venerdì 13 luglio 2018

Leopardi e l’Italia, l’amore molesto



“Sono passati duecentoventi anni dalla sua nascita ma noi siamo ancora lì, nella foto che Giacomo ci ha scattato”. Le parole accarezzate, misurate ma mai grigie di Corrado Augias hanno guidato il pubblico del Teatro Verdi lungo il percorso umano e poetico di uno dei più grandi autori di tutti i tempi nello spettacolo “O patria mia-Leopardi e l’Italia” per la regia di Angelo Generali, racchiuso nella voce suadente di Arnoldo Foà che recita “L’infinito” e “Canto di un pastore errante dell’Asia”. Con una chitarra del XIX secolo, Stefano Albarello ha eseguito dal vivo “En medio a mis colores” di Rossini, ricordando come “Il Turco in Italia” fosse la prima opera che folgorò il giovane scrittore, tanto da indurlo alle lacrime. Ha poi suonato e cantato il più antico stornello romano a noi giunto, alludendo al senso di prigionia che suscitò in Leopardi la Chiesa, “Una furtiva lagrima” a corredo del mondo di sentimenti attorno a Silvia e a Nerina, né poteva mancare la prima versione dell’inno di Mameli, per concludere con “Fenesta ca lucive”. Il nostro sapeva che amare una patria non è semplice, specialmente se si è di fronte a qualcosa di improbabile come nel Bel Paese: quel “divertimento scompagnato da ogni fatica dell’animo”, la stessa fatuità nel passeggiare, andare a messa, assistere a una rappresentazione, il non possedere costumi ma usanze. Le opinioni modellano i costumi che sono regolati dalle leggi, ma, ricorda Augias, “Dove questa catena non è rispettata, una legge nasce sul vuoto ed è puntualmente inefficace”. La tendenza tutta italica alla prostrazione è dannosa ieri come oggi e offre occasione per riflettere sull’attualità: “Avremmo dovuto essere meno entusiasti dinanzi all’entrata in vigore dell’euro così come dovremmo essere meno depressi oggi, dato che l’abbandono della moneta unica sarebbe per noi rovinoso”. Che inviti ad avere “pietà di questa bellissima terra” o ne colga le molte pecche, Leopardi, che trova nell’immaginazione il vero rifugio dell’uomo sensibile, colpisce comunque nella sua implacabile lucidità, sia quando descrive il deserto spirituale di sua madre (“un carattere sensibilissimo ridotto così dalla religione”), sia quando ricorda la corruzione del clero (“il cardinale Malvasia mette le mani in petto alle dame e condanna all’Inquisizione i mariti di quelle che si ribellano”). Emerge anche la solitudine del padre Monaldo, che teme di perdere i figli per le nuove prospettive aperte dal contatto con Pietro Giordani. Chi è fuori dal coro è sempre osservato con sospetto. “Come comportarci con le dottrine e le regole che ci circondano?” si chiede Augias. Il recanatese saprebbe cosa rispondere: non sacrificare a nessun codice la libertà dello spirito.

“Homologia”, il tramonto di un’anima indomita



Se pensate che una vecchia carcassa non abbia più nulla da offrire, vi sbagliate. Mai  sottovalutare un’anima non ancora assopita. Rocco Manfredi e Francesco Napoli, diretti da Alessandra Ventrella, hanno profuso tutte le proprie energie in “Homologia”, lo spettacolo della compagnia DispensaBarzotti riproposto con successo al Centro Sociale a conclusione della terza stagione di Mutaverso, diretta da Vincenzo Albano. Affidata interamente al gesto e a maschere cupamente rugose, la messinscena esplora attraverso un linguaggio da illusionista la possibilità di ritrovarsi. I trucchi da mago mostrano che la realtà non può appartenere ai soli sensi né a una sola prospettiva. Il foglio di giornale che si solleva sulla testa dell’anziano legato a gesti ripetitivi allude allo smarrimento delle facoltà cognitive ma anche al bisogno di giocare con la monotonia per darle scacco. La radio sormontata da un minuscolo fuoco d’artificio per festeggiare il compleanno del vecchio, con tanto di capellino e torta propri dell’infanzia, ha un grande valore evocativo, perchè capta quelle “voci di dentro” che attendono il risveglio. Le scatole da regalo che piombano sul palco sono al tempo stesso beffarde e consolatorie: esprimono il carattere illusorio della vita, ma sono anche esortazione a donarsi a se stessi, cercando un nuovo inizio (i simboli del compleanno) e la forza di protrarlo (il giovane che emerge dalla scatola più grande). La gioventù è tuttavia qualcosa di sclerotizzato nel passato (i faticosi tentativi di animare il ragazzo da parte dell’anziano) e lo sdoppiamento del protagonista culmina nel naufragio (le pose plastiche che li rendono l’uno testimone della morte dell’altro). Solo incontrando un altro se stesso infatti si può avere l’esatta misura del limite e dell’occasione di varcarlo. L’abbandono dell’attempato fantoccio sulla poltrona mentre i due giovani soffiano sulla candelina rimanda alla liberazione dal corpo, dalla noia, dalla sterilità, ma non si può escludere che le due figure siano l’ultimo, testardo sogno di chi ha dovuto arrendersi al nulla.