingannato, che deve essere conquistato con una canzone moderna enfatizzata da un selfie per entrare in contatto con gli interpreti, e nel corpo della donna si riflette il sacrificio totale che il mestiere di attore richiede. Mestiere tutt’altro che allegro, dato il susseguirsi di gelosie, battibecchi, dispetti, fraintendimenti, proprio quando al di là di un fondale illuminato la platea mugghiante ricorda un bestione disposto alle barzellette ma non certo all’impegno. L’identificazione tra arte e vita produce effetti dolorosamente comici: “Devo recitare io che recito o devo recitare che devo recitare io che recito?” chiede Diamante, rincorsa tra gli spettatori dal capocomico, perché sottrarsi alla recitazione significa cadere nel buio sordo di chi vede solo le pareti del proprio stomaco. I momenti in cui compare il fascino della parola e del gesto sono simili a fuori-onda, inciampi lungo la via più facile per soddisfare i paganti. La vittoria appartiene purtroppo ai giganti. Il gruppo scompare come è apparso, il fondale crolla rivelando i nudi trucchi dell’allestimento. Se i presenti fingono di essere lo scopo per cui il teatro esiste, che almeno la finzione di un palco racconti un briciolo di verità.