mercoledì 19 luglio 2023

Il ”Barabba” di Tarantino, gli ultimi e la grazia

 

Non c’è mica bisogno di cercare in cielo il Redentore: le galere della Galilea traboccano di “gesucristi” tormentati in ogni modo, con buona pace di una fantomatica riforma delle carceri puntualmente disattesa. Spettacolo di notevole impatto emotivo, ”Barabba” di Antonio Tarantino ha visto in scena al Teatro Ghirelli, per la regia di Teresa Ludovico, un Michele Schiano Di Cola appassionato e appassionante nell’offrire una complessa versione del celebre ladrone. Il testo di Tarantino si caratterizza per una coinvolgente energia nel contrapporre gli ultimi a coloro che “tengono in mano i coglioni del mondo”, i potenti che possono mutare accento, ma non pensiero nel martellante bisogno di manipolare, imporre, schiacciare. Dove, infatti, si rinnova l’antico copione di oppressi e oppressori, è più viscerale e aggressiva l’esigenza di sputare l’anima per un attimo di libertà, soprattutto se un pazzo, il Figlio di Dio, arriva a scompaginare  le carte. Il protagonista percorre faticosamente una struttura verticale, creata da Vincent Longuemare, inserendo dapprima parte del corpo tra i pioli di una scala, per poi giungere lentamente alla cima. Questa scelta allude, naturalmente, all’oppressione della prigione (Barabba si muove in un luogo angusto come topi e scarafaggi nei buchi delle celle, conoscendo la degradazione), ma anche alla dialettica alto/basso, che non è solo spietata gerarchia sociale, ma anche tentativo di cogliere l’uno nell’altro, di denudare di ogni retorica l’altezza e di lasciarsi attraversare fino in fondo dalla cosiddetta bassezza. Il fatto che si rivesta man mano che sale è dovuto alla sua imminente liberazione, ma anche al suo riprendere il proprio posto nel mondo, opponendo apparenza (gli abiti, cioè il ruolo che gli è cucito addosso) all’essenza (la presa di coscienza a cui lo induce il Cristo). Il flusso vertiginoso di parole con differenti inflessioni dialettali rimanda alla trasversalità della condizione del prigioniero e all’urgenza di dimostrare che anche il confinato in un ”merdaio” è ancora vivo, mentre il tono berlusconiano, le pose mussoliniane, alcune movenze alla Totò e il ritmo rap connotano i padroni compiaciuti dalla propria elevata posizione, dato che, sotto diverse maschere, il volto del potere resta lo stesso. Tra rime, assonanze, asprezze, lirismi, il linguaggio ha prevalentemente un andamento poetico in cui la parola si fa sarcasmo e insulto contro chi degrada in nome dello status quo e merita l’attacco di un comunista-fascista-anarchico-individualista, di un uomo, cioè, che vuole difendere l’autodeterminazione ben oltre le etichette con cui è comodamente individuato. Poiché, però, in quella fogna che è il mondo, vittima e carnefice possono non essere poi così distanti, la derisione e l’aggressività che il personaggio riserva al Salvatore, di cui sono narrati in modo antieroico il martirio e la benevolenza, non sono poi così diverse dalla beffarda umiliazione imposta da chi conta a chi è colpito. Il prigioniero, dunque, non è di certo una figura a senso unico : desidera, sopra ogni cosa, lasciare una traccia di sé, è rabbiosamente conscio di quanto il genere umano sia irrecuperabile, mostra un ironico distacco dalla pretesa di salvarlo che il Dio uno e trino gli manifesta telefonandogli, per poi scoprire che tra lui, Gesù Barabba, e il crocifisso che predica amore non vi è alcuna differenza. Soltanto un outsider, in effetti, avrebbe potuto comprendere che solo ciò che è reietto nasconde la grazia. Amare è davvero da folli e non sappiamo cosa ne sarà del ladrone scarcerato, ma adesso qualcosa è cambiato nel suo sguardo. Anche dove “nevica il nero” può esistere un varco, l’occasione di riscoprirsi, senza filtri, umani.

“Celeste”, la scomoda storia di una delatrice

 

