sabato 28 dicembre 2013

“Una stanza al buio”, la trappola delle parole



Non bisognerebbe mai abbassare la guardia. Il pericolo si annida nella più ordinaria delle situazioni, come permettere l’ingresso a una signora energica e ciarliera. In programma al Piccolo Teatro del Giullare di Salerno il 28 dicembre alle 21 e il 29 alle 18.30, “Una stanza al buio” di Giuseppe Manfridi, per la regia di Angelo Ruocco, vede l’amministratore di un condominio cedere alle pressioni di una sconosciuta in visita all’appartamento in cui si è consumato un omicidio, come mostra la sagoma in gesso sul proscenio. Nella finta noncuranza con cui perlustra ogni angolo, la visitatrice (Cinzia Ugatti in una delle sue interpretazioni migliori, capace di dominare la scena a ogni passo) mette a nudo ciò che si preferirebbe tacere, come le intemperanze sessuali della vittima (rivelate dalle voci di Mimma Virtuoso, Brunella Caputo, Alfredo Micoloni, autore anche delle musiche, in una videocassetta) e quel che l’uomo (un Matteo Amaturo che tratteggia con saggezza la propria fragilità) vorrebbe tenere per sè: le proprie velleità artistiche ridicolmente smentite dall’essere un marmista del cimitero, il bisogno di ordine che nasconde l’esigenza di fuggire da una vita di “soli pensieri”, il sentimento mai spento che lo legava alla donna dell’ucciso. Il gioco di luci di Virna Prescenzio  basta alla regia per evidenziare ciò che la stanza diventa inesorabilmente: una prigione in cui l’assedio verbale della donna costringe all’angolo l’interlocutore, fino a renderlo strumento di un piano diabolico. La sagoma di gesso è a suo modo una prefigurazione: in quella stanza si consuma un secondo omicidio, dato che il protagonista sarà costretto all’estremo sacrificio di sé. La pièce celebra il potere venefico delle parole, che si insinuano nella mente fino a soggiogarla e a farla piombare nella rovina proprio lì, dove tutto sembrava prevedibile e consueto.

domenica 15 dicembre 2013

Una strepitosa Gea Martire in “Mulignane



C’è poco da fare. “Un uomo che ti cerca e che ti pensa t’arravota sana sana”. Ma il prezzo per avere anche solo un briciolo della sua attenzione –e quindi esistere-  può essere davvero salato. Del tutto a suo agio con il surreale del quotidiano, Gea Martire ha strappato molti applausi a scena aperta alla platea del Piccolo Teatro del Giullare di Salerno con “Mulignane”, lo spettacolo tratto da un racconto di Francesca Prisco e diretto da Antonio Capuano. L’esilarante percorso da larva a bomba sexy, ovvero da vittima delle circostanze a donna consapevole della propria forza, sa trasformare una crudeltà sadica in occasione di divertimento grazie al carisma dell’interprete, abilissima nel dar corpo e voce a un “brutto anatroccolo” e agli altri personaggi che pretendono di conoscere, giudicare, colpevolizzare, compatire, quando in realtà ne condividono fino al parossismo gli aspetti grotteschi. Non è un caso che all’accensione delle luci, in una scena essenziale (abiti appesi sullo sfondo, un sedile al centro del palco), appaia di spalle in un atteggiamento dimesso, come se non importasse poi tanto guardare il suo viso (e la sua anima), così come non è casuale che lavori in un’agenzia pubblicitaria, dove l’apparenza è tutto e una scollatura generosa vale più di ogni professionalità. Mica facile sopravvivere al peccato più orrendo, la condizione di zitella. Attraverso una caustica esasperazione della mimica (i movimenti di un robot impacciato, la difficoltà nel mettere a fuoco, il rapporto contraddittorio con i propri desideri), la protagonista diviene cartina di tornasole della cattiva coscienza di chi si sente perfettamente integrato in un sistema di relazioni di cui è “indegna”: basterebbe pensare all’ingombramte madre, finalmente cacciata di casa mentre si appropria del più grosso dei vibratori gelosamente custoditi dalla figlia. Trasformarsi da “pietra grezza” in “diamante” provoca l’allontanamento del brutale amante che le regala le mulignane, ovvero i lividi, del titolo, insofferente della sua rinascita. Lo spettatore percepisce però l’aspetto disturbante di questo trionfo. Il mondo appartiene ai dominatori, a chi sa schiacciare gli altri sotto il proprio ego. Che questo sia dimostrato con una vis comica fuori dal comune non toglie nulla a un teorema inquietante. (foto di Adele Filomena)

venerdì 29 novembre 2013

Autori in gioco alla Festa delle Parole di Francesco Silvestri



Il primo comandamento per chi scrive un copione teatrale? Lavorare per sottrazione, attribuendo a un personaggio tratti riconoscibili che non lo appiattiscano. È quel che hanno fatto a Salerno sette giovani autori del laboratorio di scrittura drammaturgica di Francesco Silvestri, acclamato regista, scrittore e interprete. Alla Festa delle Parole tenutasi al Piccolo Teatro del Giullare per sostenere il progetto artistico di Vincenzo Albano, Teatrografie, in programma nel 2014, i partecipanti hanno letto gli uni i testi degli altri, mentre Silvestri, illustrandone le didascalie, ha guidato gli spettatori a coglierne atmosfere e contrasti. È emersa un’attenzione al grottesco, alla fragilità, allo straniamento. “Il giorno prima” di Brunella Caputo mostra due amanti occasionali alla vigilia delle nozze, combattuti tra il desiderio e il bisogno di aggrapparsi a un legame. In “6 agosto” di Angela D’Onofrio il menage di Concetta Margetti e Claude Eatherly, che andò incontro alla follia per aver sganciato la bomba su Hiroshima, evidenzia tutte le crepe di un falso equilibrio borghese, divorato da frustrazioni, rancori, deliri. Maria Sole Limodio ha invece offerto il ritratto di una Concetta abbagliata da Hollywood a causa di uno scaltro giornalista che vuol donarle la fama col nome di Etta Boom, senza sapere che di fatto mira a essere una merce esposta ai capricci del pubblico.“Patologie univoche” di Elvira Buonocore contrappone la follia dell’artista, cioè dell’uomo libero, rappresentata da William Burroughs, a quella che pretende di farsi strumento della razionalità, incarnata da Thomas Harvey, l’anatomopatologo che s’impossessò del cervello di Einstein. Nel testo di Ilaria Varriano, invece, si ha un irresistibile duetto comico tra Thomas e il cervello che si pavoneggia come una primadonna. I pochi minuti precedenti la mezzanotte del 19 settembre  1958 (che segna l’entrata in vigore della Legge Merlin) fanno da sfondo a “Paso doble” di Alfonso Tramontano Guerritore e a “La stanza dei miracoli”di Roberto Pappalardo. Nel primo, la telefonata tra una moglie e una prostituta si muta da curiosa amicizia in un cupo colpo di scena, attraverso una tensione che toglie il respiro. Nel secondo testo di Pappalardo il prete che vuole espiare con una donna di vita il mancato miracolo di San Gennaro, mentre questa a sua volta ottiene l’assoluzione, mescola con felice ambiguità un casto peccato e una purezza contaminata. Storie coinvolgenti con cui si cimenteranno gli allievi dell’Accademia Teatrale Clarence, tenuta a Modica dallo stesso Silvestri. (Foto:Adele Filomena).

