giovedì 28 marzo 2013

“Il gusto dell’intimità”, il naufragio delle illusioni

Desiderarsi, respirarsi, perdersi negli occhi dell’altro, per poi ritrovarsi soli a sognare tutto ciò che non si è vissuto. È davvero alto il prezzo pagato alle proprie illusioni in “Il gusto dell’intimità”, lo spettacolo coprodotto dal Teatro Pubblico Campano vincitore del Premio Nuove Sensibilità 2010/2011. Carlotta Vitale e Mimmo Conte, che cura anche la regia, esplorano con crudele intelligenza il cieco percorso chiamato amore in un’autentica coreografia delle distanze che non si attenuano. Nella scena iniziale in controluce, con un Borsalino e un basco rossi, chiaro segno della passione, si osservano come se venissero da molto lontano. Stanno cercando di capire se il tempo insieme varrà qualcosa e al tempo rimandano i calici ai bordi di un tavolo, spinti lentamente verso il centro a esprimere la condivisione del rituale amoroso. Le incongruenze emergono subito: una cioccolata bevuta con orribile risucchio abbassa il livello della loro interazione, la musica che ostacola la comunicazione nella luce rossa di una discoteca prefigura l’inutile frastuono degli stereotipi dietro cui tentano di dimenticare il proprio vuoto. Si muovono su un falso piano: in piedi su una sedia, lui appare il nume tutelare a cui chiedere l’impossibile (fama, ricchezza, sostegno). Se si avvicinano con gli atti leziosi dei perfetti innamorati, ben presto gesti inconsulti alzano o zittiscono la musica per rivalsa, ribadendo l’incapacità di ascolto. La luce ha peso quanto i personaggi stessi. Quando si muovono nella loro intimità di piombo, il bianco violento riverberato dalle poltrone, tra cui ci si muove carponi come in una trincea, li inchioda a un’aridità assoluta, così come la luce raggelante puntata sulla grottesca lotta per il telecomando. Si dibattono tra ambizioni infantili e dissonanti (lei sogna di essere una diva degli anni Venti, lui un improbabile comico americano). La loro vita è un discorso monco: si incontrano quando lui è in panne, come del resto in tutta la sua esistenza, e le stesse immagini di “Otto e mezzo” che avvolgono la scena riecheggiano una storia che non trova ordine né definizione. È un disco rotto la colonna sonora di un abbraccio mancato. La morte è il naturale esito di una vita bloccata. I calici tornano nella posizione originale: non ci si può più illudere di essere vicini. Spetta a una voce fuori campo cercare la ferocia del sentimento, nel breve attimo in cui ci si guarda per l’ultima volta.

mercoledì 27 marzo 2013

Antigone, quanta luce in quel buio


Il buio appare impenetrabile, assoluto, fino a  quando una donna in abito rosso è lentamente calata dall’alto. China su quell’oscurità al di fuori dello spazio e del tempo, ripete come una formula antica nomi di farmaci, prima che il suo sguardo dolente e fermo campeggi sullo sfondo. L’ “Antigone” diretta da Luca De Fusco su testo di Valeria Parrella, dove Gaia Aprea trova un miracoloso equilibrio tra rigore e intensità, si nutre di un conflitto che si amplia fino a divenire totalizzante. Il fratello a  cui rendere onore non è un cadavere insepolto, anzi sì: è in coma vegetativo da tredici anni, una non vita che il Legislatore, a cui Paolo Serra offre il suo volto duro come l’acciaio (non ha senso dargli un nome, la norma livella ogni cosa), tutela implacabilmente. Nelle scene di Maurizio Balò, le tenebre rappresentano il coma di Polinice che imprigiona la protagonista come la stessa Tebe, piombata nel sonno oscuro del rifiuto di ogni visione critica. Non è un caso che Ismene, incarnazione del senso comune che basta comunque a se stesso, non appaia mai sul palco né risponda ad Antigone che le parla. Da quel fondale di piombo emergono come da un pozzo i due corifei (Giacinto Palmarin e Dalal Suleiman), che non possono più indicare una strada come accadeva nella tragedia classica, ma solo vivere l’ansiosa ricerca di un senso che si opponga al nulla. Attraverso dei video i volti in bianco e nero di tutti i protagonisti s’impongono alla vista, senza riuscire quasi mai a intercettare l’uno gli occhi dell’altro (tranne nello scontro tra la figlia di Edipo e suo zio), isolati nella manifestazione della propria personalità anche su piani differenti, senza possibilità di un vero dialogo. L’unico antidoto all’omologazione del pensiero è la complessità. Antigone evidenzia come il suo avversario difenda la morte e non la vita, come crede, e Tiresia (Anita Bartolucci) è interpretato da una donna perché l’esistenza è un gioco irrisolto di opposti. Il viso del Legislatore appare rimpicciolito quando emerge quello dell’indovino, perché lo costringe a incrinare la solidità delle sue certezze e i corifei non possono non essere due, perché la verità, ammesso che esista, non ha meno di due facce. È significativo che Antigone divida la cella con una madre, altro esempio di vita negata offerto da Nunzia Schiano, scontando una reclusione non meno opprimente di quella in cui Polinice si trova. Ne uscirà con il suicidio, trascinata verso l’alto con un movimento opposto a quello iniziale. Avevano probabilmente ragione gli antichi: “forse il nostro vivere è un morire e il morire un vivere laggiù”.     