“Sono Anticoli Lazzaro, detto Bucefalo, pugilatore. Si nun rivedrò a famiglia mia, è colpa di quella venduta. Rivendicatemi”. La frase è ripetuta ossessivamente dai due uomini sul palco, mentre la donna è di spalle e si abbandona a una lenta danza sulle note di “Ti parlerò d’amor”, senza curarsi di ciò che ha intorno. La Compagnia Liberaimago racconta come non ci sia abisso più profondo di quello che separa oppressi e oppressori in “Celeste”, lo spettacolo – tratto da una storia vera- diretto da Fabio Pisano con le musiche dal vivo di Francesco Santagata e interpretato da Francesca Borriero, Roberto Ingenito e Daniele Marino. L’allestimento ha rappresentato, presso il Teatro Ghirelli, la terza tappa di Mutaverso, il progetto curato dall’Associazione Ablativo di Vincenzo Albano. Oggi sappiamo che le parole iniziali, l’unica prova scritta della colpevolezza della protagonista, furono scolpite sul muro di una cella da una delle tante vittime di Celeste Di Porto, ragazza seducente e amorale, che, nella Roma del 43, per assicurarsi una ricca vita tranquilla, fu una delatrice dei nazisti e non fece distinzioni tra bambini, donne o anziani. Bastava un suo saluto, un suo sguardo a indicare il condannato di turno. E dato che i corpi sono merce, bersaglio, oggetto del desiderio, Pisano si basa esclusivamente sulla messa in gioco totale dei tre interpreti, che si muovono con appassionato rigore tra cinismo, amarezza e violenza. Le scelte registiche restituiscono la torbida concitazione del momento con un’essenzialità che resta impressa. I momenti della rappresentazione (primo quadro, 8 settembre 43..)sono scanditi dai soli uomini, dato che la giovane agisce nell’ombra. La camminata di Celeste sul posto, mentre saluta i malcapitati che si ritrovano con le mani legate o sopraffatti, comunica l’inesorabilità del suo percorso funesto. Un corpo resta in scena mentre la donna è col suo amante, dato che è per lei naturale costruire sulla pelle degli altri la propria felicità. Il padre che, esasperato, picchia la figlia degenere, si accanisce contro una sedia: l’insensibilità della delatrice ricorda la mancanza di vita di un oggetto. Quando Celeste fugge e si prostituisce per sopravvivere, mentre gli attori le girano intorno con improbabili dichiarazioni d’amore, lei è coperta dalla giacca lanciatole addosso da uno dei due, perché, ancora e sempre, è solo un corpo da usare che gli altri vedono in lei. Sono coerenti con il contesto anche le deformazioni sonore che Santagata attua su brani celebri dell’epoca, come “Chitarra romana” o “Maramao, perché sei morto?”: le canzoni, del tutto ripensate pur nella loro riconoscibilità, rendono la storia di Celeste scomodamente vicina, costringono a non confinare nel passato qualcosa che potrebbe accadere in ogni momento. La fame di vita della “pantera nera”, come era soprannominata, il suo bisogno di ascoltare solo i propri istinti sono ripagati dalla solitudine: tutto la divide dai familiari, dai nemici, da chi l’ha sfruttata. Non può esistere nessun luogo per chi ha superato tutti i limiti e del limite stesso non ha (non vuole avere) cognizione. Nel dialogo con il pubblico alla fine dello spettacolo, Pisano ricorda che la scritta di Anticoli, che Celeste segnalò ai nazisti per salvare il fratello Angelo, è stata cancellata una volta ridipinta la cella. Rimuovere è, del resto, un comportamento caro agli Italiani. Il teatro esiste anche per questo : aprire gli occhi che preferiscono restare ostinatamente chiusi.  

Come tradire un testo teatrale

 


Non è raro che ci si aspetti indulgenza, quando a calcare le scene sono gli interpreti di un laboratorio teatrale. Se, però, si è analfabeti del linguaggio che si pretende di avere, non si può che prendere atto delle macerie. I partecipanti al progetto laboratoriale di Gaetano Stella e Claudio Tortora, diretti da Antonello Ronga, che hanno rappresentato le “Troiane” di Euripide presso l’area archeologica di Fratte (Salerno), sono stati vittime di un grossolano abbaglio. Hanno, infatti, creduto che urla e veemenza bastassero a comunicare intensità emotiva, ma nel momento in cui si percepiscono una voce priva di inflessioni e la rigidità tipica di chi sta subendo un ruolo memorizzato, ma certo mai profondamente esplorato, lo spettacolo è, a dir poco, imbarazzante. Apostrofare Elena come “Puttana” in omaggio alle peggiori sceneggiate, confondere l’empatia del coro greco con la stanca replica di una presenza sul palco che è, in realtà, assenza di ogni criterio attoriale (come, per esempio, dar vita a una dimensione “altra”, trarre forza dai comprimari, creare nel pubblico attese), per di più indossando parrucche ridicole, hanno condotto gli allievi alla banalizzazione di uno dei testi più intensi mai scritti. Non è, certamente, sotto accusa il proposito di arricchire la messinscena di suggestioni più vicine allo spettatore, come un canto russo, le lettere dei reduci dei conflitti mondiali, l’ungarettiana San Martino del Carso o il riferimento a Donna de Paradiso di Jacopone da Todi dinanzi al cadavere di Astianatte, sacrificato alla violenza degli uomini non meno del Cristo compianto dalla madre. Ciò che risulta fallimentare è la pretesa di elevare il tono del discorso combattendo con armi spuntate : gli attori non sono robot, ma continua sfida alla percezione e all’assodato. Alla fine dell’allestimento, il regista ha affermato che, con ogni probabilità, il pubblico non ha compreso i riferimenti culturali proposti. In compenso, nessuno lo batte nel tradire tutto ciò che i comuni mortali considerano teatro.

lunedì 17 luglio 2023

“Untold”, il lungo cammino verso sè

 “È possibile sfuggire alla mente?” si chiedeva Silvia Plath. La risposta è, di certo, no, ma si può impedire che diventi una prigione in cui lasciarsi murare vivi. Emozionante percorso sulle trappole dell’io e sulla riappropriazione del sé, “Untold” è lo spettacolo del collettivo Unterwasser che ha concluso tra gli applausi, al Teatro Ghirelli, la settima edizione di Mutaverso, il progetto a cura dell’associazione Ablativo di Vincenzo Albano. Ideato, creato e interpretato da

