lunedì 31 marzo 2014

Il crollo della casa Keller



Non chiedetevi cosa nasconda la sana tranquillità borghese. Potreste incappare in segreti orribili. Mariano Rigillo è stato il protagonista di “Erano tutti miei figli” di Arthur Miller, in scena presso il Teatro Verdi di Salerno per la regia di Giuseppe Dipasquale. L’ampia e luminosa veranda dove tutto si svolge, in quanto microcosmo di personaggi dediti ossessivamente al proprio interesse, riflette e al tempo stesso contrasta con l’essenza del dramma. Tutto è sotto gli occhi di tutti (la colpa del protagonista è nota), ma il nitore della credibilità, della ricchezza, della potenza occulta la marcia logica del profitto a ogni costo. Una serie di contrasti innerva la narrazione in cui i dialoghi sembrano di cristallo, pronti a infrangersi sotto il peso delle parole: l’utopia di Chris su di un progresso dal volto umano si contrappone alla spregiudicatezza del padre, la fidanzata di Larry, il figlio disperso, vuol rifarsi una vita contro l’ostinazione di Kate, la madre di famiglia che irragionevolmente lo attende, l’affettuosa vicina di casa odia in realtà la prosperità dei Keller. Dietro l’attesa della donna, che Anna Teresa Rossini interpreta oscillando con saggezza tra esasperazione e inquietudine, c’è la speranza che il male non presenti un conto insostenibile. Speranza frustrata, come mostra il fulmine che si abbatte sull’albero nella scena iniziale, prefigurando la catastrofe. La recitazione degli interpreti (Ruben Rigillo, Silvia Siravo, Filippo Brazzaventre, Barbara Gallo, Enzo Gambino, Annalisa Canfora, Giorgio Musumeci) è dapprima contenuta nel tentativo di razionalizzare ciò che provano, ma poi il rimosso emerge con forza inaudita, compromettendo legami e convinzioni. Come in un noir in cui il passato attende solo il momentro per colpire con violenza, non ci sarà alibi che tenga per Joe Keller, l’uomo tutto quattrini e famiglia. Gli attori restituiscono l’ambiguità dell’opera: l’industriale è carnefice, ma anche vittima di un meccanismo economico-politico che può fare tranquillamente a meno dell’etica, così come il cinismo contamina anche l’idealista Chris. Il capitalismo finisce col cannibalizzare se stesso. Anteponete pure il denaro a tutto, sembra dire Miller, e troverete molti motivi per farvi saltare le cervella.

venerdì 28 marzo 2014

Al Giullare “N’hanno fatto crerere paravisi”



Lo scenario non potrebbe essere meno incoraggiante. Non resta più nulla della cosiddetta civiltà, nulla delle convenzioni su cui gli uomini hanno basato la loro vita. Eppure proprio in questo vuoto di senso si impone la necessità di rifondare la memoria e il futuro. “N’hanno fatto crerere paravisi” è lo spettacolo, di scena stasera alle 21 al Piccolo Teatro del Giullare di Salerno, che vede la giovane salernitana Maria Scorza nel duplice ruolo di drammaturga e interprete. Il cast comprende Michele Di Stio e Andrea Paolotti, che firma anche la regia. L’appuntamento rientra nell’iniziativa “Tra scrittura e performance” ideata da Vincenzo Albano, direttore artistico di Erre Teatro e già ideatore del progetto Teatrografie 2013 dedicato alla scrittura di Francesco Silvestri (è in fase di studio il secondo appuntamento), in collaborazione con Formiche di vetro teatro e Danad associazione culturale (Associazione Diplomati Accademia Nazionale d’Arte Drammatica). Dopo il debutto di Luca Trezza con “Www.testamento.eacapo”, con cui Formiche di vetro ed Erre Teatro parteciperanno al Festival Le voci dell’anima ( la prima tappa è prevista a Gioia del Colle, al Teatro Rossini il giorno 8 aprile) e al Torino Fringe Festival nei primi giorni del mese di maggio, “N’hanno fatto crerere paravisi” attinge all’immaginario della classicità per concretizzare l’eterno contrasto tra rigenerazione e distruzione. In un desolato paese di montagna, ad Asteria non resta che una pagnotta indurita a cui riserva un vero e proprio culto, a monito dei danni che egoismo e sopraffazione hanno portato alla società. Al suo fianco ci sono la nipote Demetra e un giovane che arriva dalla città, Glauco. Il loro intento è quello di ricostruire una civiltà nei pressi di un fiume (che sembra possedere a tutti gli effetti le caratteristiche di un essere vivente), ma devono difendere i propri sforzi da Leto e dal Soldato, che mirano a sfruttarli per poi disfarsi di loro. Attraverso le suggestioni del dialetto cilentano e una simbologia che non opprime, ma rende ariosa la messinscena, Maria Scorza si orienta verso la radice dell’atto teatrale: una commistione di forze che getti uno sguardo non vincolato al contesto che lo ha prodotto e al tempo stesso si faccia baluardo delle ragioni di una umanità che ha più che mai l’esigenza di ritrovare se stessa, anche a costo di guardare fino in fondo nell’abisso. È terribilmente facile creare ovunque il deserto; ricostruire a dispetto di ogni ostacolo è un atto di folle amore.