sabato 23 novembre 2013

Orazio Cerino in "Il fulmine nella terra"



Esistono macerie difficili da rimuovere: le aspettative di una generazione abbandonata alle proprie incertezze, per esempio. “Il fulmine nella terra. Irpinia 1980”, in scena oggi, 23 novembre, alle 19 presso l'Auditorium del Carcere Borbonico di Avellino, non è soltanto la ricostruzione di una vicenda che portò alla luce inefficienze e malafede (l’evento, a ingresso libero, è promosso dall’Associazione culturale “Orizzonti”, presieduta dal Dirigente Scolastico del Liceo "Colletta", il  professore Paolino Marotta, con il patrocinio della Provincia di Avellino). Il testo, scritto e diretto da Mirko Di Martino e interpretato da un appassionato Orazio Cerino, fa rivivere il clima degli anni Ottanta attraverso articoli, testimonianze e documenti originali per evidenziare come uno squarcio si sia aperto nel suolo e nella memoria collettiva, spazzando via i punti di riferimento di una parte della società che vive l’enorme fatica di interloquire con i giovani. La scelta del monologo appare del tutto coerente: l’attore che si muove a ritroso nel tempo rappresenta non solo il singolo che desidera riconoscersi in una collettività, ma anche il proposito di opporre la forza delle parole a un silenzio che preferisce seppellire le ferite invece che guarirle. Il vuoto della scena è la solitudine imposta da chi ha voluto dimenticare esigenze materiali e spirituali ed è quel vuoto che il corpo dell’interprete deve invadere e riempire con l’energia del linguaggio.

mercoledì 13 novembre 2013

“Effetto C.C” di Francesco Silvestri al Giullare di Salerno



La nostalgia della normalità, la coscienza di come i sogni possano naufragare, le trappole della diversità sono al centro di “Effetto C.C.- Il topolino Crick”, lo spettacolo scritto, diretto e interpretato da Francesco Silvestri (nella foto di Adele Filomena) che sarà proposto in video proiezione, alla presenza dell’autore, il 14 novembre alle 21 presso il Piccolo Teatro del Giullare. L’iniziativa, che prevede un contributo volontario di 5 euro, nasce dalla collaborazione tra la struttura di Via Incagliati e l’associazione culturale Erre Teatro, in vista del sostegno a Teatrografie, il progetto ideato e diretto da Vincenzo Albano. Silvestri, tra i più affascinanti artisti della scena italiana (suo il Premio Ubu come miglior attore nella versione di “Sabato Domenica e Lunedì diretta nel 2002 da Toni Servillo), debuttò con quest’opera il 22 aprile 1987, riscuotendo un grande successo di pubblico e critica. Un chirurgo e uno psicoterapeuta si servono di Antonio Cafiero, un ritardato mentale, per un audace esperimento: aumentare notevolmente il quoziente intellettivo attraverso un’operazione, la stessa sorte toccata alla cavia Crick. Antonio è consumato dal desiderio di essere accettato e amato: non vuole più patire la solitudine di chi viene considerato sbagliato, fuori posto. Ma l’intelligenza è un dono avvelenato. È proprio l’animale a dimostrarlo per primo, assumendo un comportamento che oscilla tra aggressività e prostrazione. La durata dell’esperimento è limitata: l’uomo è destinato a regredire di nuovo, a perdere quella occasione di felicità che gli era stata prospettata come un saldo punto di approdo. Ecco allora che l’andirivieni della mente tra passato e futuro, la freddezza degli specialisti, la consapevolezza dell’esistenza come una prigione costellata da inganni fanno di “Effetto C.C” uno dei copioni più dolorosi e coinvolgenti su quella condizione inaggirabile che è la fragilità. La logica mostra incongruenze ed errori, la follia disarma nella sua innocenza, nella sua incapacità di filtrare le emozioni e addomesticarle. Lo stesso scrittore e attore racconta il suo rapporto con questa pièce che chiede moltissimo al suo interprete in “E poi sono morto. La drammaturgia non postuma di Francesco Silvestri”, la monografia che Albano gli ha dedicato: “Ricordo di non aver quasi mai provato il finale perché mi metteva di fronte ad una commozione che non riuscivo a trattenere. All’interno del testo ci sono delle cose che mi appartengono, che riguardano la mia infanzia. Parlarne mi fa battere il cuore.”.

domenica 10 novembre 2013

L'Arlecchino jazz di Pierfrancesco Favino



Spaziare da Fellini a Gigi D’Alessio strizzando l’occhio al trio Lescano e a una Wanda Osiris en travesti? Tutto è possibile quando a farla da padrone è uno spudorato senso del gioco. Nell’applaudito “Servo per due”, applaudito al Teatro Verdi di Salerno, Pierfrancesco Favino, protagonista e regista con Paolo Sassanelli, rende omaggio alla Commedia dell’Arte, esaltando tutte le potenzialità espressive del corpo dell’attore, che si fa saltimbanco, mimo, tenero innamorato, burattino pasticcione, inno vivente alla voracità. Nell’adattamento di “One man, two guvnors” di Richard Bean (ispirato all’”Arlecchino” goldoniano) che lo ha impegnato con Marit Nissen e Simonetta Solder, oltre allo stesso Sassanelli, l’interprete è Pippo (nomen omen, data la sua capacità di agire puntualmente in modo illogico) che nella Rimini del 1936 deve destraggiarsi tra due padroni che si scopriranno essere due fidanzati sotto mentite spoglie. La trama è però solo un pretesto che asseconda la dimensione totalizzante dello spettacolo, l’allegra celebrazione della finzione che, anche e soprattutto nel coinvolgimento degli spettatori, esalta il carattere fittizio di tutto quel che si muove in scena. Ecco allora che la nave di “Amarcord” o l’intonare una canzone di D’Alessio con tanto di illuminazione da discoteca rientrano in una dimensione circense paga di se stessa. Il repertorio di inseguimenti, travestimenti, doppi sensi, porte sbattute in faccia con la precisione di una partitura non conosce un attimo di cedimento grazie al cast del Gruppo Danny Rose che ispira la sua recitazione al jazz, dove l’unità non può fare a meno di forze all’apparenza centrifughe. E poiché l’unico comandamento è divertire, i pezzi forti dell’epoca, come “Maramao” o “Baciami piccina”, ironicamente interpretati dal gruppo Musica da ripostiglio, come le coreografie che scandiscono la narrazione, non sono semplice omaggio al passato, ma bisogno di riscoprire la leggerezza del varietà.