Valeria Bianchi, Aurora Buzzetti e Giulia De Canio su musiche originali di Posho e luci di Matteo Rubagotti, l’allestimento è basato sulla dialettica esterno/interno, chiusura/apertura, come risulta evidente fin dall’inizio, quando le tre interpreti, prima di dare inizio alla vicenda, si collocano in strutture di metallo, dove la luce rende visibili i loro profili. Quelle strutture, che alludono al ripiegamento interiore, ma anche al luogo in cui si è confinati sul piano sociale, mostrano, in una, un complicato intrico di fili che lascia spazio, nelle altre due, a una più netta linearità, rispecchiando, in tal modo, l’essenza delle scelte delle performer e dell’esistenza : la convivenza della semplicità e della complessità. Le voci registrate fuori campo, per pochi istanti, guidano lo spettatore a comprendere che il viaggio percorrerà quello che si nasconde nel profondo e che, per quanto ignorato o dissimulato, torna a sovvertire l’ordinario. “Se potessi fermare la caduta”, “Se riuscissi a stare nei miei occhi”, “Un esercito nero nelle viscere”, “Stanca di trovare cadaveri nel baule delle stoffe” sono tutte frasi che esprimono il vampirismo del rimosso, il non detto del titolo che risucchia nel buio chi non ha la forza di donarsi nuove possibilità. La vicenda si sviluppa in silenzio, proiettando su teli bianchi le ombre prodotte da torce, recipienti, piccoli pupazzi, superfici, elementi scenici, per cui si coglie, in ogni momento, l’immagine in cui perdersi e ciò che materialmente la produce. È, in effetti proprio del teatro rendere indistinguibili il fittizio e il reale, ma, nel mettersi totalmente in gioco, fino a sovrapporsi e dare vita alle figure, le artiste evidenziano l’urgenza di affrontare a viso aperto la parte misteriosa di un’individualità, anche se questo significa precipitare in un abisso. Le tre presenze, infatti, (una in cucina, una in una vasca, un’altra in uno studio) rivivono il passato tra contrasti, folle di visi (o di pensieri?) fotografie, esperienze e tutte cadono in un pozzo senza fondo: è talmente facile scomparire in sé stessi, mentre il caos della città e delle altre vite continua indisturbato. Restare immobili ad ascoltare il proprio silenzio non può però, durare per sempre: bisogna “mettere il muso fuori dalla tana”, “ricucire il corpo”, comprendere se ha ancora un senso sentirsi addosso il calore del sole. Le tre escono e si ritrovano, non a caso, nello scompartimento di un treno, simbolo di dinamismo. Si avvicinano, si confrontano, ridono, osservano il paesaggio, ma soprattutto si riscoprono vive, disposte ad affrontare quel che accadrà. Non possono che salutare il pubblico tenendosi per mano : abbiamo tutti bisogno di avvicinarci a chi, come noi, vuole uscire dall’ombra infinita nascosta dietro il nostro sguardo.       

Il Veneto tragicomico di Andrea Pennacchi

 

Se è vero che ogni storia ha alla base un trauma, nessuno può competere con i Veneti. Come diavolo sbarazzarsi dell’etichetta di terroristi dopo il tanko a Piazza San Marco nel 1997? È scomodamente vicino il contesto narrato da Andrea Pennacchi in “Pojana e i suoi fratelli”, lo spettacolo caldamente applaudito dal pubblico della Sala Pasolini. Accompagnato dalla lapstick di Gianluca Segato e dalla chitarra di Giorgio Gobbo, che ha spaziato tra proprie canzoni e il riarrangiamento di brani memorabili, come “Sweet dreams” degli Eurythmics, il protagonista guida gli spettatori tra figure grottesche, che compiono scelte estreme e che, nei toni della commedia nera, non sanno lasciarsi alle spalle un antico bisogno di sangue e di caos. Come sempre avviene, è la quotidianità, l’ordinario il terreno da cui nasce ciò che vuole tralignare e lasciare un segno oscuro: Fossaragna, da cui partì l’azione dei cosiddetti Venetisti, è celebre per il rabosello, un vino adatto agli “esperti di metanolo” che stordisce a tal punto il malcapitato bevitore che lo si ritrova facilmente in un fosso senza un rene. Alla memorabile sagra della carne di cavallo, il parroco che, allo scoccare della mezzanotte, canta “Io vagabondo” tra fuochi d’artificio offre uno spettacolo a cui il giovane Pennacchi non avrebbe mai rinunciato. Eppure, proprio da quella tranquilla località è venuto l’orgoglio secessionista che ha fatto proseliti, nel 2014, a Casale di Scodosia. Il veneto, ma sarebbe più corretto dire l’italiano medio, anzi, l’essere umano tout court, ha un unico obiettivo : ridurre tutto al proprio egoismo e guai a chi la pensa diversamente. Ecco allora che il Pojana, alla caduta del governo Conte, si chiede “Cosa cazzo c’entro io con l’inno di Mameli in spiaggia al Papeete?”. Se l’indipendenza, seconda per importanza ai soli sghei, è tradita, la lega può anche andare a farsi benedire : quel recinto che è la mente dell’arido non tollera cedimenti sulla via del possesso e dell’autoaffermazione astiosa. I numerosi Pojana in giro per il mondo credono, dopotutto, che nulla sia cambiato, da quando i Sapiens Sapiens ammazzarono i Neanderthal (pochi esemplari sopravvivono soltanto nelle osterie di Rovigo), si passò al furore sbavante dei Teutoni per poi giungere agli anni di piombo: o schiacci o sei schiacciato, come ben sa Franco Ford, che acquista dieci fucili a pompa a difesa del suo patrimonio e solo a causa di una pessima mira evita l’uccisione dei lavoranti, giunti a reclamare lo stipendio in un momento di crisi. Il problema è che non ci si può fidare neppure degli anziani : la maestra Vittorina, a Vigosbrase sul Brenta, commette una serie di omicidi, dimostrando che anche a settant’anni l’energia non manca. Esistono, tuttavia, individui contro i quali “anche gli dei lottano invano”, perchè non sanno chi sono, ma creano danni a iosa : i mona, coloro che fanno del male nuocendo in primo luogo a se stessi. Ecco perché Tonon, il più grande esperto di veleno per topi, acquista una ditta di catering uccidendo una serie di clienti di alto rango : se il mona che s’incontra per strada è un flagello, di cosa sarà capace quello che ha un potere? La carrellata di personaggi si conclude con Edo, il security che ha sempre sognato di sbirciare minigonne occupandosi del servizio d’ordine e che si trova con un morto sulla coscienza in una festa a Jesolo, proprio quando Alvise gli raccomandava, tenendo d’occhio i bagni, di “portare pace in questo puttanaio”. La fragilità irrisolta di Edo, la semplicità dei suoi ragionamenti, il vano tentativo di far tacere la sua voglia di imporsi diventano un monito : bisogna guardarsi dal buio nell’anima che si attribuisce sempre frettolosamente ad altri e che invece attende anche in noi di risvegliarsi. 