venerdì 22 marzo 2013

L’oratorio onirico di “Traumdeutung”

Non vi piacerebbe invitare una nave a ballare? E resistereste alla tentazione di scrivere Gott mit uns su di un gluteo? Aggirarsi nell’inconscio riserva più di una sorpresa, come mostra l’allestimento di“Traumdeutung” che la compagnia Melisma ha offerto presso lo Studio Apollonia di Salerno nell’ambito di Out of Bounds, la rassegna curata dall’Officina Teatrale LAAV. Il copione di Sanguineti è restituito in pieno alla sua valenza di elogio della musicalità, una sorta di grottesco spartito dove i vocaboli diventano note anarcoidi, felicemente distanti da ogni senso compiuto o, se si preferisce, giunte alle estreme conseguenze del senso stesso: un’autarchia significante che non è semplice esaltazione, ma sublimazione dell’irrazionalità. I protagonisti (Loredana Mauro, Emilio Barone, Francesco Petti, Carlo Roselli, così equilibrati nella loro effervescente performance da sembrare le proiezioni del medesimo soggetto, pur nella differenza del loro approccio)  accolgono gli spettatori nel buio completo con piccole pile, si mescolano a loro, intrecciano il resoconto dei loro sogni in una straniante polifonia: espediente necessario per immergersi subito nelle zone recondite della mente. Numeri, corpi, cadute libere, distanze, spazi aperti, desideri si compongono progressivamente in un oratorio onirico dove le voci diventano strumenti musicali a tutti gli effetti. Quando la donna è immersa in un sonno agitato e le figure maschili si protendono ai bordi del letto, incarnano le sue pulsioni, il rimosso sopraggiunto a rimuovere la cosiddetta realtà. La sognatrice dona a sua volta voce a ciò che si agita nella mente dei suoi compagni di viaggio, mentre le note di Giovanni Battista Pergolesi e Salvatore Sciarrino creano da un lato un ironico contraltare, sottolineando solennemente ciò che non si lascia categorizzare, dall’altro ricordano l’inafferrabilità del suono, la sua capacità di ridefinire confini e di annullarli. Quando gli uomini si allontanano alla fine dello spettacolo, la loro interlocutrice piega il corpo in avanti come se le mancasse il fiato. E in effetti rinunciare al sogno e alla sua facoltà di soggiogarci toglie davvero il respiro.   