giovedì 27 marzo 2014

Applausi al Verdi di Salerno per le Operette Morali dirette da Mario Martone



Che cosa resta quando la vita appare nella sua essenza di nudo inganno? L’esercizio libero e spietato dell’intelligenza che non risparmia nulla, men che meno se stessa. Attraverso un’attenzione filologica che non è cieco ossequio al testo, ma tentativo riuscito di evidenziarne l’attitudine alla rappresentazione, Mario Martone raccoglie gli applausi del Teatro Verdi di Salerno con il suo allestimento delle Operette Morali di Giacomo Leopardi, che ha vinto il Premio Ubu per il teatro e il Premio La Ginestra 2011 per la migliore regia, nonchè il Premio dello Spettatore 2012 Teatri di Vita di Bologna.
 Passione e rigore trovano pieno equilibrio in un cast (Renato Carpentieri, Roberto De Francesco, Iaia Forte, Paolo Graziosi, Giovanni Ludeno, Paolo Musio, Totò Onnis, Barbara Valmorin, Victor Capello) che schiva le rappole della declamazione, facendo emergere in ogni battuta quella forza evocativa che l’autore considerava cruciale nel discorso artistico. In una cornice che si affida a pochi oggetti (due sedie, uno scrittorio, una panca), riflettendo così una scrittura che non ha mai amato i fronzoli, le invenzioni sceniche di Mimmo Paladino seducono nella loro aristocratica immediatezza. La terra e la luna che si stagliano nel buio, la gigantesca maschera del gallo silvestre di cui si sottolinea a buon diritto l’aspetto antropomorfo nel suo monito alla paziente attesa del nulla, l’ovale luminoso in cui la Moda e la Morte si specchiano l’una nell’altra, accomunate dal potere della distruzione, la statua dal cui interno la Natura ricorda all’Islandese la sua vacuità inducono il pubblico a percepire le dinamiche dell’opera come qualcosa di straordinariamente vicino alla sensibilità moderna. La disincantata solennità di Paolo Graziosi fa da filo conduttore ai dialoghi, presentati come tasselli di un mosaico in cui ogni parte è in sé necessaria e intimamente legata alle altre, mentre la scelta di affidare a Barbara Valmorin il ruolo di Porfirio nel dialogo con Plotino sottolinea come la riflessione sul dolore, sulla morte, sul significato dell’esistenza appartenga a chiunque al di là di ogni categoria. La conclusione è a sua volta dolorosamente affascinante. Nel Dialogo di Cristoforo Colombo e di Pietro Gutierrez (sullo sfondo una vela disseminata di simboli che si rifanno a una geografia dell’immaginario) si avverte la nostalgia dell’altrove, il bisogno di spingere lo sguardo verso ciò che non è stato ancora colto. Quando gli attori escono e la vela piomba al suolo, resta Leopardi stesso, che abbassa il capo. È svanita l’ultima illusione e nel suo atteggiamento si mescola la stanchezza di credere e il desiderio (il nulla non ci ha ancora inghiottito) di credere ancora.