Luca Saccoia, atto d’amore cum figuris

 

In un riquadro di luce, attraverso un fondale che diverrà casa, l’ombra di un uomo intona “Quanno nascette Ninno” mentre si prende cura del suo bambino, che si rivela un pupazzo, e le voci dell’abitazione s’insinuano come se provenissero da un misterioso altrove. È questo che si cerca nella notte santa, l’amore che porti pace sulla terra, ed è questo che viene crudelmente disatteso in “Natale in casa Cupiello”, riducendo la gioia all’inconsistenza dei sogni. Nello “Spettacolo per attore cum figuris” che Luca Saccoia, diretto da Lello Serao, ha portato in scena con grande successo al Teatro delle Arti, la versione del capolavoro eduardiano seduce i devoti del Maestro, offesi da allestimenti autoreferenziali che ostentano una visione autoriale forti della fama altrui, ma anche coloro che non amano Eduardo, spesso perché incapaci di distinguere arte e stereotipo. Partendo da un’idea dello stesso Saccoia e di Vincenzo Ambrosino, l’interprete, anche attraverso registrazioni della propria voce, interagisce con i pupazzi di Tiziano Fario, manovrati da Salvatore Bertone, Paola Maria Cacace, Lorenzo Ferrara, Oussama Lardjani, Angela Dionisia Severino, Irene Vecchia, quest’ultima coordinatrice e formatrice del gruppo. Nella veste di pupi, dunque, Concetta, Tommasino, Pasquale, Ninuccia diventano specchio e contraltare del presepe dinanzi al quale, in Luca, risultano indistinguibili la dimensione infantile e adulta : il candore fanciullesco e la difesa dell’armonia colgono, infatti, nelle statuine presepiali, il simbolo di un legame puro tra tutti gli esseri umani. È, tuttavia, possibile, cogliere altre sfumature in questa intuizione scenica : per ampia parte della vicenda, i familiari di Luca sono legati al proprio egoismo con l’immobile testardaggine di una marionetta, ma sono anche il suo punto di riferimento, ciò che è radicato nella sua vita con la stessa concretezza di un oggetto prezioso. Ogni dettaglio è omaggio e riflessione riguardo al celeberrimo testo. Il protagonista, che offre un’interpretazione appassionata e toccante nel dare anima a tutti i personaggi, resta, nel primo atto, nel letto come il pupo di Tommasino, ma impersona Luca, perché Eduardo è davvero il padre che continua a vivere nei corpi della drammaturgia contemporanea. Nel secondo atto, l’attore manovra i pupazzi per alludere al bisogno di Lucariello di essere, in qualche modo, il regista degli affetti familiari durante la cena di Natale. A circondare il letto del padre nel terzo atto, invece, sono, non a caso, figure in carne e ossa, mentre le marionette restano sedute in cima a strutture essenziali che ricordano una casa, perché il desiderio di attuare nella vita il clima di empatia attorno alla mangiatoia è fallito. Non mancano dettagli memorabili: quando chiede al fratello un parere sulla salute, la lingua e il polso di Pasquale si allungano a dismisura, perché si aspetta di essere comunque servito e riverito; lo scontro tra lui e Concetta ricorda, per un momento, le migliori sceneggiate napoletane e la celebre colonna sonora de “Il buono, il brutto e il cattivo”; Nicolino è l’unico tra i pupi ad avere una carnagione grigia, perché è questo il colore di chi vive a una dimensione e i piccoli volti stilizzati visibili tra le sagome delle figure del presepe alludono all’identità nascosta di chi crediamo di conoscere. Nella dolorosa conclusione, il corpo di Luca viene affidato a un angelo che lo conduce verso l’alto, perché l’innocenza è sacra. Saccoia canta nuovamente “Quanno nascette ninno”, ma i versi riguardano il peccatore disperato per non aver ricambiato l’amore di Cristo. Il sacrilegio è, quindi, essere ciechi a quello per cui vale la pena di vivere: scegliere, quindi, una vita da marionette.

“Il colloquio”, il tempo sospeso di tre vite

 