mercoledì 20 marzo 2013

Ruccello, l’arte della crudeltà

Un banco di prova del talento di uno scrittore? La crudeltà, l’arte sottile di fare a pezzi ciò che appare prezioso. Annibale Ruccello resta un genio indiscusso in questo campo e la regia di Arturo Cirillo in “Ferdinando”, che lo vede nei panni di Don Catello, asseconda in pieno questa predisposizione. La nobildonna Clotilde (una Sabrina Scuccimarra caustica e volitiva), sua cugina Gesualda (Monica Piseddu, che non le è da meno nella torbida determinazione a perseguire i suoi obiettivi) e il sacerdote avido e lascivo falliscono tutti nel tentativo di sopraffarsi a vicenda, perché vittime di se stessi. Soggiogati dal bisogno di possedere il giovane ospite (un Nino Bruno nel quale Cirillo evidenzia nettamente l’aspetto fanciullesco per rendere ancora più intenso lo smacco finale), si scoprono burattini nelle mani di chi riflette la loro cupidigia. Tutti sono pronti a sacrificare tutto alla propria meta e in un autentico contrappasso corrodono gli ambigui equilibri che li uniscono, rendendo il ragazzo ago della bilancia, come mostrano i raffinati raccordi tra diversi momenti narrativi: il prete offre gli abiti al “nipote” di Clotilde, nudo dopo la seduzione, con la lenta cura dell’officiante e le due donne che lo vegliano ai lati del letto appaiono il capovolgimento di due immagini sacre. E poiché la vera crudeltà attinge anche al grottesco, la comparsa finale di Ferdinando travestito da angelo, come previsto dalla recita natalizia, ha il sapore di un amaro redde rationem: un emissario celeste non venuto per portare nuova luce (la polemica contro la religione come rito sterile e ipocrita attraversa l’intera opera: si ricordi che nell’assaporare il corpo di Gesualda, Catello continua a reggere tra le dita il breviario), ma per inchiodare al buio dell’aridità le due protagoniste. È appena il caso di ricordare come dietro questo avventuriero si nasconda la nuova Italia che di nuovo ha ben poco. Dall’egoismo non nasce che egoismo. La baronessa e la cugina non potranno fare altro che perpetuare il rito della serva e della padrona, cercando l’una nell’altra la propria essenza. E tutto questo per uno che non si chiamava neppure Ferdinando.

domenica 17 marzo 2013

“Sciarada”, ironia a piene mani

Tra sorrisi e moine due dame rimproverano l’una all’altra tutti i difetti immaginabili sulle note di “Quello che le donne non dicono”. Stravagante? Piuttosto un allegro omaggio alla contaminazione tra modi diversi di rapportarsi alla scena. Oscillando con lo stesso entusiasmo tra il teatro impegnato e il divertissement, Antonio Grimaldi si avvale dell’interpretazione e della coreografia di Loredana Mutalipassi nell’applaudita “Sciarada”, la commedia musicale che ha il suo punto di forza nell’affiatamento del cast (Orazio Cerino, Dina Galdi, Alessandro Gioia, Michela Ventre, Carmen Di Lorenzo, Gerarda Ferruzzi, Simone Liguori, oltre alo steso Grimaldi). Prendendo spunto dagli intrighi amorosi e dal gusto della critica alle convenzioni borghesi propri di Feydeau, i personaggi espongono a una continua autorironia desideri e vanità, come nel caso in cui i gentiluomini cantano con falso dolore la propria ossessione per il gentil sesso, intonando “E lucean le stelle”,  oppure quando si affida a uno dei pezzi più struggenti di “Cats” la “bellezza” di un cappello trash. Tre ballerini che entrano ed escono da una cornice fungono da spettatori, complici e attrezzisti, evidenziando l’incongruenza degli atteggiamenti delle altre figure. È chiara l’idea che tutto il mondo sia palcoscenico: la vita è un copione spesso grottesco, ma certamente non noioso.