lunedì 24 marzo 2014

Www.testamento.eacapo, un’anima nella rete



Quello di Luca Trezza è uno spettacolo disturbante. Si respira disagio come fosse ossigeno. Eppure è estremamente necessario. Non tanto perché vale più di mille dissertazioni sulla schiavitù psicologica del web –dissertazioni che sono oggetto di feroce parodia- e non solo perché l’interprete, drammaturgo e regista salernitano consuma ogni fibra del suo essere nella performance. Classificatosi al primo posto nella sezione Teatro al Festival della Creatività di Roma Capitale 2013 e prodotto da Formiche di vetro Teatro in collaborazione con Erre Teatro di Vincenzo Albano (che promuove il progetto “Tra scrittura e performance. Voci della scena autoctona”), Www.testamento.eacapo, di scena al Teatro del Giullare, è uno specchio generazionale tendente di continuo al parossismo e al tempo stesso il ritratto convulso di un’anima serrata nelle proprie nevrosi. I pochi oggetti in scena (un bicchiere di latte, una web-cam, una rosa, un leggio dove campeggiano emoticon) descrivono le fragili coordinate di quello che potrebbe essere liquidato come un sociopatico. Agita il braccio come se respingesse qualcosa di maligno, mescola il dialetto napoletano, quello romano, un italiano pseudo-aulico e concreto, danza in circolo reggendo il filo della minuscola telacamera come se fosse un prolungamento di sé. Il corpo di Trezza è esagitato perchè riflette l’incapacità di divincolarsi da se stesso. Le catene che lo stringono mentre attende invano su di un ponte la ragazza X conosciuta in chat (lo stesso ponte da cui un uomo fa precipitare la moglie per aver scritto su Facebook di essere single: le parole sono pietre) sono il legame ossessivo con il passato, la difficoltà di appropriarsi del tempo, l’insofferenza di non riconoscere più il proprio volto nello scorrere insensato delle ore. La rosa posta nel bicchiere di latte allude alla passione che trae linfa dalle pulsioni dell’infanzia, quasi fosse un’occasione per ritrovare la propria identità: opportunità frustrata dall’impossibilità di manifesatre una sessualità adulta. La mela divorata simboleggia il tempo consumato senza costrutto, il vecchio osservato da un androne prefigura l’aridità che lo attende. Nell’eterno presente della chat, dove tutto può ripartire da capo, il passato è un fantasma molesto e il futuro un nome da dare al proprio nulla. Quello contro cui il giovane si accanisce è la frustrazione di chi è ormai ridotto a un nickname, senza sperimentare i rischi e i piaceri della carne. Ecco allora che il suo percorso è un falso movimento: gli orizzonti si restringono fino a scomparire e poco vale guardare dentro di sé fino alle ossa. È la vita stessa a non apparire su quel ponte solitario.

venerdì 21 marzo 2014

“Tra scrittura e performance”, Luca Trezza e Maria Scorza a Salerno



La solitudine popolata da fantasmi del mondo virtuale; il tentativo di difendere ciò che appare ormai al di fuori di ogni tempo e di ogni spazio. Si muovono su questi percorsi gli spettacoli “Www.testamento.eacapo” di Luca Trezza e “N’hanno fatto crerere paravisi” di Maria Scorza, entrambi salernitani, in scena rispettivamente il 21 e il 28 marzo alle ore 21 presso il Piccolo Teatro del Giullare. Gli appuntamenti rientrano nel progetto “Tra scrittura e performance. Voci della scena autoctona” sostenuto dall’Associazione Culturale Erre Teatro di Vincenzo Albano, membro del gruppo di ricerca coordinato da Antonia Lezza, docente di Letteratura Italiana e Letteratura Teatrale Italiana presso l’Ateneo salernitano e autore della prima monografia dedicata a Francesco Silvestri, “…E poi sono morto. La drammaturgia non postuma di Francesco Silvestri”. Trezza, che vanta collaborazioni con Giancarlo Sepe, Piero Maccarinelli, e Armando Pugliese, si è classificato al primo posto nella sezione Teatro al Festival della Creatività di Roma Capitale 2013 con lo spettacolo che debutterà a Salerno, di cui ha curato regia e drammaturgia. È un uomo dedito al suo computer, in attesa di conoscere la donna con cui ha stabilito un appuntamento in chat e in un linguaggio ricco di neologismi, citazioni, passaggi stranianti, mescola passato e presente in un delirio che appare folle solo a chi sottovaluti il pericolo di confondere il reale con l’immaginario. Andrea Paolotti è regista e interprete con Michele di Stio e Maria Scorza, autrice della drammaturgia, di “N’hanno fatto crerere paravisi”. Scorza, che ha recitato in “Noi credevamo” di Mario Martone e inCronaca d’un uomo d’affari in tempo di guerra”, migliore spettacolo al Premio Attilio Corsini – giovani talenti, con la regia di Roberto Pappalardo, ha immaginato un conflitto tra Asteria, Demetra e Glauco, che intendono ricotruire una civiltà attorno a un fiume in un futuro desolato, e Leto e Soldato, forze distruttrici che ostacolano i loro piani. Le reminiscenze classiche diventano cuore pulsante del tentativo di contrapporre la vita e la memoria a un nichilismo che può cambiare volto, ma non diviene per questo meno insidioso e violento. Lo scontro per ridare un senso all’esistenza non può che avvenire nei pressi di un fiume, da sempre simbolo di rinascita e della possibilità, amata disperatamente, di tornare a scrivere liberamente la propria storia. Al teatro in fondo si chiede questo: far echeggiare una voce dove il silenzio inghiotte tutto.