Non si può essere se stessi e un altro contemporaneamente, direbbe la logica. Ma la logica va a farsi benedire, quando si attende di parlare col proprio uomo in carcere. Spettacolo profondo nella sua essenzialità evocativa, “Il colloquio” del Collettivo Lunazione, su progetto e regia di Eduardo Di Pietro, ha segnato, presso il Teatro Ghirelli, la seconda tappa di Mutaverso, il progetto a cura dell’associazione Ablativo di Vincenzo Albano. Con rara attenzione ai dettagli e una rigorosa consapevolezza del ritmo scenico, Renato Bisogni, Alessandro Errico e Marco Montecatino alludono allo stereotipo della madre di famiglia napoletana, tutta passione e irruenza, per sovvertirlo in nome di una scomoda credibilità umana. Maria Assunta, pronta a trarre un guadagno da qualsiasi circostanza, Pina, la più ingenua, e Annarella, detta cor’e fierr per la determinazione con cui gestisce i parenti dietro le sbarre, hanno rispettivamente un figlio e un marito a Poggioreale e sono in fila per incontrarli. Diverse per il loro passato e il loro approccio alla vita, possono essere, tuttavia, considerate tre versioni della medesima persona, come sottolineato fin dall’inizio, quando le accomuna il gesto di usare il rossetto e di prendere la borsa ricca di cose da portare al colloquio. Fragilità, tenacia e amarezza sono, in effetti, le fasi che la madre o la moglie di un carcerato attraversa in quel tempo sospeso che precede l’incontro, quando le certezze difese caparbiamente vacillano tra cinismo, solitudine e miseria. Che le donne siano interpretate da uomini evidenzia il predominio di una visione maschile che rende speculari l’interno e l’esterno della prigione: alla carcerazione fisica corrisponde quella spirituale, perché le ragioni dell’uomo sono totalizzanti. Non è infatti, un caso, che il colloquio vero e proprio non vada in scena : quando, per un momento, Anna impersona il marito di Pina e Maria Assunta diventa una guardia, perché il terzo personaggio possa rivelare la propria maternità e il proprio bisogno di essere libero, lo spettatore avverte l’ineluttabilità e l’incomunicabilità di un legame che pretende dedizione, ma che non soffoca l’urgenza –viva in tutte e tre- di essere finalmente altro, di esistere per sé. Come in ogni luogo di reclusione, l’empatia è, in ogni caso, una conquista difficile: buttare all’aria gli oggetti preparati da Pina per il marito, perché sarebbero sequestrati subito, giungere allo scontro fisico, all’inizio mimato a distanza, perché la mente di ognuna è confinata nella propria cella, il tentativo della stessa Pina di farsi picchiare per abortire e tagliare finalmente i ponti con una vita misera sono tutte azioni che riflettono l’asfissia emotiva della prigionia. Una piccola luce, però, può annidarsi ovunque. Si scopre che Maria Assunta è in fila ogni settimana, malgrado il figlio sia morto in carcere. Proprio la figura più aggressiva e disincantata protegge l’amore e accoglierà, coi suoi modi bruschi, sotto l’ombrello le altre due. Mentre il buio dilaga e le si vede lì, sospese in un tempo che non passa, le ferite non guariscono, ma il domani non sembra, per un attimo, un fantasma, qualcosa da indovinare dietro un muro senza appigli.

mercoledì 14 giugno 2023

“Pièce noire”, la crudele ricerca della perfezione

 Il capolavoro è un serpente che si mozzica la coda”, afferma la signora, mentre, con aria rapita, osserva, al di là di una superficie trasparente, il giovane in cui ha riposto tutte le proprie speranze. La perfezione deve continuamente alimentare se stessa, eccedere il limite, ma nessuno può uscire indenne da questa energia che mescola la vita e la morte. Versione crudele e ipnotica del mito di Pigmalione, “Pièce noire (Canaria) di Enzo Moscato è lo spettacolo adattato, diretto e interpretato da Giuseppe Affinito, che ha raccolto calorosi applausi presso il Teatro Ghirelli di Salerno. Pur nella devozione ai temi cari al maestro (la sordida purezza, i bassifondi come redde rationem in cui avvicinarsi al senso delle cose, la mescolanza ardita ed evocativa di registri linguistici, in cui la musica amplia le suggestioni), il regista e protagonista dimostra notevole sensibilità nell’allestimento. Gli interpreti stessi dispongono gli elementi scenici, tra cui gradinate di legno fiancheggiate da piccole gabbie in cui compaiono sagome di uccelli e giungono, in alcuni momenti, sul palco dal fondo della platea : nulla, d’altronde, è più aperto al mondo di un bordello e nulla richiede uno sforzo comune quanto un’attività dedita al pubblico piacere. La signora che regge le fila della vicenda (un’Anita Mosca di raro fascino) è, infatti, un’ex prostituta che gestisce molti locali e ha educato al canto, alla danza, all’esprimersi in italiano tre ragazzi : Bramosia e Cupidigia, da un lato, ribelli e spregiudicati (Luciano dell’Aglio e Rino Rivetti, seducenti e del tutto a proprio agio in un ruolo ambiguo) e Desiderio, dall’altro, (lo stesso Affinito, che rovescerà in attacco spietato il proprio candore), bersaglio dell’aspro sarcasmo dei primi due, l’unico che le stia davvero a cuore e a cui affida il compito di giungere al sublime. Nei panni del maestro di stile Greta Garbo e della monaca guaritrice accorsa a soccorrere lo stravolto Desiderio, vittima del debutto all’Etoile, il più importante dei ritrovi controllati dalla madre adottiva, Domenico Ingenito dà vita a un’interpretazione efficace tra culto dell’apparenza e ascolto di ciò che si nasconde nelle viscere, mentre spetta alla cameriera Sisina (Angela Dionisia Severino, capace di creare immediata empatia nel pubblico) svelare dettagli oscuri sulla signora. Sono proprio gli umili, in Moscato, a ridare il vero volto a persone ed eventi e, secondo Sisina, la signora avrebbe ceduto ad alcuni zingari il bambino nato dal marito americano, derubato e abbandonato, per avere nelle proprie mani i tre ragazzi, da controllare e manipolare proprio come gli uccelli in gabbia di cui ama circondarsi. La vita, tuttavia, è ben peggiore del più minaccioso dei racconti, come mostra lo stupro subito da Desiderio prima del debutto, narrato solo attraverso un vorticoso gioco di luci e come lo stesso “cigno” (così chiamato per l’aura di creatura preziosa che lo ha sempre avvolto) rivelerà, a partire dall’esorcismo laico imposto dalla monaca, dove brandelli di feti rimandano  all’orrore della donna che lo ha allevato. Quest’ultima ha, infatti, ucciso il figlio attraverso la castrazione, nel tentativo di tramutarlo nell’angelo che incarnasse tutto ciò che di eccelso la vita nega, modificando corpi innocenti, e il pupillo, che da prigioniero del sogno vuol diventarne padrone, indossando gli stessi abiti della signora, mira a trasformarsi in lei, assoggettandola. Sarà ucciso dalla donna, pronta a coltivare di nuovo il suo folle sogno, alla notizia di un bambino sperduto giunto alla sua porta. Ogni artista può riconoscersi in lei: ciò che è perfetto è chimera irresistibile, in grado di sopravvivere alla propria fine, ma il buio della carne, la trama oscura delle aspirazioni, offuscano il sole della creazione estetica. E quando allo straordinario si sacrifica tutto, nutrendo della stessa ossessione la vittima e il carnefice, la deriva, come mareggiata instancabile, trascina con sé nello smisurato atto di desiderare.