giovedì 7 novembre 2013

Francesco Silvestri, al via le presentazioni di “E poi sono morto” e un workshop di scrittura



Sarà presentato l’8 novembre alle ore 19.00 presso il Teatro Nuovo di Napoli e il 9 novembre presso la Chiesa di Sant’Apollonia di Salerno, sempre alle 19, il volume di Vincenzo Albano “E poi sono morto. La drammaturgia non postuma di Francesco Silvestri”, a cura del Centro Studi sul teatro napoletano, meridionale ed europeo, coordinato dalla Professoressa Antonia Lezza. All’appuntamento napoletano saranno presenti, oltre l’autore e lo stesso Silvestri, Antonia Lezza, Giulio Baffi, Carlo Cerciello, Enzo Moscato, Giovanni Petrone. Gli interventi saranno moderati da Rosalba Ruggeri. La serata presso Sant’Apollonia vedrà invece gli interventi  di Pasquale De Cristofaro e Luciana Libero, oltre che della Professoressa Lezza e di Silvestri, moderati da Gemma Criscuoli. Successive presentazioni si terranno inoltre il 13 novembre alle ore 20.30 al Teatro Civico14 di Caserta e il 21 novembre ad Avellino, alle ore 19.00, in collaborazione con l’associazione culturale Vernice fresca, negli spazi della libreria “Angolo delle storie”. È prevista una tappa siciliana, a Modica, il 14 dicembre, in collaborazione con Atp Clarence, presso la Ex chiesa di SS. Nicolò ed Erasmo. Nell’intento di colmare una vistosa lacuna della critica su uno degli artisti più versatili che la scena italiana abbia finora proposto, nel suo libro Albano, che gli aveva dedicato la prima edizione della manifestazione Teatrografie, entra nell’immaginario di Silvestri attraverso un appassionato studio dei suoi testi che permette allo specialista come al lettore comune di coglierne affinità e peculiarità. Ogni copione rivela a suo modo la versatilità espressiva che rende feconda la lingua dell’autore, che spazia con la stessa freschezza dal dialetto più aggressivo al registro più sofisticato, e in tutti si coglie una marginalità intesa come redde rationem di forze in contrasto e luogo in cui coltivare un’impossibile felicità.
Avrà inoltre luogo il 14 novembre alle 21, presso il Piccolo Teatro del Giullare, la video proiezione inedita di uno dei più acclamati successi nazionali di Silvestri, “Effetto C.C. Il topolino Crick”, a cura dell’associazione culturale Erre Teatro con un libero contributo d’ingresso di 5,00 euro. Erre Teatro promuove tra l’altro a Salerno il workshop intensivo di scrittura drammaturgica “Nuovi testi per una nuova scena”, a cura del regista di “Fratellini”, dall’11 al 20 novembre 2013 (ore 16.00 - 20.00), negli spazi di “Botteghelle65/salumeria storica”, in via – appunto – Botteghelle n.65. Info, prenotazioni e modalità di iscrizione su erreteatro.info@gmail.com.

mercoledì 23 ottobre 2013

Accademia di Macerata, a Tomaso Binga una Laurea Honoris Causa



Un’equilibrista del linguaggio, un’esploratrice del significato capace di trasformare vocaboli e forme in occasione di gioco, denuncia, smascheramento graffiante. Ribaltando gli stereotipi che si fossilizzano (ieri come oggi) in una netta distinzione tra maschile e femminile, Tomaso Binga, al secolo Bianca Pucciarelli Menna, ha sempre fatto dell’arte un momento di confronto e di rottura di ipocriti equilibri. In omaggio a una coerenza capace di rinnovarsi continuamente, l'Accademia di Belle Arti di Macerata le assegnerà il 24 ottobre alle 10.30 nell’Aula Svoboda la Laurea Honoris Causa nel corso di una giornata che vede la collaborazione con la Fondazione Filiberto Menna di Salerno, il Dispac / Dipartimento di Scienze del Patrimonio Culturale dell'Università degli Studi di Salerno e la Fondazione Carime. La mostra “Tomaso Binga. Scritture Viventi”, curata da Antonello Tolve e Stefania Zuliani, sarà inaugurata nel giorno del prestigioso conferimento e sarà visitabile fino al 24 novembre presso la Galleria Galeotti in Piazza Vittorio Veneto 7, dove è prevista alle 18.30 la performance a cura di Pierfrancesco Giannangeli “Con 40° all'ombra e 98° di umidità”: qui l’ambiguità della lingua diviene sagace prospettiva conoscitiva. La tematica femnminista, particolarmente cara a questa amante del futurismo e dell’innovazione espressiva, ha rappresentato un motivo conduttore per la necessità di sottolineare la forza benevolmente eversiva della differenza. La ricerca sulla voce, sul gesto, sul corpo, aspetti diversi della medesima energia, ha condotto Binga a una militanza artistica che è dialogo con l’assurdo, cifra inaggirabile del vivere, e incitamento a non lasciarsi irretire dalle trappole di un’anestesa percettiva. La sensazione, madre della conoscenza, è facilmente schiacciata da un’omologazione che pervade la quotidianità sotto ogni punto di vista e di fatto la priva di senso, mentre proprio ad essa l’artista vuole resituire l’attitudine a ridisegnare confini e concezioni. Di qui l’importanza della condivisione e del coinvolgimento degli spettatori nelle performance di Binga, che ha sempre visto in chi dà corpo all’arte un mezzo per approdare a una consapevolezza più profonda. È lei stessa a descrivere il suo lavoro: “Ironia e grottesco, denuncia e dissacrazione, non sense e luogo comune e il sonoro più stereotipato del mondo tecnologico sono stati gli ingredienti principali delle mie poesie performative che, con la poesia sonora, si sono arricchite della energia corporea necessaria a stabilire un tramite più diretto tra il testo e il fruitore”.