Out of Bounds, la grande prova di Ciro Esposito in “Rosa Nurzia”



“Che tempi bui, bui, bui” ripete con la comica amarezza della moralista di ferro. Come osano quegli screanzati di poliziotti entrare nella sua casa, che è anche il suo regno? Un’anziana devota non ha il diritto a starsene per proprio conto? “Rosa Nurzia-Pena de l’Alma” è lo spettacolo scritto e interpretato da Ciro Esposito che ha segnato il quinto appuntamento di Out of Bounds, la rassegna a cura dell’Officina Teatrale LAAV di Licia Amarante e Antonella Valitutti presso il Teatro Genovesi di Salerno. Nel suo monologo Esposito crea un personaggio indimenticabile attraverso un minuzioso e appassionato lavoro di immedesimazione. Che sia l’atteggiarsi malfermo delle labbra, le gambe mosse a fatica o lo sguardo consumato da pensieri ostinatamente nascosti, la sua Rosa coinvolge immediatamente per l’autenticità, anche e soprattutto quando gioca con tutte le sfumature del grottesco (irresistibile il balletto a scatti sulle note di “Giovane giovane” o l’esibizione di santini cavati fuori dalla veste e calendari sui papi a testimonianza della fede sua e della sorella). Quella che compare è un’anima arroccata in se stessa  (ma il mondo esterno, anche se raccontato con ironia, non è migliore, percorso com’è da follia e sopraffazione) e la regia di Valentina Carbonara evidenzia questo aspetto attraverso gli oggetti di scena di Monica Costigliola. Sul palco sono disseminati lumini: uno presso la foto in bianco e nero di due donne, un altro presso la statuetta della Vergine, un altro vicino a fiori avvizziti e alle imposte di legno di una finestra (che è però significativamente poggiata in terra, perché la dimensione in cui si muove la donna è quella, orizzontale, della quotidianità). Piegata in avanti come se racchiudesse tra le mani qualcosa di prezioso, si muove incessantemente da un punto all’altro: atteggiamento ripetuto nel finale. Non potrebbe essere diversamente: è la guardiana di un passato che tenta di mantenere in vita con l’ossessione di chi non vuole guardare al di là di quel che ha costruito e perduto. Quella che lo spettatore vede è una veglia funebre in cui i fantasmi, che prendono corpo in un fluire amaro e tenero di parole, sembrano più vivi dei vivi. Chiunque si introduca in questo spazio di memorie da proteggere gelosamente (di cui è immagine il lumino ingabbiato) è un nemico, come mostra la decisione di scacciare la badante polacca e l’ostilità verso i poliziotti a cui è stata costretta ad aprire la porta. Rosa ha custodito il cadavere della sorella Alma per due mesi, perché è impossibile rinunciare a chi è stata amata tanto. Il velo bianco in cui si avvolge (segno tangibile di consacrazione) esprime il bisogno di fondersi con il suo oggetto d’amore. I corpi si consumano e diventano putridi, ma un’anima che si sdoppia ignora la morte: ogni respiro è anche il respiro dell’altra, ogni gesto la cerca e la ricorda. E gli altri saranno pronti a colpirla, ma non a capire che si può amare anche così.