“La signora del martedì”, l’ultimo tango di Nanà

 


Se nella vita si commette un errore, si rischia che costi fin troppo caro, ma nel tango, anche quando si sbaglia, si continua a danzare, annullando tempo e spazio nel seducente afflato di due corpi. Nanà ne è convinta ed ecco perchè ama rifugiarsi in questo ballo ne “La signora del martedì”, lo spettacolo, tratto dall’omonimo romanzo di Massimo Carlotto e diretto da Pierpaolo Sepe, proposto al Teatro Verdi di Salerno. Attraverso un approccio recitativo che sa catturare l’attenzione dello spettatore, rendendosi credibile anche nel momento dell’eccesso, si dipana la vicenda grottesca e crudele di personaggi, di fatto, relegati in un fermo-immagine. Alfredo (un attento e coinvolgente Paolo Sassanelli) è il padrone en travesti della Pensione Lisbona, dove, non a caso, troneggia un orologio senza lancette: non conta affatto lo scorrere delle ore nella granitica dedizione al luogo in cui, come ammette lui stesso, si sente una regina e dove accoglie, con tenerezza di madre, Bonamente (Riccardo Festa, perfettamente a proprio agio tra il dramma e la farsa). Questi è un attore porno male in arnese, ma legato al ricordo delle vecchie glorie, pronto a dedicare le proprie energie, ogni martedì, a Nanà (Giuliana De Sio, che dà prova di carisma e audacia), donna ruvida, scomoda, fin troppo tagliente nei suoi giudizi e atteggiamenti e che ripete, con una precisione che non ammette distrazioni, il rituale dell’incontro clandestino. La scenografia di Francesco Ghisu prevede che lo spazio su cui compare l’orologio si apra, rivelando la camera di Bonamente : scelta coerente, dal momento che l’appuntamento tra i due viene percepito da entrambi come qualcosa d’irrinunciabile e dunque immune ai capricci di un qualunque calendario. Anche la scelta musicale, basata ironicamente su brani del passato, allude a ciò da cui i protagonisti non vogliono staccarsi : il gigolo canta “L’immensità” di Don Backy per esprimere il desiderio di contare davvero qualcosa;  il terzo uomo, che sta per sconvolgere tutto, canta “La notte” di Salvatore Adamo per narrare la propria ossessione. Le certezze, tuttavia, sono solo illusioni e l’equilibrio tra i tre va in pezzi all’apparizione di Pietro Maria Belli (un Alessandro Haber che comunica con efficacia viscido cinismo e tenerezza malata), giornalista di cronaca nera, che smaschera Nanà: costretta a prostituirsi per i debiti di gioco del padre, ha scontato vent’anni di galera per l’uccisione dei genitori e del fratello. A questo punto si hanno continui capovolgimenti di fronte: la donna non solo è innocente, ma Pietro è stato un suo cliente, follemente innamorato di lei, che avrebbe potuto fornire l’alibi per scagionarla, ma ha taciuto per il suo cupo senso del possesso. L’essere costretto su una sedia a rotelle conferma quanto il giornalista sia prigioniero dei propri sentimenti come la protagonista, che rivive, nel clima di un allucinato psicodramma, la violenza della polizia che l’ha spinta a dichiararsi colpevole. Poiché, inoltre, pur di arrivare all’ex prostituta, Pietro ha minacciato Alfredo di infangare la memoria del suo amante, suicida proprio nell’albergo, il travestito, scappando con Bonamente, lo ucciderà e chiuderà Nanà nella pensione, perchè, ancora una volta, paghi per una colpa non sua. La pretesa di avere la vita altrui nelle proprie mani è funesta: non esiste più alcuna differenza tra la “regina”, il gigolo e l’ex cliente, disposti a sacrificare tutto al proprio egoismo. Il suicidio della donna diviene il sogno di un ultimo tango, interpretato con Paolo Persi. Se il cuore nero degli uomini è uno stagno immobile, che almeno la danza racconti quell’altrove che è stato intravisto e poi negato.

