Cosa
pensare di un regista che sabota la propria messinscena, giustificando tutto
sotto il comodo ombrello della contaminazione? Un vivo disagio ha colto lo
spettatore de “La tempesta” shakespeariana, in scena al Teatro Verdi di Salerno
per la regia di Luca De Fusco. Gli elementi positivi, malgrado tutto, non
mancano: la saggezza innamorata dell’utopia, pur nello squarcio di un miraggio,
del Gonzalo tratteggiato con raffinata padronanza da Enzo Turrin; la solitudine
del severo Prospero di Eros Pagni, profondamente conscio della vanità del
tutto; l’ammaliante Gaia Aprea che, con l’ausilio di una maschera, impersona
Ariel e Calibano, perché devozione e ostilità sono più vicine di quel che si
creda. La biblioteca del mago come archivio dell’immaginario artistico del
Novecento difende un’idea – non stabile né univoca- di ordine da contrapporre
al caos e l’equipaggio approdato sull’isola,a volte fisso in forme plastiche su una pedana mobilein quanto proiezione della visione del mago, strappa i fogli da un leggio una volta
formulati i pensieri, identificando nella dimensione onirica arte e vita. Nulla
di nuovo sotto il sole? Esiste comunque, almeno nel primo atto, uno sguardo
organicamente orientato sul testo, oltre a un’ottima prova di tutto il cast.
All’apparizione di Trinculo e Stefano, però, si precipita in una volgarità, che
sarebbe eufemistico definire da taverna. Atti e parole, che non risparmiano
riferimenti ai neomelodici, rendono di colpo la scena inferiore a qualunque
avanspettacolo di terz’ordine. Non è l’avvilimento del registro espressivo in sé
a essere sotto accusa (il teatro deve essere immune da pregiudizi) ma il suo
essere asservito a un ammiccamento di nessun valore alla platea, dando per
scontato che la mescolanza di differenti approcci legittimi in ogni caso una
riscrittura. Altrettanto imbarazzante è l’apparizione di una Marylin che
dovrebbe incarnare la legge del desiderio, vero movente di ogni azione umana,
ma che si rivela concessione del tutta gratuita al gusto di un pubblico che non
ama essere disturbato nel suo nulla. Che la coerenza narrativa sia una convenzione
superata in nome di una libertà non addomesticabile, è salutare per chi ama il
palcoscenico. Quando però un intero impianto registico ricorre a scelte
inutilmente effettistiche, non resta che prendere atto di un bluff, che nasce
dalla superbia. Credersi al di sopra di ciò che si allestisce è un vicolo
cieco.
“Berlino
è ciò che sono i testicoli per un uomo. Quando voglio far strillare
l’Occidente, schiaccio Berlino”. Non si può affermare che Kruscev difettasse di
concretezza e schiacciare una città era all’epoca terribilmente facile. “Berlino,
cronache del muro” è l’accurato percorso storico che Ezio Mauro ha proposto al
pubblico della Sala Pasolini con Massimiliano Briarava, appassionato compagno
di viaggio nella narrazione. Le immagini alle spalle dei due lettori sono
insistentemente speculari, a dimostrare come, nonostante tutto, le due anime
della capitale non possano fare a meno di riconoscersi l’una nell’altra. La
divisione di Berlino in quattro settori d’influenza non appaga i vincitori del
secondo conflitto mondiale, date le tensioni che li dividono. La Nato e la Ddr
dimostrano che la guerra fredda è un partita che si gioca senza esclusione di
colpi. La difesa del regime, come stabilisce Ulbrich, leader del partito di
unità socialista di Germania in accordo con Kruscev, richiede misure drastiche
e il 13 agosto 1961 famiglie e amici sono separati da un muro che chiederà un
osceno tributo di sangue a chi desidera la libertà. Indimenticabili le vicende
della coppia di posdani, che, pur di raggiungere l’ovest, si gettano in un
fiume con il proprio bimbo di diciotto mesi in una scatola di latta o la
bastonatura inflitta a una madre solo per aver osato salutare la figlia al di
là della linea di fortificazione. La Stasi, la polizia segreta della Ddr, non
conosce riposo. Ha un informatore ogni cinquanta abitanti; non è possibile
neppure tagliarsi la barba o sposarsi senza la sua autorizzazione; 100.000
lettere sono intercettate ogni giorno; abiti e libri sono contaminati con
sostanze radioattive, per rendere sempre reperibili coloro che li usano. Perfino
le cabine telefoniche si illuminano di colpo, se la chiamata è diretta a un
Paese straniero. La situazione di Christa Wolf, spiata e al tempo stesso fonte
di informazioni per i funzionari che agiscono nell’ombra, mostra
l’irrisolvibile coesistenza di colpa e di aspirazione a una società diversa. Nessuna
deformazione del reale è tuttavia duratura. Si ha un bel dipingere la Ddr come
un paradiso in cui l’amore libero garantisce alle donne il doppio degli orgasmi
rispetto alla sezione occidentale della città. La pervicacia di Honecker, che
rasenta la cecità nella consacrazione alla causa, non meno della moglie Margot,
che vuole giovani in armi a difesa del socialismo, è destinata a essere
sconfitta dalla storia: quando il miraggio dell’indipendenza brilla con maggior
decisione, la perestrojka segna il disfacimento della visione comunista. Oggi
il crollo del muro dovrebbe risuonare con inaudito fragore, per ricordare che
nessun guinzaglio si può stringere a lungo alla gola di un popolo.