domenica 20 ottobre 2013

Al Verdi di Salerno "Le voci di dentro" secondo Toni Servillo



La vita è sogno, dicono i poeti. Ma un sogno oscuro, contraddittorio, da cui è impossibile evadere. Nel suo allestimento de Le voci di dentro, l’opera più crudele dell’amato Eduardo in scena fino al 20 ottobre al Teatro Verdi di Salerno, Toni Servillo, regista e interprete, si mostra particolarmente attento alla dimensione onirica del testo che contribuisce a rendere indecifrabile un qualsiasi punto di riferimento. Le scene di Lino Fiorito prediligono una nudità evocativa in cui far muovere il cast (Chiara Baffi,  Betti Pedrazzi, Marcello Romolo, Gigio Morra, Lucia Mandarini, Vincenzo Nemolato, Marianna Robustelli, Antonello Cossia, Daghi Rondanini, Rocco Giordano, Maria Angela Robustelli, Francesco Paglino, su cui primeggia Peppe Servillo, un Carlo Saporito credibilissimo nel suo viscido egoismo): il primo atto presenta solo ciò che è strettamente funzionale al racconto, una credenza e un tavolo con delle sedie, per porre in maggiore risalto, con la luce tendente all’opaco di Cesare Accetta, gli ambigui comportamenti dei personaggi. Il divisorio che nel secondo atto separa dal proscenio la soffitta di Zi’Nicola (che nella sua muta saggezza al vetriolo non potrebbe che guardare tutto dall’alto) e il gioco di chiaroscuri rendono sempre più sfuggenti gli interlocutori di Alberto, il cui isolamento spirituale è tanto più evidente quanto più le altre figure lo incalzano. Nella luce abbagliante della conclusione, quando le macerie dell’etica sono più chiare del sole, il protagonista  si slancia verso l’ingresso buio della sua casa nel tentativo di interpretare il segnale rivelatore che ha udito (o si è illuso di udire) da parte dello zio ormai defunto, come a rintracciare nell’inconscio, dove tutto ha avuto inizio con il sogno mostruoso, un’impossibile risposta alla logica malata degi uomini. E quando Carlo si addormenta nella medesima posizione della cameriera di casa Cimmaruta all’inizio sotto gli occhi smarriti di Alberto, non resta che contemplare l’amara verità: la comprensione e la giustizia sono più evanescenti di un sogno, proprio come chi le desidera disperatamente.

sabato 19 ottobre 2013

Al Ghirelli di Salerno Renato Carpentieri in "Fuori"



Davvero irritante trovarsi di colpo fuori casa. Soprattutto se ci si accorge di essere esclusi da tutta una concezione del vivere. In scena al Teatro Ghirelli di Salerno fino al 20 ottobre, Renato Carpentieri è regista e interprete con Valeria Luchetti e Stefano Patti di “Fuori”, lo spettacolo prodotto da Fondazione Salerno Contemporanea Teatro Stabile di Innovazione tratto dal romanzo di Vincent Delecroix À la porte. Al centro della vicenda, l’irrimediabile solitudine di chi non può e non vuole riconoscersi in un contesto immiserito dalla superbia e dalla vacuità. Quando uno studente chiude distrattamente la porta della sua abitazione, un professore di filosofia impegnato in un articolo sul Fedone, dove non a caso l’ansia di liberarsi dalla bieca materialità è particolarmente viva, si abbandona ai suoi pensieri in un contesto urbano ricostruito con pochissimi elementi: tre ingressi, il tavolino di un bar, un manifesto strappato. L’essenzialità della scenografia isola ancora di più il protagonista in un’omologazione che toglie riconoscibilità a luoghi e persone: la cameriera che, cambiando parrucca, muta anche l’atteggiamento nei confronti del professore, allude a una visione della vita come scambio di maschere incongrue. In un mondo che pullula di geni morti e viventi pur annegando in una spaventosa ignoranza, che obbedisce al calcolo, all’ipocrisia, alla moda, il dialogo con chi non c’è più sembra offrire un minimo di conforto, subito spento (il rumore insopportabile che impedisce al professore di udire il fantasma di suo padre, la figlia morta che potrebbe incarnare la filososfia stessa, amata sopra ogni cosa). Non c’è da stupirsi se quadri splendidi appaiono dietro la porta di un bagno: l’Arte, medicina dell’anima, ormai lontana da occhi incapaci di coglierne la forza, rifugge le morte strutture che fingono di ossequiarla (i musei) e si apre, inaspettatamente, oltre le convenzioni, a chi sa desiderarla. È la bellezza l’unico antidoto al morbo di una civiltà crudelmente ottusa. Gli infermieri che sbarrano la strada al docente, impedendogli il ritorno nella sua casa, sono emblema di una visione borghese che non perdona la differenza. L’uomo porrà dinanzi al volto un ritratto di Van Dick, mentre i fantasmi dei genitori lo contemplano da lontano, come ad attenderlo: una morte che vuole essere una rinascita, fuori da una società che è a sua volta già morta senza saperlo.