 

“Samusà”, un microcosmo chiamato luna park

 

Avrebbe dato chissà cosa per appartenere a una famiglia normale, dove si fanno i compiti in cucina e la madre lancia piatti contro il padre per la tresca con la segretaria. Le è toccato, invece, il destino di giostraia, ovvero di massima esperta di fauna umana. Virginia Raffaele si conferma artista carismatica e versatile in “Samusà”, lo spettacolo, diretto e interpretato da Federico Tiezzi, che ha aperto con successo la stagione di prosa del Teatro Verdi a Salerno. Autrice dei testi con Giovanni Todescan, Francesco Freyrie e Daniele Prato, la protagonista rivive, con ironia malinconica, la sua vita al Luneur, storico luna park romano creato dai suoi nonni, che diventa un autentico microcosmo in cui incontrare di tutto : l’irruente napoletano, il “nordista” pronto a impallinare gli immigrati, la coppia improbabile, la zingara tenace nel chiedere l’elemosina, i trans che sono di per sé un’attrazione, la stessa Meloni, l’un contro l’altro armati, fino a quando il pubblico stesso è invitato a zittire la babele nevrotica, perché il luna park  appartiene a tutti, senza discriminazioni o distinzioni. Se, però, un luogo raduna nei propri confini il mondo intero, non per questo è privo di un’identità, tanto che la Raffaele ricorre talvolta al  gergo dei dritti, cioè i giostrai, che è un vero mistero per i contrasti, ovvero tutti quelli che conducono un’esistenza ben diversa. I dritti sono tali non solo perché ne vedono di tutti i colori e dunque imparano a destreggiarsi tra le assurdità degli individui, ma perché sanno che essere riconoscibili non significa essere omologati a dispetto di tutti i pregiudizi possibili (la Raffaele invita a controllare il portafoglio perché, si sa, c’è da diffidare di gente come lei). Chi lavora nel campo all’evasione è, in effetti, percepito come marginale, ma proprio la libertà del gioco permette di vedere meglio le crepe del sistema. Romano, che non vuole il papa tra i giostrai, perché la Chiesa non li ha mai degnati di uno sguardo, pur essendo anch’essi bravi a fare miracoli, oppure Alfio che, tra i fumi dell’alcool, vede un pontefice che è un asso al tirassegno, dimostrando che chi è un poveraccio non è in ogni caso creduto o la complottista, che vede nel disastro ambientale una strategia per convogliare le famiglie a messa (niente alberi, niente mobili, niente ikea) esprimono, sia pur nel solco del grottesco, uno sguardo irriverente sulla realtà e sulla sua pretesa di avere un’unica risposta. Parafrasando Terenzio, niente di umano è estraneo allo spazio nudo in cui è presente una giostra estremamente stilizzata, mentre abili giocolieri intrattengono la sala durante il cambio d’abito dell’interprete : lo spettacolo non conosce sosta, è una dimensione che si reinventa anche nel rapporto con il tempo. Le performance di Giorgia Maura, la bambina rifiutata da tutti che non rinuncia al luna park, e di Donata Stirpe, l’anziana sola che non perde il proprio spirito, rallentano notevolmente il ritmo, ma trovano una ragion d’essere nell’impostazione della messinscena : i dimenticati, gli invisibili non hanno meno diritto degli altri di abitare un contesto in cui si danno appuntamento tutti gli sguardi e tutte le sensazioni. Tra un omaggio a Monica Vitti con “La canzone dei crauti”, balli e acrobazie, la Raffaele ripropone i suoi cavalli di battaglia : la Patty Pravo incartapecorita, la cantante lirica a disagio perché priva di libretto, l’impertinente Ornella Vanoni o la Carla Fracci che etichetta subito il suo lavoro come “zoppicante saggio di fine anno”. Non si tratta, tuttavia, di semplice scaltrezza : la scelta risulta coerente con la natura del luna park, in cui l’estro è di casa in ogni forma. Ecco dunque che il titolo, “Samusà”, che vuol dire taci nella lingua dei giostrai, è felicemente contraddetto. L’arte deve comunicare, coinvolgere, stupire, soprattutto quando non si sa e non si vuole ascoltare. 

Commozione e ironia in “La vita davanti a sé”

 


