domenica 9 novembre 2014

La dolorosa consapevolezza di “Una pura formalità”



L’indicibile accade fuori scena (fuori delle proprie difese e certezze). A sipario chiuso riecheggia uno sparo, mentre imperversa il suono di una pioggia violenta. E quando il palco diventa visibile, una guardia cerca di decifrare alla luce incerta di una torcia i nomi che costellano le pareti di quello che sembra un ampio cunicolo sotterraneo. È un viaggio tutt’altro che agevole dal buio alla luce (quella del nulla o della rinascita) “Una pura formalità”, lo spettacolo diretto e  interpretato da Glauco Mauri, in programma fino al 9 novembre alle 18.30 al Teatro Verdi di Salerno. Ispirata all’omonimo film di Giuseppe Tornatore, la messinscena è un lungo duello verbale tra il commissario di una stazione di polizia che genera inquietudine per il senso di abbandono in cui versa (lo stesso Mauri) e Onoff, uno scrittore a cui Roberto Sturno dona tutta la disperata energia di chi si sente messo all’angolo ed è costretto a rimestare nel proprio passato alla ricerca delle risposte che non vorrebbe trovare. La vicenda si snoda con l’inesorabilità di un redde rationem in cui ricordi, false piste, allusioni, sorprese si susseguono in una ricerca della verità che culmina nel ritorno al punto di partenza: Onoff è carnefice e vittima, dato che si è ucciso con lo sparo udito all’inizio. Non è un caso che sia uno scrittore, ovvero una figura che dovrebbe osservare con un’acutezza al di sopra della norma l’assurdità del vivere: lo scacco diviene allora ancora più bruciante, perché le parole non sono riuscite a contrapporsi al peso dell’esistenza, per quanto l’opera sia comunque destinata a sopravvivere al suo autore (l’ultimo romanzo che diverrà un successo). In questo oscillare tra la coscienza e il rimosso, gli interpreti compiono su se stessi un paziente lavoro di scarnificazione, mettendo progressivamente a nudo le proprie pulsioni fino a riconoscere la propria essenza di viaggiatori privi di meta. La sofferenza che divora l’anima è una sorta di rituale che si perpetua oltre il tempo: i nomi sulle pareti della stazione appartengono a chi ha condiviso la sorte del protagonista, dinanzi alla quale il commissario diviene nume tutelare, confidente, accusatore, dolente complice di un uomo inchiodato all’impossibilità di strappare se stesso ai propri limiti. Non resta che cercare ancora, malgrado sconfitte e solitudini, un significato che possa illuminare, anche solo per un istante, il vicolo buio che la vita può essere. E quando, prima di perdersi in un altrove troppo lontano da ogni raziocinio, Onoff si chiede “E adesso?”, i protagonisti si voltano in silenzio verso la platea, nella vana attesa che una risposta si manifesti.

mercoledì 5 novembre 2014

“Una pura formalità”, Glauco Mauri e Roberto Sturno al Verdi di Salerno



Comprendere e comprendersi può essere il momento più crudele e straniante della propria vita. Eppure non esistono alternative: bisogna spingersi oltre la cosiddetta realtà, aprire le porte che sembrano ostinatamente chiuse. “Una pura formalità”, la versione teatrale del film di Giuseppe Tornatore curata e diretta da Glauco Mauri, aprirà il 6 novembre alle 21 la stagione del Teatro Verdi di Salerno. Lo spettacolo resterà in cartellone fino al 9 novembre, quando la replica si terrà alle 18.30. Oltre a Roberto Sturno, che interpreta lo scrittore Onoff, il cast comprende Giuseppe Nitti, Amedeo D'Amico, Paolo Benvenuto Vezzoso, Marco Fiore. Giuliano Spinelli e Irene Monti firmano scene e costumi, mentre le musiche sono di Germano Mazzocchetti. In un commissariato dall’aria fatiscente, in cui sembra smarrito ogni concetto di tempo, al cospetto di un commissario (lo stesso Mauri) che sembra conoscere più di quanto ammetta, Onoff è accusato di un delitto su cui sembra davvero un’impresa riuscire a fare luce. La tensione cresce sino al culmine per poi giungere a una conclusione sconvolgente. “Ho cercato di far rivivere tutta la forza drammatica della sceneggiatura, modificandone quelle parti che si presentavano con dei connotati troppo cinematografici- ha scritto il regista- preservandone al tempo stesso quell’intensità che dall’inizio ci avvolge nel suo misterioso intreccio.

lunedì 3 novembre 2014

“Cante e schiante”, il cuore dei Campi Flegrei



“Quello a cui assisterete non è uno spettacolo, ma una lettura animata con personaggi e oggetti in cui sarete anche voi artigiani della visione”. Entrare nel mondo di Mimmo Borrelli è sorprendentemente facile. Qualsiasi diaframma tra lui e lo spettatore si dissolve in “Cante e schiante”, l’atto d’amore verso il “popolaccio ostile” dei Campi Flegrei che ha concluso “Per voce sola. Parole della nostra scena”, la rassegna ideata e diretta da Vincenzo Albano sostenuta dalla rivista Puracultura. Al Piccolo Teatro del Giullare di Salerno letteralmente invaso dal pubblico, Borrelli, in cui condivisione e concretezza marciano di pari passo, ha spiegato le dinamiche della performance ispirata a “A sciaveca”, frutto di una lunga gestazione nel passaggio dai versi al palco, così che l’irruenza del dialetto potesse fluire senza ostacoli, ironizzando sulle suggestioni con cui si è misurato (le stimmate di Tonino o Barbone che ricordano Cristo, ad esempio, perché “O cattolicesimo m’ha accis pur’a me!”). Tra pochi oggetti in scena sufficienti a creare un contesto (un bastone, uno sgabello, dell’acqua), in un testo che sembra scritto nella carne e che fa emergere bellezza e orrore come la sciabica, la rete da traino che cattura alghe e pesci, la forza evocativa della parola materializza un immaginario nutrito da passioni, rancori, visioni, brutalità, tenerezze, bestemmie apotropaiche, ansia insopprimibile di vivere. Mutamento e immutabilità si mescolano nella storia dell’amore calpestato tra Angela e Tonino, ucciso con l’inganno. Cinquesecce, il fratellastro di quest’ultimo che la stupra insieme a due balordi, è a sua volta nato da uno stupro. La stessa sorte subisce da parte del padre Pacchione, un monco che l’artista crea curvo e con due scodelle che gli nascondono le mani (un’inazione schiacciata dal peso della consapevolezza e che non può sanare le sue ferite aggrappandosi a una croce di legno, immagine di un sacrificio senza redenzione) e la stessa brutalità torna nel terzo fratello, Peppe Schiumetta, un prete preoccupato solo di se stesso. La trasformazione di Tonino redivivo in pesce e di Angela in delfino, l’animale che fa da tramite tra immanenza e trascendenza, esprime in una dimensione fiabesca la rivalsa della vita sulla morte (il colera che è anche malattia dell’anima). E solo il mare, che annulla ogni concetto di spazio e tempo, avrebbe potuto raccontare una vicenda in cui tutto può morire e tutto può rinascere.