A
vederlo avanzare sulla scena, scarmigliato e delirante, mentre urla e sputa,con
una rattoppata vestaglia, sul cui bordo un merletto preannuncia la mescolanza
di maschile e femminile, si avverte un vivo disagio. È appunto questo che Mimmo
Borrelli si aspetta dal pubblico: vivere senza pudore la sue pièce fino in
fondo, anche a costo dell’angoscia e del disgusto. Proposto presso la Sala
Pasolini ai pigri e insofferenti spettatori salernitani (qualcuno è andato via
o ha preferito lo schermo del cellulare, perché è più facile cercare
rassicurazione nelle conferme che disorientamento dalle sorprese), lo
spettacolo “Malacrescita”, tratto da “La Madre: ’i figlie so’ piezze ‘i sfaccimma” dello stesso
attore, è un ammaliante precipizio da cui è impossibile risalire, dato che quel
che si annida nelle viscere è prigione e condanna. Borrelli si ispira a vicende
di camorra e alla Medea di Euripide per tracciare lo scenario allucinato di due
figli che, ottenebrati dal vino, che hanno bevuto invece del latte materno,
rivivono vicende familiari dominate dall’abuso, dalla rabbia e dalla sconcia
obbedienza alla bassezza. Presente e passato si sovrappongono di continuo nelle
dinamiche genitori- figli rese vive dal protagonista. L’infanzia selvaggia e
tenera è evocata dal suono di un pupazzo di gomma di Antonio Della Ragione, mentre
esegue dal vivo le musiche al servizio di quell’ipnotico fluire di suoni aspri
e sgualciti tra crudezze e litanie che è la lingua flegrea, che ubriaca e
contamina l’ascoltatore non meno dell’alcol avidamente tracannato. L’interprete
è dunque al tempo stesso i due gemelli stravolti e per questo capaci di
cogliere l’essenza delle cose, simboleggiati da due teste di bambole affumicate
(non sono potuti diventare adulti: sono per sempre inchiodati alla condizione
di aborti di individui, pur essendo venuti al mondo), “Santokanne”, loro padre
a cui tutto è dovuto e che concepisce una sessualità solo predatoria, issato su
una sedia da cui disprezza il mondo e la moglie Maria Sibilla Ascione, madre
dei due folli, che unisce in sé il nome e il destino di veggente e di Vergine.
Una Vergine bersaglio di feroci bestemmie, perché costringe a cercare amore
anche dove non ne esiste neanche l’ombra e avvince chi genera e chi è generato
in un legame inaggirabile, soffocando ogni altro desiderio. La rete bianca che
Borrelli indossa è manto e sudario della madre di Cristo, consacrazione malata
a un ruolo svuotato ormai di ogni senso. Come la Sibilla nel cui antro, in gita
da piccola, si accorse di divenire donna (iniziazione a una vita in cui si può
prevedere solo la propria rovina), la madre profetizza la vita disastrosa dei
figli dei quali ha cercato invano di sbarazzarsi: “Mostri siete e mostri
diverrete”, afferma. Si vendica dell’abbandono di Santokanne ubriacandoli,
proiettando nel loro sbandamento l’impeto distruttivo di un’esistenza degradata.
A loro spetta raccontare in modo inconsulto l’accaduto tra bottiglie e fiori
che possono essere solo di plastica, perchè la rinascita è una chimera. Il
racconto però non esorcizza il dolore: può solo perpetuarne l’ossessiva
presenza, renderlo ubiquo come le preghiere calpestate o i suoni irrazionali
della profetessa dove i pagani cercavano invano la verità.
Lo
si può ignorare, deformare, tenere fuori dalla porta, ma si ripresenterà con la
cocciutaggine di un bambino capriccioso. Il passato vuole riappropriarsi del
presente e non c’è occasione migliore del rituale natalizio, che si impone
inesorabile tra mandarini e continui tentativi di accendere l’albero. Storia
solo all’apparenza semplice, “Quasi Natale”, scritto e diretto da Francesco
Lagi, con Anna Bellato, Francesco Colella, Silvia D’Amico, Leonardo Maddalena,
ha fatto da preludio, al Teatro Ghirelli, alla quinta stagione di Mutaverso, il
progetto artistico di Vincenzo Albano. Una madre costretta in ospedale, che non
compare ma di cui si avverte di continuo la presenza, tenta invano di
comunicare per telefono qualcosa ai tre figli: Isidoro, inquieto e sensibile
spirito del focolare; Chiara, che fatica a fare i conti con la propria
fragilità; Michele, non abbastanza dinamico e spregiudicato da avere la meglio
sulle dinamiche familiari. L’infanzia ritorna nei gesti, negli scherzi, negli
oggetti, persino nei rancori mai superati e nelle distanze che raggelano.
Testimone e complice di questa regressione dolce e crudele è Miriam, la donna
di Michele, non a caso somigliante alla madre di lui, che, tra leggende navajo
ed empatia, esorta a udire “il suono del tempo”, a cogliere ciò che si ostina a
non morire. Gli interpreti alimentano una continua tensione emotiva, facendo
emergere, con delicatezza mai innocua o con una sofferenza che tende a implodere,
le ambiguità del quotidiano (un acquario che ricorda troppo da vicino le vite
dei figli), le sensazioni di disagio e il bisogno di calore annidati
nell’ordinario. Non occorrono riti propiziatori (la collana che Miriam strofina
tra le mani con cura): ciò che è già accaduto è nelle viscere, vigila, mette in
discussione, tende trappole. La messinscena lascia affiorare l’amarezza e lo
struggimento propri di chi è sospeso tra un’epoca irrecuperabile e un
equilibrio che tarda a concretizzarsi. Resistere, tuttavia, è inutile: il
passato non è, come è stato scritto, un secchio di cenere, ma una porta che
attende pazientemente di essere aperta. Le polpette materne conservate in
freezer, cucinate e amorevolmente mangiate dai protagonisti, alludono alla
necessità di nutrirsi di sentimenti creduti morti per (illudersi di)
ricominciare. Il telefono ora può squillare quanto vuole, per annunciare il
decesso della donna; tanto, “tutto ha un’anima e tutto rimane”.