venerdì 29 gennaio 2016

La fotografia di Marcello Cataliotti Natoli, le immagini in ascolto



Che il quotidiano possieda una sua bellezza nascosta è affermazione solo all’apparenza ovvia. Viviamo un tempo che cannibalizza se stesso in cui la percezione è divenuta un groviglio di stimoli, smarrendo la sua natura di via tutt’altro che lineare verso ciò che attende di essere rivelato. Le foto di Marcello Cataliotti Natoli obbediscono a un’empatia così intensa con il loro oggetto da lasciare disorientati. Non semplice documentazione di un dato, ma prolungamento della vita segreta che quel dato racchiude in sé. Non una raffinata ricezione di quel che intercetta il campo visivo, ma respiro di quel che viene catturato, liberazione delle energie che ogni elemento a suo modo possiede, fino a fare dell’immagine una consustanziazione laica di ciò che si è voluto cogliere. Fotografare è per Cataliotti Natoli rinascita di quel che è stato visto/vissuto, attenzione amorosa e totale riservata non a caso all’inanimato (porte, tavoli, strumenti di lavoro, bicchieri, squarci di interni, strade) che in quanto tale è adatto a creare un discorso sempre aperto nell’ambito della fruizione. Una cosa creata in base a una precisa funzione non è mai semplicemente se stessa. Come si presta docile all’uso per cui è nata, allo stesso modo diventa occasione per scrivere una storia diversa, per accogliere gli echi e le suggestioni di chi l’utilizza e arricchirli con i propri. Le istantanee di questo artista che si è cimentato con il teatro, la scrittura, la tecnica mista (e dunque ha dimestichezza con tutte le salutari ambiguità del linguaggio) si spingono ben oltre ogni codificazione estrema di realismo e instaurano con lo spettatore una comunicazione silenziosa proprio attraverso il mezzo dell’alienazione contemporanea (il telefono cellulare), non più simbolo di assimilazione passiva, ma di interazione fertile con il contesto. Cataliotti Natoli  sa che la fotografia è un conto non saldato con il tempo. Non tanto perché oppone persistenza a fugacità, esigenza che accomuna le più disparate forme d’arte, ma perché ridefinisce in modo continuo e beffardo i confini della visione. L’occhio non smette di dialogare con ciò che è stato fissato e che innesca un cortocircuito con il presente, un presente che non si contrappone a quello che è stato fotografato, ma se ne lascia contaminare, fino a dissolvere ogni diaframma rispetto a quel  che è intimamente legato a un dove e a un quando. E nelle immagini del siciliano l’atemporalità dell’ascolto visivo diviene riscoperta di quel che i sensi possono cogliere. (Nella foto, Bisbigli).

