venerdì 29 aprile 2022

Upcycle, la nuova vita degli oggetti

 

Il concetto di performance è immediatamente associabile a un palcoscenico, ma gli oggetti ne sono a loro volta attraversati con una feroce rapidità. Il consumismo, infatti, esige che tutto ciò che è utilizzato sia immediatamente rimpiazzato da qualcosa che subirà la stessa sorte, con una voracità distruttiva che ha il volto dell’alienazione. Il mondo artistico può tuttavia offrire una via di scampo, come dimostra “Upcycle. Quando l’arte reinventa il mondo”, l’esposizione a cura di Silvio Mignano e Antonello Tolve, in programma dal 5 maggio al 31 luglio 2022 presso la Residenza dell’Ambasciata d’Italia in Elfenstrasse 14 a Berna. La collettiva ha il sostegno di numerosi enti (l’Ambasciata d’Italia a Berna, in collaborazione con il Consolato Generale d’Italia Zurigo, il Consolato Generale d’Italia Lugano, il Consolato Generale d’Italia Ginevra, il Consolato d’Italia Basilea e l’Istituto Italiano di Cultura Zurigo, la Fondazione Filiberto e Bianca Menna di Salerno/Roma, il TOMAV experience di Ancona e la rivista ArShake Reinventing Technology di Roma) e propone le opere di Mrdjan Bajic, Elena Bellantoni, Tomaso Binga, Manuel Canelles, Filippo Centenari, Fabrizio Cotognini, Valentina De’ Mathà, Katharien De Villiers, Isora Degola, Sabine Delafon, Ulrich Egger, Matteo Fato, Giorgia Mascitti, Claudia Giannuli, H.H. Lim, Patrizia Molinari, Deborah Napolitano, Laura Paoletti, Francesca Pasquali, Marina Paris, Lamberto Pignotti, Enrico Pulsoni, Marco Raparelli, Fabrizio Sannicandro, Giuseppe Stampone, Giovanni Termini, Eugenio Tibaldi, Adrian Tranquilli, Fosco Valentini e Narda Zapata. Era il 1994 quando l’ingegnere meccanico Rainer Pilz coniò il termine upcycle, che non consiste semplicemente nel riutilizzare un materiale destinato all’immondizia, ma nel rivalorizzarlo, mutandolo in qualcosa che assume un peso ben più ampio rispetto alla funzione originaria. L’artista è da sempre colui che individua un volto nuovo nell’assodato e ne rivoluziona la percezione. Appare dunque naturale che i protagonisti dell’esposizione attuino un ripensamento della materia rifiutata dalla logica di mercato, arricchendola di significati ulteriori e rendendola nuova occasione di scoperta, dialogo, codificazione di categorie non asfittiche. L’oggetto, che conosce una nuova natura e recupera il suo spazio in un contesto, diviene, in tal modo, sfida alla possibilità che quello stesso contesto ha di definire se stesso. L’elemento, che non ha nessun diritto di cittadinanza nella logica capitalista dello sfruttamento e dell’annichilimento di quel che, fino a poco prima, è apparso indispensabile, si fa parte integrante di un discorso di libertà creativa e di nuove modalità comunicative. Si apre, infatti, contemporaneamente, al passato e al futuro, accogliendo significati sempre rinegoziabili lontano da ogni ottica meramente commerciale. L’ambasciata d’Italia a Berna ospita la mostra nell’ambito dell’ampio programma Residenza delle Arti e la scelta non può non avere valore simbolico. Le opere degli artisti, infatti, possono essere davvero considerate ambasciatrici di un nuovo e necessario legame con una materialità che riflette e modifica il rapporto tra chi utilizza e ciò che è utilizzato, riscattandolo dalla prigionia del pensiero lineare.

 

venerdì 1 aprile 2022

“Occhi gettati”, i fantasmi di Enzo Moscato

 


Accontentarsi è facile: la meschina superficie della vita appare sufficiente a molti. C’è invece un altrove che deve debordare, dilagare, dissacrare. Percorso corale tra quello che non si rassegna a scomparire, “Occhi gettati” di e con Enzo Moscato impegna un generoso cast (Benedetto Casillo, Giuseppe Affinito, Salvatore Chiantone, Tonia Filomena, Amelia Longobardi, Emilio Massa, Anita Mosca, Antonio Polito) che incarna devotamente le ossessioni dell’autore: una Napoli affollata da corpi e memorie, la contesa tra violenza e desiderio, la purezza delle creature sfruttate e dimenticate. Se è vero che ogni artista veglia sul confine continuamente attraversato dall’essere e dal nulla, Moscato, sacerdote di un rito lontano da ogni divinità e non certo per questo meno sacro, evoca presenze e crea scenari con un linguaggio corposo e cerebrale, nobile e sudicio, nutrito di influenze francesi, spagnole, tedesche, perché Napoli è babele tenera e sfrontata, da percorrere secondo mille latitudini. I fantasmi che abitano il palcoscenico sono legati a un preciso immaginario: il femminiello che vuole rivelare a tutti la sua relazione con Facc’ i San Gennaro per vendicarsi del suo abbandono; la janara che invoca “pezzient e cazz arrezzat” perché l’aiutino a legare per sempre a sé l’amante; un testimone della guerra, che assiste al dialogo impossibile tra l’ottusa aridità dei combattenti e l’innocenza di chi parla solo con Dio; Totore che incita i popolani a gettare sui “crucchi” tutto ciò che hanno “co sta bella leggerezza da indifesi”; la prostituta Luparella, invocata come una santa, un pezzo del passato da rivivere. È del resto vero che “Quello che esce dalla bocca di una baldracca è sempre come foglio di Vangelo”, perché gli ultimi sono troppo lontani dalle convenzioni borghesi per non essere vicini alla verità. Gli spiriti fragili e sarcastici che tornano a disturbare la cecità dei vivi rappresentano, in ogni caso, sensazioni e visioni che appartengono a qualunque luogo e tempo e proprio per questo tra loro si ritrova il poeta, “il pazzo”, “il semivivo”, che s’inoltra nelle sabbie mobili della cosiddetta normalità, che giunge a dare alle parole una forza che tenti di combattere la vacuità. Ogni incursione di Moscato nel ventre della città è anche riflessione sulle suggestioni del segno, elemento refrattario ai confini, dato che “tra scrittura e amore ci sono abissi che hanno le stesse vertigini”. Ecco allora che “gli occhi gettati” del titolo non rimandano soltanto all’antica pratica del malocchio o all’inseguimento di quel che toglie il sonno, ma narrano l’esperienza che eccede il limite, la percezione di chi sta “sussurrando l’insacro” e cerca la bellezza che è sempre “esca della crudeltà”.