sabato 12 ottobre 2013

Nicoletta Braschi in “Giorni felici” al Ghirelli di Salerno



Frasi vuote e gesti che ostentano normalità sullo sfondo di un deserto. Un’immobilità fisica e psichica che non è poi così diversa dallo strisciare senza avanzare di fatto di un millimetro. La vita borghese è un inferno in cui non si sfugge a se stessi in “Giorni felici” di Samuel Beckett, che Andrea Renzi dirigerà fino al 13 ottobre presso il Teatro Ghirelli di Salerno. Affiancata da un intenso Roberto De Francesco che sa rendere concreta l’oppressione della presenza come dell’assenza, Nicoletta Braschi gioca la sua interpetazione sui toni carezzevoli e melensi della donna perfettamente integrata in un contesto sociale mentre è sepolta fino alla vita tra i massi (ma ciò che la imprigiona potrebbe far pensare alle fortificazioni di una trincea: dopotutto quella che si combatte è una guerra contro la logica e l’equilibrio). Il paravento che riproduce in modo stilizzato uno scenario perso tra sabbia e nuvole, dietro cui il marito della protagonista si rintana muovendosi carponi, rispondendole a monosillabi o con frasi lette da un giornale, contribuisce a rendere irreale un contesto in cui un tempo pietrificato è scandito dal suono di una sveglia e dagli sguardi di chi ha un disperato bisogno di riempire di parole il suo nulla. La borsa da cui sono tratti spazzola, pettine, cappellino e tutto quel che si addice a una figura rispettabile allude a una vita legittimata dal possesso, ma avvelenata da una tendenza ad autodistruggersi, come mostra il racconto della bimba che possiede una bellissima bambola ma è assalita da un topo e la pistola che la Braschi posiziona davanti a sè .Frammenti di versi, ricordi, tendenza a concentrarsi su particolari all’apparenza irrilevanti come una formica, che è, lei sì, viva, rinviano a uno spaesamento dell’anima, all’impossibilità di riconoscersi e di rintracciare un significato nel protrarsi delle ore. “E’ questo che trovo meraviglioso” ripete Winnie nel tentativo di esorcizzare il malessere rincorrendo il miraggio della felicità.  Anche la coppia curiosa e polemica che la donna ricorda non è che immagine della propria condizione di solitudine e naufragio. Willie e Winnie, speculari nella loro deriva, non possono che celebrare una sorta di rito di congedo quando quest’ultima, sepolta fino al collo, lo vede avanzare verso di lei con un abito da cerimonia, mentre lei intona “La vedova allegra”, come a voler ricordare, se è esisito, il momento felice in cui un contatto umano poteva ancora contare qualcosa.

giovedì 10 ottobre 2013

“Casa di bambola”, il dramma del possesso



“Che dolcezza vivere ed essere felici!”, ma il sorriso diventa una smorfia amara sulle sue labbra. La Nora di Ibsen è una delle figure più complesse della drammaturgia nella sua fragilità e la Compagnia dell’Eclissi offrirà un convincente allestimento di “Casa di bambola” il 12 e 13 ottobre presso il Teatro 99 Posti di Mercogliano. Col suo volto mobilissimo e la sua passione, Marianna Esposito è il vero fulcro della scena, la figura che fa emergere sensazioni e limiti di chi l’attornia anche quando è lontana. Il regista Uto Zhali opta per una leggibilità che non impoverisce il copione. Due immagini fotografiche appese alla parete alludono a ciò che si chiede a una donna in un asfittico contesto borghese. In una, un corpo femminile nudo si ripiega su se stesso senza che se ne possa scorgere il volto: la sensualità di chi è desiderata, ma non ha il diritto di desiderare. In un’altra, una signora che sembra uscita da una stampa dell’Ottocento spinge lontano lo sguardo: è evidente la compostezza e l’equilibrio della mater familias. L’arredamento ridotto all’essenziale (un tavolino, tre divani), rimanda alla provvisorietà della moglie di Torvald (un efficace Ernesto Fava, disposto a misurarsi con tutti i toni della crudeltà), pronta a improvvisare una performance a seconda dei desideri del marito, senza essere nulla per se stessa. Il furioso ondeggiare del suo corpo alla fine del primo atto che la lascia prostrata al suolo è metafora dell’oscillare tra forze contrastanti che la imprigionano. In questo dramma del possesso in cui bisogna avere per essere, la protagonista tenta di esorcizzare il suo destino di oggetto senz’anima rincorrendo la prosperità. Mentre Kristine (Viola Di Caprio) sa, per averlo sperimentato, che è assai facile essere in vendita, Nora si crede sostegno di un contesto familiare che la fagocita, divenendo vittima e carnefice delle proprie illusioni. I due ruoli si mescolano nel misurato Felice Avella, che incarna il destino sempre pronto a far saldare i conti in sospeso. Non a caso si giunge alla verità attraverso la menzogna (la donna ha falsificato la firma su di un’obbligazione) che è ben gradita alla borghesia, finchè non ne comprometta i piani. Da questo gioco di maschere si esce attraverso la morte fisica (un dolente Roberto Lombardi) o sociale (Nora abbandona tutto e tutti e si dirige verso la luce dorata sul fondo che è la vita vera ed è l’unica a imboccare quella via). Meglio essere privi di certezze che della propria identità.

“Gli altri fantasmi” al Giullare di Salerno



La tensione irrisolta si percepisce fin dall’inizio, nell’andirivieni nervoso dei personaggi che, come sorpresi da uno sguardo indiscreto, spariscono dietro il sipario, mentre fumo e luce disegnano un’atmosfera irreale. Nell’allestimento de “Gli altri fantasmi” di Maurizio De Giovanni, per la rega di Brunella Caputo, in programma al Piccolo Teatro del Giullare di Salerno fino al 27 ottobre, la morte che non si rassegna a essere archiviata e la vita che si scopre fragile si scambiano continuamente le parti, fino ad annullare la distanza tra chi resta e chi è solo all’apparenza scomparso. Ciò che sta particolarmente a cuore al cast (Cinzia Ugatti, Caterina Micoloni, Augusto Landi, Michele Landi, Rocco Giannattasio, Mimma Virtuoso, Teresa Di Florio, Andrea Bloise) è restituire credibilità alle anime sul palco: una ragazza che vive tra degrado e violenza, mentre lo spirito della madre conduce a morte il padre abbrutito, un uomo costretto da un cieco a ricordare il proprio suicidio per la morte dell’amatissimo figlioletto, marito e moglie che, anche dopo essersi uccisi a vicenda, continuano a nutrire il proprio rancore nella casa oggetto delle loro mire borghesi. Le musiche e  le coreografie di Virna Prescenzo creano un clima di attesa che non si apre mai a una vera pacificazione dei protagonisti, mentre la scenografia di Michele Paolillo, giocata su pannelli che evidenziano la dimensione onirica di Napoli o ingigantiscono oggetti, conducono subito lo spettatore nell’esasperata soggettività di queste figure che solo narrando fino allo sfinimento possono intravedere –ma mai cogliere- una tregua dalle passioni che le hanno condizionate. Il racconto riapre ferite, porta a galla motivazioni nascoste, permette a un sentimento di rifiorire: è la dimensione in cui vita e morte possono riconoscersi, sapendo che l’una non potrà mai sussistere senza l’altra. E le frasi che tornano a echeggiare nel finale esprimono il bisogno lancinante di protrarre l’inganno dell’esistenza e i suoi sogni che non vogliono scomparire.