sabato 16 marzo 2013

"Il Maestro e gli altri" in replica a Napoli

Che gioia infinita essere un genio incontrastato delle scene! Che sublime piacere guardare dall’alto i collaboratori pronti a bere ogni parola del capo come se fosse Vangelo! Chi oserebbe contrastare questo equilibrio perfetto? “Il Maestro e gli altri”, che la Compagnia del Giullare, diretta da Andrea Carraro, allestirà fino 17 marzo alla Sala Assoli a Napoli, è il divertito adattamento dell’omonima opera di Luigi Lunari. Gaetano Fasanaro offre una prova pressoché perfetta nel suo ruolo del Maestro (la sua “vestizione” sulle note della danza delle ore è uno dei momenti preziosi dello spettacolo), di cui tratteggia con sagacia manie, eccessi e falsa benevolenza. Ogni azione di questa “divinità” è comicamente sottolineata: siede su di una pedana da cui possa sovrastare tutto, i suoi spostamenti sono illustrati con tanto di cartina geografica e se si reca dal barbiere il lenzuolo che lo avvolge ricopre l’intero palco, proprio come il suo ego. Tra gli addetti ai lavori che osano creare una propria filodrammatica (dove spiccano Amalia Imparato in accorto equilibrio tra servilismo e affermazione della propria personalità e un Andrea Bloise difensore a oltranza dell’immediatezza dell’interpretazione) il manifesto programmatico non lascia dubbi: occorre un teatro “che non rompa i coglioni” agli spettatori. Ed ecco la sorpresa: la versione musical del cavallo di battaglia del Sommo, “L’anima buona di Sezuan” di Brecht, con tanto di “We are the world” a fare da colonna sonora e coreografie volutamente improbabili, non solo ottiene un clamoroso successo, ma è salutata come innovazione del Maestro. In quel regno degli opposti che è il palcoscenico, vittoria e tonfo coincidono in chi vanta la sua presunta superiorità. Come mostrano i frequenti a-parte in cui i personaggi nominati appaiono in pose statuarie, il teatro, naif o colto che sia, è artificio a ogni passo. È sincero proprio perché mente e le categorie sono solo vuote etichette da applicare a ciò che deride la finta cultura del pubblico e dei protagonisti. Se dunque alto e basso finiscono con il coincidere, non resta che assecondare il continuo sovvertimento delle regole. Vanni Avallone, Marco Oliviero, Nicola Alagia, Mimma Virtuoso, Alfredo Micoloni, Rocco Giannattasio, Antonia Avallone, Matteo Amaturo completano il cast.

martedì 12 marzo 2013

La moderna ”Antigone”di Gaia Aprea

Le figure emergono dal buio a raccontare una storia antica quanto il mondo: il conflitto tra il singolo e la collettività, tra le ragioni dell’anima e quelle di un consesso sociale che ha sempre preferito trincerarsi in se stesso, piuttosto che comprendere ciò che esula dalla norma. Luca De Fusco dirige Gaia Aprea nell’”Antigone” tratta dall’omonima opera di Valeria Parrella dal 14 al 17 marzo al Teatro Verdi di Salerno. Ciò che in Sofocle opponeva la pietà a una legge cieca diviene qui scontro sull’eutanasia, sul diritto della carne di percepirsi inizio e approdo di ogni autocoscienza.

domenica 10 marzo 2013

“Sciarada”, atto d’amore per Feydeau

Gli amanti del teatro non possono non apprezzare Georges Feydeau. I suoi copioni rivelano una cura del particolare che ha del maniacale e su tutto aleggia il bisogno di rivelare incongruenze, ridere di difetti, mettere a nudo presunte superiorità. Antonio Grimaldi e Loredana Mutalipassi propongono al Teatro Nuovo di Salerno oggi alle 18.30, sabato 16 marzo alle 21 e domenica 17 marzo alle 18.30 “Sciarada”, una vera e propria operetta tratta dal grande commediografo francese. Sullo sfondo di un quadro di Lautrec pronto a prendere vita, danza, musica e azione scenica si fondono con energia.

sabato 9 marzo 2013

“Il Maestro e gli altri” al Giullare di Salerno

Guai a dimenticare chi regge lo scettro del palcoscenico. Tutti i registi si sono sentiti almeno una volta il sale della terra: figurarsi lo scompiglio se il Regista per antonomasia si scontra con collaboratori intenzionati (sacrilegio!) a creare una propria filodrammatica. La compagnia del Giullare di Salerno, diretta da Andrea Carraro, allestisce stasera alle 21 e domani alle 19 “Il Maestro e gli altri”, tratto dalla frizzante opera di Luigi Lunari. Dietro il re della scena appare chiaramente Strehler e lo scontro tra dispotismo e versatilità diventa occasione di gustoso divertimento.

