mercoledì 24 gennaio 2018

Roberto Latini, canto a due per voce sola



Le più belle parole mai scritte nella più tenace delle solitudini: quella di chi desidera invano che l’oggetto d’amore gli abiti il corpo e la mente. Diretto e interpretato da Roberto Latini con una forza che lo consuma e lo esalta, il “Cantico dei cantici” ha aperto, presso il Centro Sociale di Via Cantarella a Salerno, la terza edizione di Mutaverso, che ha in Vincenzo Albano il suo direttore artistico. La sensualità del Cantico è esplorata con dedizione carnale e dolente per invocare una primavera, più volte citata nel testo, che è armonia con la natura e gioiosa manifestazione di sé. Eppure è troppo tardi: il sentirsi uno proprio perché si è in due è un miraggio ossessivo, ma non una conquista. L’isolamento di un tempo a cui basta la propria sterilità è evidenziato dagli oggetti di scena: la panchina su cui l’attore è sdraiato (elemento più che mai precario che diviene culla per un’amante sognata), una pianta che non rimanda a nessun locus amoenus, ma è usata per mimare un’erezione, la testa di un manichino femminile (e un fiore, non a caso, finto), immagine di una mancanza; un microfono per contrapporre l’egocentrismo del sentimento al deserto emotivo. Un egocentrismo sottolineato dall’innalzarsi della musica quando il protagonista indossa le cuffie. Con una voce profonda e duttile, Latini percorre il Cantico da una postazione radiofonica, giocando con le ripetizioni, il livello timbrico, il chiaroscuro dei vocaboli, perché il desiderio dell’altro, che è anche desiderio di essere altro, deve propagarsi come un suono o una fragranza (“Il tuo nome si espande come un balsamo”, recita l’opera) per attrarre chi resta lontano. La danza sulle note di musiche contemporanee, fino ai gesti compulsivi del coito, è un tentativo di rimozione, lo sforzo di dimenticare che la mano non ha il coraggio di formulare un numero al telefono. All’impossibilità di darsi è finalizzata la citazione tratta da “C’era una volta in America”, in cui i passi del Cantico esprimono il richiamo e l’inconciliabilità dei corpi. Martellante e spietata, la frase “Che peccato”, in cui il Noodles di Sergio Leone vede sfumare il suo sogno amoroso, perseguita l’uomo che, gettando parrucca e abito, come messo a nudo dal bisogno di essere guardato nella sua essenza, muta il linguaggio in ansia febbrile, tentativo angoscioso di colmare il proprio vuoto. Quando abbassa la cornetta un attimo prima che il buio lo inghiotta, mormorerà “Che peccato”. Quanto pesa il rimpianto di non poter dire a qualcuno “La tua bocca è un nastro di porpora”.

Nessun commento:

Posta un commento