venerdì 28 dicembre 2018

“Farsi silenzio”, il respiro del mondo



Puro, intangibile, assoluto. Ma anche pronto a lasciarsi contaminare, sempre teso a sfuggire a quelle “gabbie stupide” che sono le definizioni. Il sacro si richiude su se stesso nel momento in cui lo si cerca, spingendo a desiderarlo dove nessuno spenderebbe sguardi e parole. Il pubblico diventa compagno di strada in “Farsi silenzio”, la performance, progettata e interpretata da Marco Cacciola su drammaturgia di Tindaro Granata, che ha aperto presso la Chiesa di Sant’Apollonia di Salerno la IV stagione di Mutaverso, che ha in Vincenzo Albano il suo direttore artistico. Il lungo sguardo silenzioso sugli spettatori,  l’interrogarli su un concetto di sacro che non abbia nulla da spartire con la religione (proprio per sottrarsi a categorie stantie), indossare cuffie per ascoltare i suoni che hanno accompagnato il suo viaggio da Milano a Roma e percepire con lui il lento cadere della pioggia all’esterno della chiesa sono passi che Cacciola compie con la dedizione di un fratello con cui dividere fatiche e sogni,  che cerca una ragione per vivere in ogni esperienza e in ogni contesto. Tra le suggestioni di Vivaldi e di John Cage, le parole della vecchia Alcea, musica antica in cui immergersi,  e l’invito di Antonio Tarantino a cercare tra gli ultimi la meta dell’itinerario, il protagonista diviene viaggiatore e strada, occasione di epifanie e complice del mistero che si annida anche nei gesti più semplici. Il silenzio diventa allora la dimensione in cui riappropriarsi del respiro del mondo, creare nuove attese e nuove opportunità di riscoprirsi umani. È naturale che il viaggio non abbia fine. Se è ugualmente sacra la vita di chi si spegne e di chi si rimette in cammino, inizio ed approdo possono finalmente essere la medesima cosa.

mercoledì 21 novembre 2018

“Le signorine”, non aprite quell’armadio



Che ne è della sacra parsimonia se si osa accendere una stufa in pieno inverno? E che dire dell’esosa pretesa di fare un regalo a un cugino in procinto di sposarsi? Ma il rapporto con le cose, si sa, riflette quello con le persone ed è lì che il buio dilaga. Dirette da un Pierpaolo Sepe innamorato del loro talento, tanto da lasciarle padrone della scena, Isa Danieli e Giuliana De Sio sono “Le signorine”, protagoniste dello spettacolo basato sul testo di Gianni Clementi e applaudito calorosamente al Teatro Verdi di Salerno. Prendendo le mosse da un copione decisamente inferiore alle potenzialità delle interpreti, Addolorata (di cui Giuliana De Sio tratteggia con assoluta consapevolezza il grigiore a doppio fondo) è il bersaglio dell’avarissima sorella Rosaria (Isa Danieli, che punta tutto con sagacia su un sarcasmo velenoso), tanto da chiudersi nell’armadio quando il minuetto di battibecchi, frustrazioni e critiche raggiunge l’apice. La paralisi che costringe in carrozzella Rosaria è un contrappasso: l’accumulo di cibo che le è fatale riflette la scelta di incamerare più quattrini possibili e la “zitella” giovane, che ha sempre trascorso il suo tempo tra televendite, fiction e previsioni di maghi, può finalmente darsi a spese pazze. Chi opprime e chi è oppressa rappresentano tuttavia due prigioni allo specchio. Addolorata non conosce una libertà che la proietti altrove: far pesare le proprie scelte sulla sorella le dà più piacere delle scelte stesse, incapace di definirsi al di fuori di questo conflitto. Anche l’uccisione di Rosaria non è una scelta autonoma, ma un tentativo di difendersi da chi le ingombra i giorni e le notti (i sogni in cui è intimorita e sbeffeggiata). La sua rivalsa è grottesca perché asfittica come il contesto delle “signorine”, immobili per sempre nel pantano dei pregiudizi su se stesse e sugli altri, in particolare sugli stranieri. La donna impersonata da Isa Danieli, che ha fatto della prepotenza la sua religione, è a sua volta irrisolta tra paure infantili, che la spingono a cercare rifugio nella sorella, e un rancore mai estinto verso i genitori che, non vaccinandola, l’hanno condannata a essere zoppa. Nascondere il cadavere di Rosaria nell’armadio non è solo la soluzione più rapida ma anche la più naturale: corpi e anime non hanno mai abbandonato quel ventre che è la casa e in questo limbo cieco parlare alla vittima come se nulla fosse non è più astruso dei giochi da bambine presenti nel finale. Certi armadi, come certe coscienze, non possono e non vogliono essere aperti.