Saggezza,
liberazione, acutezza di giudizio: è questo che si attribuisce allo scorrere
degli anni, che compensano le energie tolte con uno sguardo più attento alla
realtà. Questo però accade solo se si ha la forza di sfuggire alle proprie
frustrazioni. “Il tempo è veleno”, diretto da Francesco Saponaro e scritto e
interpretato da TonyLaudadio al fianco
di un generoso cast particolarmente sensibile a un ritmo calibrato ((Teresa
Saponangelo, Andrea Renzi, Eva Cambiale, Angela Fontana, Lucienne Perreca) ha
avuto una positiva accoglienza al Teatro Pasolini di Salerno. La
rappresentazione si muove su due livelli strettamente complementari: il peso
della vita vissuta come prolungamento ostinato di angosce causate da errori e
omissioni e la coesistenza di vivi e morti nello stesso spazio scenico (la casa
di famiglia da cui ammirare il golfo napoletano), che è fisso e non a caso
privo di porte, in quanto non si sfugge a ciò che ha originato un’esistenza.
Solitudini, contrasti e incomprensioni nascono da una falsa paternità
illegittima descritta in una lettera della madre Bianca e dal segreto del padre
Paco, un ginecologo dedito alla fecondazione assistita. Laudadio conosce il
pregio di un’ironia feroce. Le due azioni, che cambieranno tutto, avvengono per
denaro, motivazione decisamente prosaica, che mostra come sogni e speranze non
sfuggano al cinismo e al ridicolo. Si assiste inoltre a un capovolgimento di
senso: entrambe le scelte si basano su una fertilità, che di fatto rende
sterile la trama dei rapporti tra difficoltà a comprendere il proprio ruolo e
fiducia che va sonoramente in pezzi. Il tempo non diventa quindi alleato ma
nemico, perché ingigantisce le distanze colmabili guardandosi dentro fino in
fondo. Alla figlia Marta gioverà una verità rivelata da chi sa che i fantasmi
sono compagni fedeli, l’uomo che soffre di aver causato, sia pur
involontariamente, la morte dei genitori di lei. Tale verità, didascalicamente
legata a Napoli (sottolineatura superflua, ma gli artisti di quella città la
fanno coincidere col mondo intero) è che vita e morte devono riconoscersi,
abbracciarsi, trarre il proprio senso l’una dall’altra. “Ci vediamo domani”
dice con amore Marta agli spettri del padre e della madre, che la guardano con
l’affetto paziente di chi ascolta e comprende. Ormai la donna sa che il tempo
può guarire da se stesso, dal momento che domani e ieri sono i nomi vuoti di un
eterno attimo.
