Non è
un Paese per vivi, l’Italia. Il glorioso passato da cui avrebbe dovuto sorgere
un futuro altrettanto splendido è una carcassa grottesca che rivela la
sostanziale immobilità di un contesto imprigionato nel proprio nulla. E a quel
punto non resta che togliere il freno al sarcasmo più feroce. Di scena al
Teatro Centro Sociale di Pagani il 1 aprile alle 21 nell’ambito della
manifestazione Scenari Pagani, “Risorgimento pop-memorie e amnesie conferite ad
una gamba” è lo spettacolo che vede protagonisti Daniele Timpano e Valerio Malorni su drammaturgia e regia dello stesso
Timpano e Marco Andreoli e la collaborazione artistica di Elvira Frosini. Mazzini,
Garibaldi, Cavour, Vittorio Emanuele, Pio IX non solo rivelano come la storia
sia da sempre violenza e inganno, ma mettono in luce il fatto che risorgere (i
due attori morti e vivi nello stesso tempo) è una coazione a ripetere l’assurdo,
un ritrovarsi a barare con le carte di sempre. La vivacità della
rappresentazione è garantita da gag che non lasciano un attimo di tregua allo
spettatore e lo pongono di fronte all’impossibilità di individuare un qualsiasi
punto di riferimento (capire come Anita sia realmente morta è un’impresa degna
di quella dei Mille). Dove la logica e la consapevolezza dei figli della patria
latitano, non restano che frammenti di ciò che ha preteso di imporre un
equilibrio : la gamba parlante dell’eroe dei due mondi e il cadavere mazziniano
in pezzi riflettono l’incoerenza di ogni disegno di riscatto nel più
improbabile dei popoli. Le situazioni paradossali di “Risorgimento pop” sono un implacabile affondo
contro ogni ipocrisia del potere e dei suoi sudditi.
Debiti
a non finire, una moglie che ha fin troppo a cuore le proprie esigenze, uno
strozzino che ha una precisa filosofia di vita (“la libertà è una pistola in
gola”). E una scelta impensabile diventa di colpo la migliore. La stagione
teatrale Mutaverso diretta da Vincenzo Albano registra il suo terzo successo al
Centro Sociale di Salerno con “Homicide House” di Emanuele Aldrovandi. Per
evitare la vendetta dell’uomo che lo tiene in scacco (Luca Cattani, scaltro e
affascinante demiurgo) il protagonista (Marco Maccieri, che è anche regista e
orchestra con cura la tensione della messinscena) accetta la sua proposta:
essere vittima di ricchi carnefici in una casa in cui sfogare tutte le tendenze
distruttive. Le torture e la morte saranno ben pagate, ma la donna intenzionata
a infilargli un punteruolo nell’occhio (Valeria Perdonò, che gioca
sapientemente col ruolo di dark lady) è ossessionata dal bisogno di verità e
vuole conoscere tutto quello che si cela nel suo “giocattolo”. Con feroce
ironia, i personaggi dunque sono messi a nudo nelle loro motivazioni, diverse
facce della stessa nevrosi: quella di avere in pugno gli altri, che si tratti
della passione dello strozzino per l’aguzzina o dell’amore di quest’ultima per
il suo ostaggio. Tutto è però strutturato in modo che non si dimentichi mai che
si sta assistendo a una messinscena. Le figure sul palco si rivolgono talvolta
al pubblico e il loro ingresso è segnato da un aspro rumore metallico, come se
si aprisse una porta; il cappio in cui l’imprenditore fallito è invitato a
infilare la testa appare da una sedia della sua casa sospesa a un cavo, perché
è in quello che si crede stabile e statico (la famiglia, appunto) che si aprono
le crepe più vistose della rovina. Il tavolo diviene podio da cui pontificano,
come su un palco, l’usuraio o la moglie (l’attenta Cecilia di Donato, che come
ogni borghese vuole distinguersi a tutti i costi e nella sua ostinazione non è
meno inquietante di chi guadagna sulla pelle altrui). L’intento del regista è
chiaro. Nella sua dinamica tra oppressi e oppressori, il mondo intero è una
Homicide House. Ciò che sembra inconcepibile è a un passo da noi, abita nella
nostra mente. E quando il marito resta solo, circondato da cadaveri, si volge
alla platea. In quello sguardo ci sta ricordando che gli occhi assetati di
orrore sono comunque i nostri e che in questo gigantesco spettacolo basta poco
a diventare sinistri primi attori.
L’alienazione
è contagiosa. Attraversa corpi e stagioni della vita, fiorendo indisturbata tra
le mura domestiche. Applaudita dal Teatro del Giullare di Salerno nell’ambito di Mutaverso, la
stagione diretta da Vincenzo Albano, la compagnia pistoiese Gli omini ha
proposto “La famiglia Campione”: nomen omen, dato che rappresentano il
prototipo del nucleo familiare di oggi proprio nell’assurdità dei loro comportamenti.
Francesco Rotelli, Francesca Sarteanesi, Luca Zacchini, che sono attori e
interpreti con Giulia Zacchini, creano personaggi che non si dimenticano
attraverso efficaci sfumature, incarnando a turno tre generazioni in un quadro
che non ha nulla di rassicurante. La casa è quanto mai affollata: un nonno che
vorrebbe vedere slanci nei giovani, un altro che ricorda con rabbia il passato,
una nonna che passa la vita tra preghiere e moniti, Luana e il suo rancore
verso il quotidiano, divorziata da Marcello, annichilito da una vita
imprigionata, e risposata con Giancarlo, ubriaco del proprio ego, lieto di
avere nel primo marito della donna la sua vittima prediletta e padre di Enrico,
che nasconde la fragilità sotto la supponenza. I figli di Marcello sono Dario,
ribelle senza causa, Mara, alle prese con una femminilità problematica, Bianca,
non tanto una voce, ma un silenzio fuori dal coro. Ogni figura è inchiodata
alla sua condizione con un’amarezza che non è meno viva se mescolata a un
sarcasmo che non fa sconti a nessuno. Il ricorrere di gesti ed elementi, come i
tristi gilet passati da un figlio all’altro, la busta che Marcello porta con sé
per fare doni improbabili ed essere finalmente accettato, le mele mangiate con
avidità o nervosismo alludono all’impossibilità di evadere da quella prigione
che è la famiglia. Anche il viaggio a Dubai di Enrico appare una velleità più
che un proposito. E se la casa è simbolo di un’immobilità mentale, l’unica
risposta è mutare senso alla reclusione, che diviene spazio del proprio essere
precluso a chi non comprende. Bianca si chiude in bagno senza comunicare con
nessuno. L’unico segnale, non a caso, sarà “Summer on a solitary beach” che
allude a un benefico naufragio e scatenerà l’inutile entusiasmo di Dario, che
si limita a un tragicomico disprezzo del contesto. La giovane uscirà per
mangiare una mela e si rinchiuderà di nuovo. Le parole sono inutili. Mai
perdere di vista le porte chiuse. Veleno e frustrazione, quasi sempre, abitano
lì.