sabato 5 ottobre 2013

“…E poi sono morto”, la drammaturgia di Francesco Silvestri nel libro di Vincenzo Albano



“Se non c’è un elemento dissonante e visionario nei miei testi, non riesco a riconoscermi, è come se non mi appartenessero”. Oscilla tra il sogno –fragile difesa contro la sofferenza- e la disarmonia –ciò che incrina e sfalda la cosiddetta normalità-  il percorso dell’attore, scrittore e regista Francesco Silvestri che Vincenzo Albano, fondatore dell’associazione culturale Erre Teatro, ricostruisce e analizza in “…E poi sono morto. La drammaturgia non postuma di Francesco Silvestri” (Libreria Dante & Descartes). Il volume, corredato dalla introduzione del giornalista e critico teatrale Paolo Petroni e dalla postfazione di Antonia Lezza, docente di Letteratura Italiana e Letteratura Teatrale Italiana dell’Università di Salerno, fa parte della collana di Quaderni sul Teatro dell’Associazione Centro Studi sul Teatro Napoletano, Meridionale ed Europeo. Albano, che ha dedicato all’artista la prima edizione a Salerno di Teatrografie, prende le mosse da “Piume”, finalista nel 2001 al Premio Ater Riccione e qui pubblicato per la prima volta, ultimo testo di Silvestri da ogni punto di vista, poichè rappresenta la summa del suo mondo drammaturgico. Se, come dice Bontempelli, “pubblicare è come seppellire”, visto che la scrittura è un dato definitivo a meno che l’autore non scompagini le carte, in quell’ambiguo teorema della mancanza che è “Piume” lo scrittore ha proiettato le proprie tensioni in modo così assoluto e profondo da non potersi spingere oltre, sancendo, per così dire, la propria morte, ovvero il proprio silenzio. Interrogando questa assenza, Albano entra nell’immaginario di Silvestri attraverso un appassionato studio dei suoi testi che permette allo specialista come al lettore comune di coglierne affinità e peculiarità. Ogni copione rivela a suo modo la versatilità espressiva che rende feconda la lingua dell’autore, che spazia con la stessa freschezza dal dialetto più aggressivo al registro più sofisticato, e in tutti si coglie una marginalità intesa come redde rationem di forze in contrasto e luogo in cui coltivare un’impossibile felicità. La donna di “Mon enfant” che crea un dialogo fittizio col suo amante assente, Edoardo e Antonio che in “Saro e la rosa” tramano per avere un figlio proprio, la “stoltezza patentata” del protagonista ne “La guerra di Martin” che illumina l’idiozia autentica delle armi, l’amoroso Gildo che veglia sul fratello, entrambi fuori posto perché l’uno è ritardato e l’altro malato di aids in “Fratellini”, sono tutte immagini di un’incompletezza che non si rassegna, malgrado tutto, a non desiderare quella pace che resta un’illusione.

martedì 1 ottobre 2013

“Francesco”, l’outsider della fede



Guardarlo con sospetto o ammirazione era naturale. Nessuno aveva desiderato con tanta intensità un radicale cambiamento dell’anima, nessuno gli era alla pari nel carisma. Il santo d’Assisi rivive in tutta la sua forza destabilizzante in “Francesco”, lo spettacolo, che vede Alessandro Sparacino nella duplice veste di regista e interprete al fianco di Alessandro Romano, Adriano Gurrieri, Giada Lasagna Liuzzo e Francesco Silvestri, in programma il 4 e 5 ottobre alle 21 presso la Chiesa di San Niccolò a Modica, sede dell’Accademia Teatrale Clarence. Mentre la voce fuori campo di Giorgio Sparacino introduce il pubblico al mondo dei Fioretti e tre artisti di strada ricostruiscono il percorso di questo outsider della fede, il regista, sulla base di testimonianze spesso trascurate dalla cultura ufficiale,  sceglie un approccio anticonvenzionale per raccontare l’amore per la vita in un uomo restituito alle sue fragilità e debolezze. Non è il ritratto agiografico a prendere forma, ma un Francesco esposto alla sofferenza e all’errore, mosso da una passione che lo porterà a fare del teatro la dimensione privilegiata per diffondere il suo messaggio di fratellanza. Un omaggio a una figura chiave del mondo medievale e alla capacità del palcoscenico di rendere tutto possibile.

lunedì 30 settembre 2013

“Il sogno dei felici”, storia di vite interrotte



La figura velata, una luna antropomorfa, (il raffinato Luciano Dell'Aglio) accende lentamente le piccole luci sulla scena e i personaggi iniziano ad assumere i propri gesti consueti, pronti a creare per l’ennesima volta a suo beneficio un dramma che li inchioda a una casa che ha “troppe stanze vuote e pensieri vacanti”.  “Il sogno dei felici”, che Antonio Grimaldi ha diretto presso la Chiesa di Sant’Apollonia di Salerno, si basa su di un assunto chiarissimo: la follia è l’unico rifugio di un’anima assetata di letizia e la solitudine che nasce dai sogni spezzati spinge a una lotta tanto violenta quanto inutile. I figli dementi che regalano la propria illogica allegria (Cristina Milito Pagliara e Massimo Villani, in un’interpretazione di profonda intensità) vogliono costruire un petardo che faccia esplodere tutto, esprimendo inconsapevolmente la situazione in cui vivono, dove tutti gli equilibri –ammesso che siano mai esistiti-sono saltati. Badoglio, l’uomo cane che dovrebbe essere una sorta di nume tutelare della casa e che ne riflette invece l’inquietudine irrisolta in un’aggressività che lo rende dolorosamente umano (un Alfonso Tramontano Guerritore attentissimo al suo ruolo e autore dei testi insieme alla generosa Elvira Buonocore, che impersona la madre), nutre un rapporto di amore e odio verso la luna (“Tu sei la corda che attende l’impiccato” le urla), perché non le perdona la sua distanza, il ribadire la segregazione di queste vite interrotte attraverso la sua imperturbabilità. Alessandro Gioia impersona il padre e ogni suo atto racconta con spudorata sincerità il peso di una vita che non ha più la forza di difendere i propri ideali, la madre, che ha il nome antifrastico di Gioia, vorrebbe essere pura e perfetta come la Vergine, perché nessuna felicità può rassegnarsi ad annegare nel nulla. E quando le figure si avventano le une contro le altre, lei si accanisce anche contro se stessa per non aver saputo a sua volta difendere ciò che dava un senso all’esistenza. Eppure neanche la volta celeste può fare a meno di una terra che si macera nel rimpianto e nell’ansia di rinascere. Alla fine dello spettacolo, la luna si accosta al nucleo familiare, come ad attendere a sua volta un motivo per vivere. Del resto, “Chi ci pensa alla solitudine folle di chi sta sempre in cielo?”.