mercoledì 27 gennaio 2016

“E’la terra un’unica finestra”, la voce degli ultimi in Scaldati



Cosa si prova a non avere altro che sete e inquietudini? Franco Scaldati lo sapeva bene e chi vuole conoscere davvero la natura umana (“un’opera incompiuta”, come fa dire al suo personaggio) deve muoversi tra gli emarginati che abitano il suo mondo. Il Teatro Diana di Salerno ha proposto “E’la terra un’unica finestra”, lo spettacolo prodotto dal Teatro Garibaldi di Palermo e diretto da Matteo Bavera che costituisce una summa del percorso del drammaturgo siciliano. La violenta sensualità della lingua palermitana non lascia tregua: lo spettattore si trova immerso in un ritmo convulso che trascina e annulla il tempo, tra suoni carezzevoli e affilati. Diviene impossibile percepire la tenerezza e il calore senza sentirsi un attimo dopo precipitare in un’incertezza dolorosa di cui l’allegria fa subito scempio.  Melino Imparato seduce nella sua spiazzante capacità di dare forma a tutti gli aspetti del degrado e di quella che si potrebbe liquidare comodamente come follia, quando è folle chi pretende di avere tutte le risposte sulla mente e sui suoi inganni. Tragico e comico diventano parole vuote: tutta la sofferenza e tutta la caparbietà con cui ci si attacca alla vita recuperano nella performance di Imparato una forza che è sempre più raro vedere sui palcoscenici. Né gli è da meno Salvatore Pizzillo, che crea, con un’intensità che non si dimentica, un compagno di strada che è rifugio e alter ego, approccio fanciullesco alle cose e creatura sospesa tra il desiderio (la parrucca bionda che spinge l’amico a dichiarargli amore come ad Illuminata, cioè la luna) e l’ascolto di un notte che “si è ripresa i suoi fantasmi”. La narrazione procede per analogie emotive. L’impossibilità di recapitare una missiva al signor Pace introduce al turbamento che la propria ombra suscita in Imparato, scisso tra desiderio e ostilità (la scena è il luogo in cui gli opposti si perdono l’uno nell’altro). Come l’ombra avvolge la carne, così l’abbraccio di Pizzillo soccorre nel nulla dell’abbandono: non si dimentichi che lo squittire dei topi è l’unico suono che accompagna l’azione. Quando Imparato picchia sul pavimento ed è tormentato dal pensiero della guerra, sta cercando di ristabilire invano quell’afflato tra uomo e natura che i conflitti dissolvono. La buffa marcia accompagnata da declamazioni vuole esorcizzare ciò che di terribile ogni lotta porta con sé e poiché il teatro è contaminazione tra apparenza e presunta realtà, i due cercano “piccioli” per la loro esibizione; denaro gettato al vento, perché i corpi che sanno bastare a se stessi sono già a un passo dalla felicità. Una parrucca può servire per il gioco della riffa, così come un alcolizzato può essere vivo e morto nello stesso momento; una processione di santi può evocare le pulsioni dell’inconscio e chiedere a un cane di dare del lei all’uomo che segue può essere la più naturale delle richieste (ma uomini e animali sono e restano fratelli, lo hanno solo dimenticato). Al grado zero della logica e della gerarchia corrisponde una dolente consapevolezza della fragilità, un riconoscersi in pezzi lontano da un equilibrio sognato e rimpianto. La terra è davvero un’unica finestra che attende un’alba nuova e troppo lontana, mentre ormai “E’ buio…che pena..avremmo potuto fare tante cose”.

martedì 26 gennaio 2016

L’amore ai tempi della Prima Guerra Mondiale



Complicità, lusinghe, desiderio. Ma anche amarezza, contrasto, solitudine. L’amore non possiede certo un unico volto, ma sa trarre forza da se stesso nelle peggiori circostanze. È basato sul carteggio negli anni dal 1913 al 1915 tra Francesco Fusco, ufficiale medico, e Stamura Segarioli, maestra elementare, “Il fiore che ti mando l’ho baciato”, lo spettacolo diretto con successo presso il Teatro del Giullare da Antonio Grimaldi. L’allestimento ha origine dalla volontà della nipote Rosa Fusco e su iniziativa dell’Associazione culturale Centro Studi sul Teatro Napoletano, Meridionale ed Europeo presieduto da Antonia Lezza, presso la cui Biblioteca è custodito il materiale documentario inedito degli eredi Fusco. Nel buio del palco la luce nasce da un cofanetto che contiene le missive, perché anche le “storie minime” hanno il diritto di essere sottratte alle tenebre del tempo che inghiotte tutto. In una veste bianca, il colore della promessa e della tenacia, Annarita Vitolo, che ha curato con il regista e con Elvira Buonocore la scrittura scenica e drammaturgica, crea una protagonista che affascina immediatamente la platea nel mescolare forza e disinganno, passione e scoramento, attraverso un’interpretazione misurata e intensa che affida a pochi, eloquenti gesti la narrazione di quel percorso a ostacoli che sono, oggi come ieri, le relazioni. I ventilatori che disperdono ai lati della scena i fogli talvolta fatti a pezzi tra cui la donna ondeggia alludono a un bisogno di evadere dalla prigionia amorosa (è terribilmente facile essere soffocati da ciò di cui non si vuol fare a meno). I due non possono tuttavia che ritrovarsi, perché vivono una condizione simile: la fatica di crescere il figlio nato dalla loro unione contro pregiudizi e disagi non è meno logorante delle giornate al fronte. Non è un caso che il leitmotiv della messinscena, nella selezione musicale curata da Cristina Milito Pagliara, sia “Non dimenticar le mie parole”. Le parole degli amanti lasciano tracce profonde e le lettere sono archivi di anime. E anche se a Stamura non resta che una coccarda, una valigia, un elmetto, dall’oscurità della scena iniziale emerge una donna che non ha smesso di amare e di amarsi. Un foglio che diviene barchetta per divertire il suo bambino segna un nuovo inizio. La guerra spezza le vite, ma non la voglia di vivere.