venerdì 8 marzo 2013

Arturo Cirillo dirige “Ferdinando”


Non c’è mondo tanto impenetrabile da non subire l’irruzione del desiderio. L’egoismo è sempre sedotto dalla (falsa) innocenza. L’avvelenato terzetto all’interno di una villa napoletana cadente nel 1870 (una baronessa malata di rancore verso la nascente Italia, la cugina che le fa da schiava e un prete devoto al denaro e alla carne) è sconvolto da un giovane bellissimo. Il capolavoro di Annibale Ruccello, “Ferdinando”, sarà portato in scena dal 14 al 17 marzo al Teatro Ghirelli a Salerno da Arturo Cirillo. Al suo fianco, Sabrina Scuccimarra. Monica Piseddu e Nino Bruno.

mercoledì 6 marzo 2013

“Sogno e son desto”, il ritorno di Ranieri

Raffaele Viviani, Charles Aznavour, Giorgio Gaber, senza dimenticare un omaggio a Domenico Modugno. Sono solo alcuni degli artisti con cui si misurerà Massimo Ranieri in “Sogno e son desto”, lo spettacolo scritto con Gualtiero Peirce che si terrà il 15 marzo alle 21 al Palasele di Eboli. Nella collaudata formula che unisce il canto all’interpretazione, il protagonista intreccerà ricordi del proprio percorso alle composizioni più amate di Luigi Tenco, Fabrizio De Andrè e Violeta Parra, in un atto d’amore incondizionato per la musica di ogni tempo.

venerdì 1 marzo 2013

Oriana secondo Monica


Il sipario si apre su di un operaio che si allontana. Nel vuoto perfetto della casa, teli rivestono come sudari due librerie, una scrivania, delle sedie. Un materasso arrotolato racconta una partenza definitiva. La plastica racchiude l'intero scenario, ma una donna si fa largo sullo sfondo, come una straniera tra ciò che le era fino a poco prima familiare. Mi chiedete di parlare, scritto, diretto e interpretato da Monica Guerritore, è essenzialmente questo: la persistenza della memoria dinanzi al tempo che fa a pezzi tutto e il diritto di appartenere solo a se stessi.
Nel rintracciare il volto di Oriana oltre “la Fallaci”, nome abbagliante che nasconde dolore, fragilità, inquietudine, la Guerritore segue la linea della compassione, nel significato originario di percepire sperimentare patire il vissuto di una donna che, in quanto tale, ha dovuto “combattere di più, vedere di più, sentire di più”. Nel rispondere a una voce fuori campo (Emilia Costantini), il ritratto emerge da aneddoti, ricordi, brani di libri come Lettera a un bambino mai nato e Niente e così sia e rimandi a Paul Valery. I video sullo sfondo sono eco di sogni e di incubi. Le vie sfavillanti di New York sono grottesco controcanto al filmato dell'11 settembre. Gli auguri di Marylin a John Kennedy rappresentano l'omaggio al potere che la protagonista ha sempre rifiutato. I pozzi petroliferi del Kuwait in fiamme, mentre si arrampica su una scala (vivere tutto dal di dentro, non conosce altra via) rimandano all'odio che divampa sempre allo stesso modo, con la stessa ferocia. La rabbia disperata contro il terrorismo islamico, che ricorda L'urlo di Munch, la schianta come se tutte le vittime si spegnessero in lei, la morte della madre è il lungo addio detto a se stessa, mentre su lei veglia l'amorosa Lucilla Mininno. Eppure, lontano da ogni retorica, c'è l'ostinazione del racconto, che sfugge alla “tirannia della realtà”: le parole scorrono come un fiume luminoso alle sue spalle. L'ultima immagine che si ha di lei è alla macchina da scrivere, poi solo poche battute di un dialogo con la voce fuori campo di Francois Pelou (Rachid Benhadj) Ciò che conta è attraversare il palcoscenico della vita e la morte è solo uno spreco.