domenica 3 febbraio 2019

“Winston vs Curchill”, il peso scomodo della storia



Che quello scapestrato di suo figlio fosse destinato a lasciare un segno nella storia, è qualcosa che il padre di Churchill non avrebbe immaginato neppure in sogno. Che il potere logori soltanto chi non ce l’ha è una bugia che molte porte chiuse e molte solitudini potrebbero prontamente smentire. Basato sul testo di Carlo Gabardini, “Churchill, il vizio della democrazia”, lo spettacolo “Winston vs Curchill”, diretto da Paola Rota e allestito al Teatro Verdi di Salerno, ha visto all’opera un energico Giuseppe Battiston, che ha redarguito senza mezzi termini l’ennesimo spettatore mononeuronico troppo innamorato del proprio cellulare per rendersi conto che il teatro è un luogo in cui si pensa. E se non esiste più il pubblico di un tempo, anche gli uomini non brillano più delle antiche qualità. La solitudine in cui di fatto si muove il protagonista è anche quella di un’umanità che preferisce archiviare, sotterrare, dimenticare. Rinunciare alla propria natura è però impossibile ed ecco che Churchill, all’interno di un cerchio di minuscole luci come si conviene a una star sotto i riflettori, ricorda a briglia sciolta fasti, momenti tetri, contrasti, battute di spirito, complessi equilibri, discorsi ufficiali in cui scommettere tutto, la credibilità prima della vita, senza risparmiare a nulla e nessuno un sarcasmo che avrebbe messo a dura prova anche i nazisti. Ostinato nei propri vizi per opporsi al cane nero, come lui chiama la depressione che gli mangia l’anima, facendo della sua imponenza fisica il riflesso di un peso troppo grande (la salvezza della patria), lo statista celebra il proprio egocentrismo tra un Churchill Martini, un sigaro e ricordi ingombranti: una figlia suicida, il bisogno di avere ancora tutto nelle proprie mani, la voglia d’amore soffocata ma non spenta. L’infermiera al suo fianco (la carismatica Maria Roveran) diventa compagna di gioco (quali sarebbero le ultime parole di entrambi?) ma anche vendicatrice: il padre è tornato distrutto dalla guerra voluta proprio dal suo paziente ed è stato proprio il nome di quest’ultimo a restare sulle sue labbra in punto di morte. La donna non sa perdonargli di aver fatto la cosa giusta, di aver promesso e mantenuto “lacrime e sangue”.  Le conseguenze di una scelta diventano cicatrici. Chi sopravvive a un disastro non riesce mai ad allontanare definitivamente l’ombra della morte, ma l’interpretazione appassionata di Battison impedisce di cadere nella trappola della retorica. Il personaggio eccessivo e inquieto che viene pazientemente costruito sa conquistare e coinvolgere, mescolando con rara scaltrezza dignità, dolore e sfida continua alla rassegnazione. Quando un discorso che incoraggia le nuove generazioni ad agire per la società risuona alla radio e l’uomo resta seduto in poltrona, sta celebrando il suo funerale. Al tempo stesso però sta dimostrando che il passato non è stato vano. In fondo, come dicevano già i Greci, “anche al tramonto è sempre sole/il sole”.

Nessun commento:

Posta un commento