sabato 30 dicembre 2017

Le parole di sabbia di Vittorio Sgarbi



La misteriosa sensualità dell’Allegoria della Notte e  la sospensione del Pensieroso, ovvero la statua del Magnifico, frutti del genio michelangiolesco; la grazia di Raffaello nello “Sposalizio della Vergine”; la potenza di Dante; le suggestioni di Listz, che fa respirare nelle sue composizioni la forza dei capolavori italiani. Ha guardato allo strettissimo legame tra arte e musica il “Discorso a due” condotto da Vittorio Sgarbi e dal pianista Nazzareno Carusi presso il Teatro Verdi di Salerno. L’armonia inquieta che in Michelangelo nasce dal conflitto volutamente irrisolto tra fragilità e persistenza del segno, come la tensione del Canto quinto dell’Inferno avrebbero richiesto una dissertazione capace di sedurre anche le pietre, ma si dà il caso che la sbandierata abilità dialettica di Sgarbi si sia risolta in un vuoto gioco di prestigio, un’interpretazione delle opere proposte che ha simulato profondità per poi arrestarsi ben prima di quello che un buon manuale avrebbe potuto illustrare. Quelle del critico sono state parole di sabbia, pronte a essere disperse da un ascolto che cercasse qualcosa  di più di un epidermico approccio. Il colpo di grazia è stato inferto nel momento in cui l’”illustre” ospite ha preteso di declamare il Canto di Paolo e Francesca. Il coinvolgimento emotivo che attraversa la narrazione è scomparso sotto l’opprimente monotonia di un’esposizione dovuta a insopportabile vanità. Chiunque può amare quel mistero generoso che è l’arte, ma un parvenu che dà spettacolo di se stesso non conduce a questa meta, anche se applaudito da un pubblico cieco.

“Il diario di Adamo ed Eva”, noie e delizie della convivenza



Davvero curioso, il nuovo essere dai capelli lunghi. Non solo parla in continuazione, rompendo la meravigliosa quiete dell’Eden, ma ha la bizzarra abitudine di usare i verbi al plurale. Carla Avarista rende omaggio al sottile umorismo di Marc Twain dirigendo  “Il diario di Adamo ed Eva”, applaudito presso il Piccolo Teatro del Giullare di Salerno. La messinscena presenta pochi elementi essenziali, perché tutto è puntato sull’affiatamento dei protagonisti: frutti e fiori sparpagliati ovunque, una nuda struttura che funge da capanna, come nudo e visibile è il senso del possesso, l’altalena su cui appare la prima donna, cioè il primo sguardo vitale sul mondo. Se Ciro Girardi è estremamente attento a tratteggiare in ogni dettaglio l’ottusità di un Adamo a cui basta un ferreo egoismo (gli atti sospettosi, lo sguardo sorpreso e infastidito, i gesti scabri di chi non ha nessuna voglia di guardare oltre il proprio naso), Brunella Caputo, che connota con amore il suo personaggio, è un’Eva irresistibile, golosa della vita, pronta a dare nomi alle cose e dunque a rivelarne con fanciullesca gioia l’essenza. Al di là delle facili associazioni tra la Natura e lei, ciò che colpisce in Eva è la sua capacità di essere sistematicamente altro, non allineata, sempre disposta a smascherare pochezze e pregiudizi con  la sua sola curiosità. Pur imparando ad amare, Adamo resta distante dalla comprensione della realtà (i figli gli sembrano buffamente un’anomalia biologica), mentre la compagna, peccatrice nella dimensione cattolica, ma salvifica in quella umana, incarna l’amore tra la parte e il tutto prima ancora che tra due individui. E solo aprendosi all’altro, questo intruso che viene a dare un senso a ciò che non ne ha, si scopre quanto sia ridicolo sentirsi il padrone del proprio mondo.

“Fiore ammazzato”, lo scandalo della purezza



Uccidere, riservare al defunto il compianto di prammatica, avanzare ipotesi su eventi di cui in realtà si sa ogni dettaglio (“Cos’e femmen, cos’e sord!”).  Tutto è un rituale in un mondo immobile, mentre innocenza e fragilità sono incidenti di percorso. Basato sui testi di Alfonso Tramontano Guerritore, prezioso equilibrio tra concretezza e fascinazione evocativa, “Fiore ammazzato” è lo spettacolo che Antonio Grimaldi ha diretto con successo presso il Centro Sociale di Pagani. Appare una scelta naturale che i sicari al soldo del criminale di turno e le donne raccolte in preghiera alle esequie della vittima siano interpretati dagli stessi attori: lo stesso Tramontano Guerritore, appassionato e coinvolgente, e Alessandro Gioia, che orchestra con saggezza irruenza e dolore, entrambi comari ironicamente ipocrite. Dove infatti non è prevista una via di fuga, si respira la stessa opprimente atmosfera al di là del proprio ruolo. Schizzo e Capitone si muovono con circospezione, anche strisciando sulla schiena, lungo i confini della scena (il contesto violento e rigidamente predeterminato che li condiziona). Al centro di questa geometria, Andrea Torre impersona il ragazzo ucciso per sbaglio, che con spudorato candore racconta la totale immedesimazione nella natura, dove non esistono quei cappi che sono le categorie. Il merlo a cui allude e con cui si identifica, nel riferimento alle piume sparse dappertutto, è immagine della vita stessa, energia inarrestabile e disposta a scompaginare ciò che sembra ferocemente inerte. I due amici pagheranno molto caro l’errore, che in realtà prova come la malavita non sia riuscita a trasformarli negli automi che voleva. Il passo falso apre uno spiraglio sui ragazzi senza filtri né malizia che sono stati e che possono tornare a essere solo dopo la morte. In una dimensione temporale che si gioca su più livelli, tornando su se stessa e aprendo a un futuro che finge prospettive,  il loro passato di abbandono e di abuso risorge come il giocattolo nascosto al cui interno c’è la cocaina (inutile tentativo di dimenticare). Immobili per sempre nell’attimo struggente in cui tutto era ancora possibile, rivivono la purezza che il giovane ucciso, specchio suo malgrado di quel che è stato perduto, anima come un monito. Tra le ciarle delle due donne, non è cambiato nulla, eppure è mutato tutto. Calpestare non basta : lo sguardo innocente è un fiore caparbio, osserva impudico e manda in pezzi i piani. Attenti a ciò che seppellite: tornerà a sbarrarvi la strada.