giovedì 19 settembre 2013

A Nocera Inferiore Saverio La Ruina in “La borto”



Il passato è una terra straniera? Dovrete ricredervi se assisterete alla performance di Saverio La Ruina in “La borto”. Lo spettacolo, prodotto da Scena Verticale, chiuderà sabato 21 settembre alle 21 al Castello Fienga di Nocera Inferiore la rassegna Centrale dell’Arte promossa dal Teatro Grimaldello. Sono inoltre previste la mostra di Salvatore Illegittimo, Bonaventura Giordano, Renata Frana e la messinscena di “Esercito d’amore” (regia di Antonio Grimaldi, testi di Alfonso Tramontano Guerritore), tentativo di opporre il desiderio a qualunque forma di dissoluzione. Diventa impossibile relegare in tempi lontani il Sud chiuso a chiave nella propria minacciosa immobilità fisica e psicologica che La Ruina restituisce nel ritmo del dialetto calabro. Nella sua lenta musicalità, il racconto si insinua, diventa familiare e ci si scopre vicini alla donna che l’attore interpreta senza alcun trucco: non potrebbe essere diversamente, perché nel mondo narrato un’idea femminile del vivere non ha diritto a concretizzarsi in un corpo autonomo. Dove la prospettiva maschile è totalizzante, la protagonista e le sue compagne non sono che vittime di una maternità che non è apertura alla vita, ma esasperazione di una condizione claustrofobica.  Ecco allora che l’aborto non è vissuto come gesto d’odio, ma tentativo sofferto di vivere un’esistenza secondo una volontà che non sia quella del padrone di turno. Perfino Cristo dovrà perdonare questa peccatrice. E il dolore che si rinnova in un racconto a tratti perfino ironico testimonia le ferite profonde inflitte da chi si preoccupa di colpire, ma non di capire

martedì 3 settembre 2013

"Esercito d'amore", una lotta chiamata desiderio



In uno schieramento serrato, sposi e spose avanzano lentamente, la mano sul cuore, verso un’invisibile linea del fuoco, per poi disperdersi, teneri e sospesi, sulle note di “Besame mucho”. Elogio del romanticismo? Niente di più sbagliato. È una lotta senza quartiere “Esercito d’amore”, che il regista Antonio Grimaldi ha proposto all’arena Ghirelli di Salerno nell’ambito della rassegna “La fornace del Teatro”. Nella performance dedicata “alle vene e alle ossa del corpo, a Pina Bausch e a Marta Graham”, gli interpreti rappresentano l’elemento perturbatore, la forza che ha intima necessità di sprigionarsi attraverso un coinvolgimento totale dell’anima e del corpo. Prendono possesso della scena attraverso un linguaggio che esprime consacrazione (i gesti che mimano il testo di “The man i love”) e rottura (lo schiaffo a uno sposo che sembra riverberarsi su tutti gli altri), per far confluire in se stessi gli opposti e farli esplodere, divendeno così rifugio e via di fuga di tutte le tensioni possibili. Il corale protendersi verso gli spettatori, direttamente convolti nella danza o anche solo abbracciati come compagni di viaggio, il bisogno di assediare lo spazio come a ricordare che non esiste nulla di definitivo, se non l’eterna tensione verso l’altrove, spingono gli sposi a fare dolce violenza a una percezione assopita. I testi di Alfonso Tramontano Guerritore, che figura anche tra gli attori, raccontano l’anarchia del desiderio (“Questo è il sangue…Era nei baci e sarà ovunque nei pensieri”) che è tentativo ostinato di forzare atti e coscienze, di aprire nuove possibilità. Ecco allora che morte e vita diventano i due momenti dello stesso percorso, come mostra la resurrezione dei due sposi coperti di terra e acqua che si destano felici, come a prendersi gioco del concetto stesso di fine. Non esiste tuttavia desiderio che abbia la strada spianata: i protagonisti sono raggelati dal suono di una sirena, bloccati da una forza che impedisce loro di avanzare, costretti a muoversi in un insensato andirivieni cme se un carcere invisibile li avesse di colpo inghiottiti e spinti disperatamente gli uni nelle braccia degli altri. La scena (cioè il mondo) non si lascia conquistare facilmente da una libertà così accecante. E quando si ammassano prostrati, all’apparenza sconfitti, gli sposi sanno, malgrado tutto, che l’unica fede è nei loro corpi così impudicamente innocenti, pronti sempre a divenire, ma non a essere.

giovedì 22 agosto 2013

"Noir", omaggio al genere per antonomasia



È il re dei generi, perché li ingloba tutti. Ha regole ferree e infinite diramazioni. Ama trasgredire la sua riconoscibilità narrativa. Il noir sa creare nel pubblico le giuste attese per poi farlo ritrovare in un vicolo cieco e a questa forma artistica Teatrazione Teatro ha dedicato l’omonimo concerto-spettacolo ad apertura della rassegna “La fornace del Teatro” presso l’arena Ghirelli di Salerno. La messinscena, che coinvolge Adriano Galdi (live electronics) e Goelga (vjing), si basa su scelte che a prima vista sorprendono. Le proiezioni sempre cangianti e al tempo stesso percorse da motivi ricorrenti che aprono e chiudono la performance (fome circolari, prismatiche, effetti ottici presentati da diverse angolazioni e ossessivamente riproposti, quasi una geometria dell’impossibile alla ricerca di una propria logica) alludono alla peculiarità del noir: la fluidità del suo statuto espressivo, il suo carattere labirintico che rende estraneo ciò che era apparso un attimo prima familiare. La vicenda si dipana attraverso cinque capitoli con tanto di prologo su Caino e Abele (Il killer, La gran figa francese, il tassista indiano, L’uomo degli incarichi, Victor Sanchez) e Igor Canto, con la perfetta impassibilità degli assassini di Melville, deve eliminare su commissione di un losco individuo un personaggio che si scoprirà legato alla donna che lo ha tradito. Gli ingredienti del filone ci sono tutti (l’inganno dell’amore, la suspense, il senso delle cose perdute, la sostanziale estraneità dell’omicida a qualunque contesto) e diventano oggetto di un gioco parodistico in cui la corporeità ha un ruolo centrale. La mimica surreale è il punto di forza della rappresentazione: a Cristina Recupito basta una buffa camminata e un cappello per creare il personaggio di turno, che sia l’insopportabile tassista o il mandante dall’immancabile accento siculo. Con l’affetto dello spettatore devoto i due interpreti evidenziano precisi riferimenti a un certo immaginario: il prologo stesso è leggibile come rimando all’inesorabilità del male che si trova in tante pellicole degli anni quaranta come al Samuel Jackson di Pulp Fiction, amante delle citazioni bibliche al momento di compiere i suoi “lavoretti”. Gli stessi tempi morti della narrazione rientrano in questo amore per un modo non convenzionale di raccontare. Il noir è anche misura del disagio e dell’incongruenza, specchio di quel lato grottesco del vivere che si preferisce relegare nei libri e nelle pellicole. (foto di Meri Cannaviello)