Lui e la felicità appartengono a razze diverse : Momò era solo un bambino quando lo ha capito. Eppure quella frase conclusiva, “Bisogna voler bene”, nella sua nudità e concretezza, suona talmente vera da sgomentare anche chi non si aspetta più nulla da una vita “schifa”. Commozione e ironia s’intrecciano in “La vita davanti a sé”, lo spettacolo, interpretato e diretto da Silvio Orlando, tratto dall’omonimo romanzo di Romain Gary, che ha riscosso un pieno successo presso il Teatro Verdi  di Salerno.  Ad ampliare le suggestioni dell’allestimento interviene l’Ensemble dell’Orchestra Terra Madre. Il protagonista, un arabo nato da una prostituta, cresce, insieme ad altri pargoli nella sua identica condizione, nell’appartamento di un’ex peripatetica a Belleville, Madame Rosa, ebrea rude e bonaria che incassa piccole somme per accudire i piccoli e non ha mai dimenticato il trauma della persecuzione nazista : ha infatti predisposto qualche mobile in cantina per nascondersi da eventuali aggressori. La scenografia riflette le atmosfere di questo mondo povero e vivace : il palazzo in cui vivono i personaggi (l’amabile travestito Lola, i volenterosi facchini che scarrozzano ovunque la monumentale Rosa) dà l’idea di essere stato creato assemblando scatole di cartone, allusione alla fragilità, ma anche alla persistenza del vissuto, e presenta fili di luci che evocano un tendone da circo. È appunto il mondo circense ad affascinare Momò, perché lì nessuna angoscia è ammessa, proprio come accade con la sala di doppiaggio, in cui si ritrova quasi per caso, e dove una pellicola è riavvolta all’indietro, quando si commette un errore : ecco che i vecchi ringiovaniscono, i morti risorgono, l’irreparabile è allontanato. In fondo, è proprio questo che vorrebbe il ragazzino: tornare al momento in cui tutto è ancora possibile e la gioia attende di essere costruita. Poiché però il copione della vita è decisamente inferiore a un film, Momò è costretto a imparare dalla propria amarezza quanto sia complicato stare al mondo. Butta in un tombino i soldi ottenuti vendendo il suo amatissimo cane, perché intuisce che vivere non può ridursi a un portafoglio pieno. Il suo bisogno di avere una madre che possa accoglierlo lo spinge a rubacchiare lì dove ci sono donne, ma il furto di un uovo gli procura solo la carezza benevola della signora al bancone, dimostrando quanto sia illusorio l’amore. E’, tuttavia, proprio questo sentimento a unire il bambino e l’ebrea e a tradursi in tenerezza, cura, simbiosi : è proprio nella cantina che Momò condurrà la donna, in gravi condizioni, ma decisa a non andare in ospedale, e lì la veglierà dopo la sua morte, truccandola per prolungare il ricordo di ciò che è stata e ha rappresentato per lui. Il grande merito della messinscena consiste nell’emozionare senza mai cedere all’enfasi e alla retorica. Il dolore è spesso presentato in un’ottica sarcastica che non lo depotenzia, ma gli restituisce spessore : la defecazione del protagonista, che spera così di attirare le attenzioni della vera madre, chiunque essa sia, e che assume toni apocalittici nel momento in cui gli altri bambini fanno altrettanto, è comicamente vissuta dalla loro protettrice al pari della permanenza ad Auschwitz. Per sbarazzarsi del padre di Momò, che lo rivuole dopo un lungo periodo in ospedale a seguito dell’uccisione della madre, Madame Rosa gli fa credere che il figlio sia un bambino ebreo, procurandogli, così, un provvidenziale infarto: qualunque arabo, infatti, si schianterebbe al suolo dinanzi alla ferale notizia. Razzismo, solitudine, pregiudizio, rimozione, voglia di mettersi in gioco sono vissuti senza filtri per ricordare che è la mescolanza, il sincretismo, la fusione con ciò che altri considerano alieno a dare sostanza al vivere, come nel tentativo dei danzatori neri di liberare la vecchia dal suo malessere e nella performance musicale che Orlando esegue alla fine della vicenda con gli altri artisti. L’attore costruisce le figure in scena in modo così credibile e intenso da spingere lo spettatore a non perdere neppure una parola. Nella conclusione, quando Momò ha ormai trovato una famiglia amorevole, è di nuovo narrato l’episodio dell’uovo. In questo simbolo di ciclicità e rinascita, la sofferenza non scompare, ma si rigenera e al tempo stesso sboccia una nuova possibilità. Riavvolgere il nastro della vita è ancora possibile.

“La codista”, la feroce solitudine dei nostri tempi

 

Non si può certo sbagliare, quando la si vede ferma sotto la luce, sobria e discreta, mentre non perde d’occhio un invisibile monitor : è una delle innumerevoli figure che s’incontrano facilmente negli uffici pubblici. Eppure è nel quotidiano che si annida quell’inquietudine che scava le ossa. “La codista”, di e con Marleen Scholten, proposto al Teatro Ghirelli, è una notevole sfida per l’interprete e per la platea, che si misura con un personaggio quasi sempre immobile, spesso silenzioso, che punta sugli spettatori sguardi che assecondano l’attesa, la rendono concreta non meno della donna che parla. Quell’immobilità, che va sostenuta con caramelle, sigarette, banane e pazienza da vendere, ha però acquisito una riconoscibilità sociale, sancita addirittura dalla Treccani : colei che aspetta con stoica determinazione il turno è una codista, ovvero una persona che, a pagamento, si accolla le interminabili file per ottenere documenti necessari ai propri clienti. L’utilità di questa occupazione è più volte ribadita nel corso della messinscena : occorre organizzazione, cura, versatilità, attitudine a meritare la fiducia, senza trascurare la preziosa possibilità di rapportarsi con individui sempre diversi, ma la rabbia e la frustrazione esplodono, sia pur in pochi attimi. Come una superficie levigata in cui si aprono lentamente delle crepe, lo spettacolo rivela poco alla volta la sua affilata crudeltà. Nell’osservare i comportamenti altrui (l’insofferenza degli utenti, l’algida distanza degli addetti agli sportelli, la voce altissima della farmacista che non riesce a farsi comprendere dall’immigrata, la segretaria rassegnata alle minacce) e nelle considerazioni all’apparenza ovvie, la protagonista fa emergere l’incomunicabilità e la feroce solitudine che consumano, malgrado i tentativi di dissimularle. “Più il mondo va veloce, più io rallento”, afferma con orgoglio la donna, che vorrebbe contrapporre una visione equilibrata e solidale del tempo al dinamismo implacabile che pervade ogni attimo, ma l’attesa, scandita dai biglietti numerati, amplifica il senso di vuoto di chi, escluso dal lavoro, dalle relazioni, dalla comprensione, mastica il veleno delle occasioni perse, del cinismo imposto, dell’impossibilità di dare ai propri giorni un senso nuovo. Non ci si può aspettare nulla da una società in cui l’hastag tuseicarino è rivolto a chi non sputa addosso all’autista del tram che parte troppo presto. La codista cerca la pace nei versi recitati a occhi chiusi (perché il mondo non sa guardare, né ascoltare) di Rilke, di Donne, di Gualtieri, di Slauerhoff, in cui vibrano energia e desolazione, ma è solo un miraggio. Giunto il momento di accedere allo sportello, con una parrucca e scarpe nuove, impersona la cliente per cui sta svolgendo il proprio compito. Essere chiunque, pur di non pensare a un grigiore opprimente. Diventare altri, pur di nascondere le proprie ferite. Si può attendere davvero tutto, ma non la via d’uscita dalle trappole della mente.