giovedì 23 agosto 2018

“Mare”, fatica e mistero



“Si dice che i morti dormano. Non è vero. Hanno gli occhi spalancati”, dice il pesce in cui si è trasformato un bimbo appena venuto alla luce. Non potrebbe essere diversamente: vita e morte vegliano l’una sull’altra tra le onde, dove un eterno presente muta ogni cosa e la lascia com’è. Adattamento degli studi dell’antropologa Marilena Macrina Maffei, in particolare sulle pescatrici delle Eolie nella prima metà del Novecento, “Mare - Mirabolanti Antichi Racconti Eoliani" ha concluso tra gli applausi “Teatri in blu”, la manifestazione diretta da Vincenzo Albano. Sulla tonnara Maria Antonietta al largo di Cetara, Francesca Pica si è affidata alla duttilità della voce e del gesto, facendo rivivere tra passione e meraviglia un mondo di miti, fiabe, simboli che rende inautentica e antiumana la cosiddetta normalità. Nel sogno in cui si incontrano, prima di fondersi, la protagonista e la pescatrice (visione ricorrente della metamorfosi di un bambino in pesce, perché sulla spiaggia ogni fine è rinascita), l’invito a respirare un mondo di fatica e mistero apre la natura a una dimensione che libera e incanta. Tra serpi dai folti capelli, spiriti irridenti, tartarughe che diventano bambole, case che vogliono restare vuote a mezzanotte, il ragno, ovvero la rete da tirare almeno in quattro, il fantastico evidenzia per contrasto l’ottusità di un contesto sociale modellato su uomini lontani dal punto di vista affettivo, soprattutto quando sono mariti o padroni, e su donne viste unicamente come forza lavoro. Ecco allora il carisma delle maiare, votate al diavolo e capaci di volare, ben lontane nella leggerezza delle membra e dell’animo dalla violenza che riempie le reti di corpi straziati. La zia Core, che nottetempo raggiunge in volo l’America per vedere, anche solo addormentata, la figlia sposata laggiù, incarna l’irriverente bisogno di essere semplicemente se stesse che le maiare provano e che nessuno potrebbe mai benedire o imprigionare. Tra loro, che seducono e si fanno beffe di tutto, si perderà la protagonista spossata da una vita di travagli e ancora una volta sarà vano chiedersi dove sia il confine tra vivere e sognare. Il mare, che rende stranieri e affratella, che nutre e scarnifica, che culla e abbandona, ascolta con pazienza le storie di chi non può fare a meno di lui e Francesca Pica esorta ad accendere i sensi: non accontentatevi, sembra dirci, di una vita dal fiato corto.