Non crederete
mica che sia una bestia leggiadra, amabile, pacifica. È una “gran buttanazza
fetusa”, venuta al mondo per far disperare i pescatori e fare una
”roncisvallata” di pesci spada nello stretto di Messina, beffando tutti con il
suo “genio di mente”. Il delfino appare come non lo avete mai immaginato in
“Epica fera”, l’emozionante spettacolo di e con Gaspare Balsamo in cui Francesco
Salvadore contribuisce a creare un’atmosfera tesa e struggente col tamburo e il
canto sulle qualità e la fine dell’animale o sulle sirene predatrici in una
mare, che è eterna tenzone. Il cunto, che rielabora alcune parti del romanzo
“Horcynus Orca” di Stefano D’Arrigo, ha concluso tra gli applausi, sulla Tonnara
Maria Antonietta a Cetara, “Teatri in blu”, il progetto di Vincenzo Albano. Il corpo
e la voce di Balsamo, tra la fascinazione dei pupi e l’energia del vernacolo, rendono
il racconto profondamente vivido. Il delfino è fera, circondata dalla solennità
sacrale del canto epico, perché strazia reti e pesci con la vorace astuzia che
le ha permesso di ottenere la bellezza, quando Dio la degradò da angelo a
diavolessa. La sua furia traditrice è tuttavia figlia della natura: fa parte dell’oscillare
senza tempo tra vita e distruzione. Per questo il capo della barca, che ha
catturato un maschio (fragile quanto gli uomini, dato che, preso dalla passione
per la compagna, non ha colto la minaccia), ricorda che non c’è posto per la
vendetta in un gioco dove ognuno fa la sua parte e l’ammirazione si mescola
alla sofferenza quando, nella conclusione, i pesci spada sono sterminati da
fere di ogni tipo ( a “sangu ianco”, a “pinna suprana”, a “denti a zappuni”),
descritte a un pescatore orbo come torme di guerrieri. Tutti siamo orbi dinanzi
alla grandezza, se si nutre di forze antiche e sempre vive di fronte alle quali
siamo ben poco. Non vi è alcuna grandezza invece nel potere, che pretende di
stabilire priorità anche linguistiche in modo insindacabile. Il fascista che esalta
la dolcezza del termine delfino è specchio di quello che scaricherà l’intero
caricatore nel cranio del mammifero col pretesto di liberarlo. Ridicoli nella
loro superbia, i potenti si muovono tra vuoti vocaboli da deformare, per sempre
lontani dall’essenza delle cose. Questa appartiene solo a chi non ha casacche
né si sente al di sopra di quel mistero che è l’esistenza. La cialoma, il canto
della mattanza, celebra il cupo splendore della morte contro i fascisti di ogni
tempo, che non sanno di essere già morti.
Un
padrone inflessibile, come sostiene Manzoni? O un’imperdonabile volgarità, come
vorrebbe Wilde? Di certo, se il vero delitto è vegetare sul binario morto della
quotidianità o della logica più stantia, Achille Campanile è senz’ombra di
dubbio innocente. È un omaggio a lui “Delitti per gioco”, lo spettacolo diretto
da Brunella Caputo che ha aperto, presso la Chiesa di Sant’Apollonia, La notte
dei Barbuti, sezione del Barbuti Festival. “Delitto a villa Roung” e
“Misterioso uxoricidio in un caffè del centro o Una moglie nervosa” sono stati
proposti all’insegna di una leggerezza che sbeffeggia ogni convenzione sociale
e teatrale. L’elenco di citazioni sulla natura del delitto, da Balzac a
Morrison, e la minuziosa definizione di gioco, letti con intensità sacerdotale
dalla stessa Caputo, sono bruscamente interrotti dagli interpreti che, oppressi
da tanta cultura, la portano via di peso. L’aura del regista è quindi
sarcasticamente privata di ogni fascino, perché nessuna gerarchia resiste alla
spudoratezza del paradosso. Gli interpreti, che gareggiano in generosità ((Mimma Virtuoso, Renato Del Mastro,
Carlo Orilia, Alfredo Micoloni, Rocco Giannattasio, Augusto Landi, Matteo
Amaturo, Salvatore Albano, Teresa Di Florio, Concita De Luca e Andrea Bloise)
si scatenano in una briosa coreografia (curata da Virna Prescenzo insieme al
disegno luci e alla selezione musicale), che è autopresentazione, preparazione
dello spazio in cui agiranno e soprattutto desiderio di mostrarsi al pubblico
con la compattezza di un’orchestra, dove ognuno conta se in armonia con gli
altri. Che servano tramezzini agli spettatori o galoppino tra le acrobazie
verbali di copioni decisamente inadatti a ogni pigrizia mentale, gli attori
sono a proprio agio in quella giungla impervia che è il linguaggio, trappola mefistofelica
che sabota e deve essere sabotata, perché l’assurdo, cioè la libertà libera
anche da se stessa, trionfi. Se una moglie ostile al calzolaio ricorre a
epiteti poco edificanti davanti al marito, senza che ci sia una benché minima
intesa su inflessioni, sfumature, allusioni, spararle diventa legittima difesa.
Se, nella ricerca di un assassino in una villa, si procede sì con la ferrea
determinazione degli eroi polizieschi, ma a caso, la didascalia diventa
personaggio e l’assassinato si finge morto per trovare un colpevole che non
esiste, la scelta è chiara: perdersi in questo ammaliante delirio e abbandonare
al suo destino quel triste figuro che è il pensiero lineare.