mercoledì 19 marzo 2014

Ruggero Cappuccio è Paolo Borsellino



Quando si rivolge a Giovanni Falcone, l’amico con cui ha condiviso tutto, gli dice che sono sempre partiti dalla fine. Per frontegggiare la morte (minaccia, compagna di viaggio, limite che divora lo spazio a ogni respiro) è necessario difendere il proprio tempo che è memoria, ricerca, possibilità. Conclusione e principio possono però fondersi in un ondeggiare continuo. Nello spettacolo che ha conosciuto un successo ininterrotto nel corso degli anni, “Paolo Borsellino Essendo Stato”, Ruggero Cappuccio domina la platea del Teatro Verdi di Salerno con un monologo carico di suggestioni in cui ogni parola ha un peso, perché ogni attimo della vita di un uomo vale la vita stessa. Si parte appunto dalla fine. L’attentato a Via d’Amelio è stato appena consumato, Borsellino è steso su quel che rimane dell’asfalto e sotto le reni sente il pulsare della terra di Sicilia, dove tutte le parole hanno un senso da decifrare e la bellezza è una trappola (distratto dallo splendore della giornata, ha creduto per un momento che la morte fosse lontana ed è stato allora che è caduto). È la bellezza stessa ad andare in pezzi quando si compie un misfatto, come mostra l’immagine di un teatro sventrato all’inizio della rappresentazione. Le istantanee di Lia Pasqualino sono un controcanto muto dove volti di ragazzi, processioni, scorci di palazzi antichi alludono all’innocenza, alla materialità che si fa spirito, al passato che torna ad abitare il presente. L’ossimoro sfida di continuo la logica nella sfuggente Palermo (è alta o bassa questa città? E’ grassa o magra? E’ padre o madre?). L’avvicinarsi e l’allontanarsi dalle foto sono sì l’atto dell’innamorato che non si stacca dal suo oggetto d’amore (il giudice non sa fare a meno di questi luoghi), ma rimanda anche al comportamento di chi indaga e si muove dal particolare al generale per giungere alla verità. I quattro leggii disposti ai lati della scena come punti cardinali esprimono il carattere sacrale del percorso di Borsellino, carne che si fa verbo estraneo alla doppiezza, come mostrano gli stralci del discorso tenuto al Csm nel 1988 sull’insufficienza delle forze a disposizione per la lotta alla mafia. L’ombra di Cappuccio sullo sfondo manifesta una fragilità inaggirabile e il bisogno di lasciare, malgrado tutto, una traccia. Tra dati, ricordi della giovinezza e sogni, la rappresentazione testimonia l’abisso tra lo Stato (apparato non meno pericoloso dei mafiosi nel mercanteggiare l’etica) e lo stato di un uomo che percepisce lo struggente abbandono nel fluire senza sosta delle cose. Nel ventre della Sicilia che, come madre, accoglie il suo corpo martoriato, vita e morte non cessano di parlarsi e il tempo continua a innamorare e ingannare.

mercoledì 5 marzo 2014

“Cronaca dannata”, la vis comica secondo Marco Pomar



Credete che la leggerezza sia innocua? Vi sbagliate. Può essere più affilata di un coltello, come mostra “Cronaca dannata”, l’ultima opera di Marco Pomar che trova in Dario Corallo (che firma le illustrazioni) e in Mimmo Calabrò (autore dei fotomontaggi) i migliori complici per questa lotta ironicamente spietata contro stupidità e doppiezza. Nel raccontare il biennio a dir poco convulso tra il novembre 2011 e l’ottobre 2013, l’autore dimostra due dati con una lucidità che farebbe impallidire Cartesio: la certezza di vivere nel Paese più assurdo del mondo (casomai qualche anima pia nutrisse ancora dubbi in proposito) e le possibilità inesauribili del linguaggio comico. Che si tratti di politica, gossip o economia, il ritmo narrativo di Pomar non viene meno, sia che ricorra alla frase ad effetto, sia che si affidi alla parodia di notissimi brani musicali o a scambi di battute che sembrano copioni teatrali in piena regola, per tacere del ricorso a registri che spiazzano (lo stile da editto medievale per celebrare la leaderhip di Marina Berlusconi, per esempio). La frase lapidaria asseconda il gusto della dissacrazione e ben si addice alla realtà fotografata da “Cronaca dannata”: frammentaria, incongrua, paradossale. Pomar prende le distanze da una critica moralistica come da un umorismo teso solo a sorprendere. La comicità di queste pagine ribalta la notizia attraverso uno spregiudicato senso del gioco che contrappone alla presunta chiarezza dell’avvenimento la fertile ambiguità delle parole. Quel che viene riportato esplode dunque dall’interno, perché il suo punto di forza o comunque la sua peculiarità diventa occasione per farlo a pezzi attraverso una risemantizzazione che rismescoli di continuo le carte a dispetto di una visione univoca. La scrittura di questo volume è liberatoria, non soltanto per il divertimento che assicura: rivela come non ci sia maschera o convinzione o sistema che possa resistere a lungo. Spetta allora al sarcasmo fungere da antidoto a quell’inquietante anagramma che è la vita.