sabato 19 febbraio 2022

“Mine vaganti”, la scaltrezza dell’elegia

 

“Andavo a teatro perché volevo essere turbato continuamente”. La frase di Toni Servillo non appartiene certo al pubblico di Ferzan Ozpetek, il più rassicurante dei registi in circolazione. L’allestimento del suo film “Mine vaganti” è stato, infatti, calorosamente accolto al Teatro Verdi di Salerno. Ozpetek possiede la scaltrezza dell’elegia : ogni conflitto, anche il più tormentato, è addolcito da toni malinconici e intimisti; ogni divario, per quanto profondo, stempera la polarizzazione nella nostalgia dell’avvicinamento. La fortunata pellicola, da cui lo spettacolo è tratto, affronta temi non semplici (la passione repressa, l’ansia di libertà, il peso del ruolo sociale, la fragilità degli equilibri) con un approccio insinuante, perfetto per lo spettatore che si accontenti di un’epidermica empatia. La messinscena ha i suoi punti di forza nell’energia scanzonata con cui Francesco Pannofino connota Vincenzo, il padre del protagonista, nel carisma di Iaia Forte, la madre borghese che tenta invano di difendersi dalle minacce alla routine, nella dolcezza della nonna interpretata da Simona Marchini, nell’accattivante dominio del palco da parte di Mimma Lovoi, Francesco Maggi ed Edoardo Purgatori, la cameriera e gli amici di Tommaso (Erasmo Genzini), la quintessenza del bravo ragazzo che catalizza un’immediata simpatia. Gli interpreti si muovono anche in platea, alludendo  a un tema caro al regista turco : la famiglia, intesa come libera comunanza di affetti, cancella la distanza tra chi recita e chi assiste, mentre i tendaggi rimandano al velo della memoria che Tommaso ripercorre. Esiste tuttavia un ingombrante convitato di pietra: il pensiero del film induce a considerare ciò che è stato perso per strada. Lo spessore umano della cameriera scompare nel passaggio dallo schermo al proscenio. Alba, Luciana, Antonio e Marco, interpretati rispettivamente da Roberta Astuti, Sarah Falanga, Carmine Recano e Luca Pantini, non possiedono più la sana inquietudine rivelata nel lungometraggio, così come l’esibizione delle drag queen è ben lontana dal delizioso esibizionismo della scena filmata in spiaggia. Ogni forma artistica ha evidentemente diritto al proprio linguaggio, ma resta la sensazione di una copia sbiadita e talora didascalica. Ciò rende perciò prezioso il momento in cui l’intero cast, come dominato da un sogno, intona “Una notte a Napoli”: dopotutto, sia pur con prevedibile astuzia, è di desiderio che stiamo parlando.