Le più belle parole mai
scritte nella più tenace delle solitudini: quella di chi desidera invano che l’oggetto
d’amore gli abiti il corpo e la mente. Diretto e interpretato da Roberto Latini
con una forza che lo consuma e lo esalta, il “Cantico dei cantici” ha aperto,
presso il Centro Sociale di Via Cantarella a Salerno, la terza edizione di
Mutaverso, che ha in Vincenzo Albano il suo direttore artistico. La sensualità del
Cantico è esplorata con dedizione carnale e dolente per invocare una primavera,
più volte citata nel testo, che è armonia con la natura e gioiosa
manifestazione di sé. Eppure è troppo tardi: il sentirsi uno proprio perché si
è in due è un miraggio ossessivo, ma non una conquista. L’isolamento di un
tempo a cui basta la propria sterilità è evidenziato dagli oggetti di scena: la
panchina su cui l’attore è sdraiato (elemento più che mai precario che diviene
culla per un’amante sognata), una pianta che non rimanda a nessun locus
amoenus, ma è usata per mimare un’erezione, la testa di un manichino femminile
(e un fiore, non a caso, finto), immagine di una mancanza; un microfono per
contrapporre l’egocentrismo del sentimento al deserto emotivo. Un egocentrismo
sottolineato dall’innalzarsi della musica quando il protagonista indossa le
cuffie. Con una voce profonda e duttile, Latini percorre il Cantico da una
postazione radiofonica, giocando con le ripetizioni, il livello timbrico, il
chiaroscuro dei vocaboli, perché il desiderio dell’altro, che è anche desiderio
di essere altro, deve propagarsi come un suono o una fragranza (“Il tuo nome si
espande come un balsamo”, recita l’opera) per attrarre chi resta lontano. La danza
sulle note di musiche contemporanee, fino ai gesti compulsivi del coito,
è un tentativo di rimozione, lo sforzo di dimenticare che la mano non ha il
coraggio di formulare un numero al telefono. All’impossibilità di darsi è
finalizzata la citazione tratta da “C’era una volta in America”, in cui i passi
del Cantico esprimono il richiamo e l’inconciliabilità dei corpi. Martellante e
spietata, la frase “Che peccato”, in cui il Noodles di Sergio Leone vede
sfumare il suo sogno amoroso, perseguita l’uomo che, gettando parrucca e abito,
come messo a nudo dal bisogno di essere guardato nella sua essenza, muta il
linguaggio in ansia febbrile, tentativo angoscioso di colmare il proprio vuoto.
Quando abbassa la cornetta un attimo prima che il buio lo inghiotta, mormorerà “Che
peccato”. Quanto pesa il rimpianto di non poter dire a qualcuno “La tua bocca è
un nastro di porpora”.