venerdì 13 luglio 2018

Leopardi e l’Italia, l’amore molesto



“Sono passati duecentoventi anni dalla sua nascita ma noi siamo ancora lì, nella foto che Giacomo ci ha scattato”. Le parole accarezzate, misurate ma mai grigie di Corrado Augias hanno guidato il pubblico del Teatro Verdi lungo il percorso umano e poetico di uno dei più grandi autori di tutti i tempi nello spettacolo “O patria mia-Leopardi e l’Italia” per la regia di Angelo Generali, racchiuso nella voce suadente di Arnoldo Foà che recita “L’infinito” e “Canto di un pastore errante dell’Asia”. Con una chitarra del XIX secolo, Stefano Albarello ha eseguito dal vivo “En medio a mis colores” di Rossini, ricordando come “Il Turco in Italia” fosse la prima opera che folgorò il giovane scrittore, tanto da indurlo alle lacrime. Ha poi suonato e cantato il più antico stornello romano a noi giunto, alludendo al senso di prigionia che suscitò in Leopardi la Chiesa, “Una furtiva lagrima” a corredo del mondo di sentimenti attorno a Silvia e a Nerina, né poteva mancare la prima versione dell’inno di Mameli, per concludere con “Fenesta ca lucive”. Il nostro sapeva che amare una patria non è semplice, specialmente se si è di fronte a qualcosa di improbabile come nel Bel Paese: quel “divertimento scompagnato da ogni fatica dell’animo”, la stessa fatuità nel passeggiare, andare a messa, assistere a una rappresentazione, il non possedere costumi ma usanze. Le opinioni modellano i costumi che sono regolati dalle leggi, ma, ricorda Augias, “Dove questa catena non è rispettata, una legge nasce sul vuoto ed è puntualmente inefficace”. La tendenza tutta italica alla prostrazione è dannosa ieri come oggi e offre occasione per riflettere sull’attualità: “Avremmo dovuto essere meno entusiasti dinanzi all’entrata in vigore dell’euro così come dovremmo essere meno depressi oggi, dato che l’abbandono della moneta unica sarebbe per noi rovinoso”. Che inviti ad avere “pietà di questa bellissima terra” o ne colga le molte pecche, Leopardi, che trova nell’immaginazione il vero rifugio dell’uomo sensibile, colpisce comunque nella sua implacabile lucidità, sia quando descrive il deserto spirituale di sua madre (“un carattere sensibilissimo ridotto così dalla religione”), sia quando ricorda la corruzione del clero (“il cardinale Malvasia mette le mani in petto alle dame e condanna all’Inquisizione i mariti di quelle che si ribellano”). Emerge anche la solitudine del padre Monaldo, che teme di perdere i figli per le nuove prospettive aperte dal contatto con Pietro Giordani. Chi è fuori dal coro è sempre osservato con sospetto. “Come comportarci con le dottrine e le regole che ci circondano?” si chiede Augias. Il recanatese saprebbe cosa rispondere: non sacrificare a nessun codice la libertà dello spirito.

“Homologia”, il tramonto di un’anima indomita



Se pensate che una vecchia carcassa non abbia più nulla da offrire, vi sbagliate. Mai  sottovalutare un’anima non ancora assopita. Rocco Manfredi e Francesco Napoli, diretti da Alessandra Ventrella, hanno profuso tutte le proprie energie in “Homologia”, lo spettacolo della compagnia DispensaBarzotti riproposto con successo al Centro Sociale a conclusione della terza stagione di Mutaverso, diretta da Vincenzo Albano. Affidata interamente al gesto e a maschere cupamente rugose, la messinscena esplora attraverso un linguaggio da illusionista la possibilità di ritrovarsi. I trucchi da mago mostrano che la realtà non può appartenere ai soli sensi né a una sola prospettiva. Il foglio di giornale che si solleva sulla testa dell’anziano legato a gesti ripetitivi allude allo smarrimento delle facoltà cognitive ma anche al bisogno di giocare con la monotonia per darle scacco. La radio sormontata da un minuscolo fuoco d’artificio per festeggiare il compleanno del vecchio, con tanto di capellino e torta propri dell’infanzia, ha un grande valore evocativo, perchè capta quelle “voci di dentro” che attendono il risveglio. Le scatole da regalo che piombano sul palco sono al tempo stesso beffarde e consolatorie: esprimono il carattere illusorio della vita, ma sono anche esortazione a donarsi a se stessi, cercando un nuovo inizio (i simboli del compleanno) e la forza di protrarlo (il giovane che emerge dalla scatola più grande). La gioventù è tuttavia qualcosa di sclerotizzato nel passato (i faticosi tentativi di animare il ragazzo da parte dell’anziano) e lo sdoppiamento del protagonista culmina nel naufragio (le pose plastiche che li rendono l’uno testimone della morte dell’altro). Solo incontrando un altro se stesso infatti si può avere l’esatta misura del limite e dell’occasione di varcarlo. L’abbandono dell’attempato fantoccio sulla poltrona mentre i due giovani soffiano sulla candelina rimanda alla liberazione dal corpo, dalla noia, dalla sterilità, ma non si può escludere che le due figure siano l’ultimo, testardo sogno di chi ha dovuto arrendersi al nulla.