domenica 24 gennaio 2016

“Anna Cappelli”, la sfida di Carlo Massari



Se le avessero chiesto di scegliere tra essere e avere, Anna Cappelli non avrebbe avuto dubbi. È il possesso a rendere riconoscibile una persona, polverizzando frustrazioni e  amarezze. Le ossessioni però comportano un prezzo alto che chiede di essere pagato fino in fondo. Il copione di Annibale Ruccello acquista forza col passare degli anni e Carlo Massari affronta la sfida di interpretare per la prima volta en travesti questo personaggio nello spettacolo in scena oggi alle 18.30 presso il Teatro Nuovo di Salerno nell’ambito della manifestazione Atelier. Sensibilissimo alle suggestioni del testo e consapevole di quanto la fisicità sia essenzaIe nel discorso artistico del drammaturgo napoletano, Massari ha modellato se stesso con assoluta dedizione per creare una figura capace di accogliere in sé molti lati oscuri. L’oppressione di un’esistenza piccolo-borghese, il rancore che si annida nel quotidiano quando non si può essere davvero se stessi, lo status sociale che conta più dell’essenza sono tensioni che animano questa donna in cui le parole nascondono sempre altro: l’ansia bruciante di identificarsi con ciò che ha, fino all’autodistruzione. Diventa allora naturale che sia un attore a interpretarla. La malattia chiamata avidità avvelena la natura umana in tutti i suoi aspetti e chiunque può cadere nella trappola di essere posseduto, nella più completa alienazione, da quelle che sono solo cose e prendono il posto dell’anima.

domenica 17 gennaio 2016

“La doppia vita dei numeri”, il canto a due voci della vita e della morte



Cosa c’è di più naturale di una tombola nella notte di San Silvestro? A maggior ragione se gli spiriti tornano a visitare i vivi. Ha riscosso grande successo presso il pubblico salernitano “La doppia vita dei numeri”, lo spettacolo diretto da Brunella Caputo presso il Piccolo Teatro del Giullare, tratto dall’omonima opera di Erri De Luca, che si avvale della grafica di Andrea Bloise, del disegno luci e della selezione musicale di Virna Prescenzo e dell’aiuto regia di Concita De Luca. Nell’immaginario del Sud Italia vita e morte sono da sempre compagne di strada. L’una si mescola all’altra, annullando ogni confine tra passato e presente. Il tempo della coscienza è però vissuto in modo opposto dai fratelli protagonisti. Lei (Mimma Virtuoso, che dissimula efficacemente nell’approccio ruvido la sua capacità di difendere affetti e memorie) sa che quel che esiste nella mente è più forte di quel che abita la carne, tanto da immaginare ancora per casa Italia, la domestica morta (Geppina Giuliano) e da giocare con i genitori defunti (Teresa Di Florio e Alfio Battaglia, amorose e tenere presenze). Lui (Augusto Landi, credibile nel rendersi prigioniero dell’amarezza) è inchiodato a una fine che non ha avuto la possibilità di farsi nuovo inizio (le macerie di Sarajevo, i suoi bambini e le sue bombe) ed esorcizza nella scrittura la perdita dei suoi punti di riferimento: si sente non a caso straniero in quella Napoli eternamente in bilico tra essere e non essere, tra guerra e rinascita, che la sorella ama con dolcezza di figlia. I due in effetti non sono mai affiancati, ma sempre uno di fronte all’altra o disposti su una sorta di linea parallela con cui guardano a quel che li coinvolge e creano un contrasto con i fuochi pirotecnici dell’ultimo scorcio dell’anno. La festa che ubriaca la città non li riguarda: vivono la gioia silenziosa di un’esistenza che trae senso dalla fugacità. Il quotidiano non è misurabile in calcoli matematici e la tombola è occasione per inventare storie ironiche e imprevedibili, per giocare con i ricordi, per non temere il futuro. I numeri sono le anime evocate da chi non ha smesso di attenderle e che sanno dare la pace come in sogno (il fratello rasserenato quando comprende che raggiungerà presto il padre e la madre). Gli antidoti al dolore restano l’amore e l’arte della parola, che rende possibile tutto. E poco importa se Italia sottrae la vincita: l’unica cosa che non si può sottrarre è il legame tra chi vive e chi muore.