lunedì 19 agosto 2013

Salerno, al Ghirelli "La Fornace del Teatro"



Le suggestioni del cinema degli anni Quaranta, il fascino di Shakespeare, le inquietudini dell’uomo contemporaneo. Risulta versatile il programma de “La Fornace del Teatro”, la rassegna curata da Franco Alfano sotto l’egida della Fondazione Salerno Contemporanea e del Comune di Salerno, che si terrà dal 20 agosto al 2 settembre presso il Teatro Ghirelli. Si inzia con “Noir”, dove Igor Canto e Cristina Recupito (col supporto di Adriano Galdi e Goelga) creeranno un concerto-spettacolo per rivivere con ironia le atmosfere di un racconto poliziesco, attenti come di consueto a un preciso gioco di rimandi e allusioni. Il 21 agosto la Compagna dell’Eclissi punterà su di un suo cavallo di battaglia, “Il piacere dell’onestà”, dove la nudità della messinscena e le coordinate spaziali volutamente indefinite restituiscono al testo pirandelliano tutta la sua forza. Alessandro Tedesco dirigerà Marta Chiara Amabile, Daniela De Bartolomeis e Michela Ventre in “Il tè delle tre” (22 agosto): l’incontro sulla tomba del proprio psichiatra spinge tre donne instabili a rivelare aspetti a dir poco sconcertanti della propria natura, fino a giungere a un finale del tutto inaspettato. “La ciorta di Zeza” di e con Carlo Roselli, in programma il 24 agosto, prenderà le mosse dal Pentamerone di Giovan Battista Basile per dar vita a uno spettacolo dove il racconto si fa azione scenica e incontro senza filtri del pubblico con personaggi come Vardiello, lo sciocco che attiva una serie di situazioni comiche, o l’avveduta Grannona. Il 27 agosto Antonetta Capriglione e Antonino Masilotti, per la regia di Marco Dell’Acqua, impersoneranno tutte le figure principali dell’“Amleto” come altrettante declinazioni del dissidio senpre aperto tra verità e finzione. La regista Simona Forte proporrà il 28 agosto un capolavoro di Harold Pinter, “L’amante”, con Stefania Autori, Marco Di Gregorio e Danilo Napoli. Una coppia alle prese con il nemico di ogni rapporto, l’abitudine, opta per un’infedeltà sui generis, visto che gli amanti con cui rifioriscono sono i coniugi stessi. Il 29 agosto sarà il Teatro Grimaldello a dominare il palcoscenico con una performance che si rifà a Pina Bausch e Martha Graham, “Esercito d’amore”, in cui trenta attori vestiti da sposi cercheranno di colmare la distanza che li separa dal proprio oggetto del desiderio in una guerra che alberga negli animi prima ancora che nei luoghi. La chiusura della manifestazione è affidata alla compagnia Le Ombre, che con “Poteva andare peggio” offre un ritratto dell’Italia di oggi e delle sue incongruenze attraverso le vicende di un protagonista alle prese con la paternità e con i molti problemi del quotidiano.

mercoledì 7 agosto 2013

Successo al Castello Fienga per "Il baciamano"



“A magnà giacubine nun se fa peccat, c’emm nfurmat”. In quel mondo di corpi straziati e sognati che è “Il baciamano” di Manlio Santanelli, l’assurdo diventa la norma e a essere cannibalizzata è anche l’anima. Nello spettacolo diretto con successo da Antonio Grimaldi al Castello Fienga di Nocera Inferiore, nell’ambito della manifestazione Centrale dell’Arte, Janara, una popolana che può solo sognare una vita diversa tra miserie e violenze (Annarita Vitolo, che regala al pubblico un personaggio più vero del vero), si accinge a uccidere e cucinare un giacobino (l’intenso Vincenzo Albano). La recitazione, giocata quasi interamente su tinte forti, diventa a ogni passo più coinvolgente, senza cadere nella trappola di un parossismo artificioso. L’essenzialità della scenografia riflette il deserto che il fallimento della rivoluzione del 1799 lascia a Napoli: una cornice impressa su di un tendaggio (la donna non ha sbocchi o prospettive) un tavolo, un baule dove riporre quasi con amore i resti di altre vittime (un crudo realismo assolutamente necessario dato il carattere del testo, che rende di fatto la morte una pratica usuale), una bacinella e un coltello. Janara riduce la sua esistenza a rabbia e istinto. La maschera di maiale che indossa a un certo punto della messinscena, così come la cupa fiaba di Ficuciell, sono chiari riferimenti a quel bisogno di sopraffazione che diventa naturale come respirare. Il prigioniero, che non rinuncia al suo linguaggio forbito, cerca di suscitare in lei umanità ed ecco che si scoprono più vicini di quanto non appaia. Sono entrambi vittime di un mondo che non si volta a guardare chi calpesta e quando Janara confessa di aver sempre desiderato un gesto delicatamente aristocratico, il baciamano, i due inscenano questo rito, quasi a voler cancellare per un momento ogni barbarie. E come la popolana si percepisce finalmente persona e non più semplice corpo, così il giacobino sta per cedere alla stessa violenza che l’ha condotto alla fine. Sarà il pensiero dell’amato compagno morto e il fortissimo senso di lealtà a impedirgli di diventare a sua volta un omicida, per quanto il motivo più vero consista nel leggere in Janara la sua stessa fragilità, la stessa sconfitta del proprio bisogno di felicità. I protagonisti non sfuggiranno a ciò che li aspetta. Quella della lazzara è una discesa nel buio, ma almeno questo buio non è privo della forza malata del desiderio.